Casa Landau. Ricordando Carmelo Samonà
La prima impressione – fortissima, peraltro, impossibile a ignorarsi cominciando a leggere il primo capitolo del libro di Carmelo Samonà uscito incompiuto e postumo (Casa Landau) è stata di “sorpresa”: ma non già di sorpresa come scoperta dell’Autore e tanto meno sorpresa o rivelazione di bellezza del dire e del descrivere: che, queste cose, erano prevedibili, in un libro di Samonà, quasi attese, dopo “Fratelli” e “n Custode”. Ma sorpresa, delle mie reazioni alla lettura: una risposta immediata da dentro, come un aver teso l’orecchio ad ascoltare eco di cose lontane e attualissime, risvegliate da una bacchetta di artista affinato, capace di resuscitare memorie, emozioni, sensazioni accantonate, sopite nel nostro io più profondo perché prive di riscontro nel normale quotidiano. Ho cercato di capire che cosa avesse provocato in me questa grande emozione, dopo aver letto solo poche pagine. E non ci sono riuscita. Ma mi sono ricordata di averne provata una simile, a diciotto anni, leggendo per la prima volta “Le Grand Meaulnes” di Alain-Fournier. Quel libro della gioventù ha lasciato in me una traccia che permane nel tempo, fonte d’indicibile inquietudine, dell’anima e al tempo stesso di una gioia immateriale, intangibile senza movente. Si diceva, un tempo: “ha fatto vibrare tutte le mie corde”. Ebbene, anche se la frase è in disuso, per questa “sensazione” non posso che richiamarla sotto le armi. È come un brivido sottile, che attraversa le fibre e riporta momenti dell’infanzia, della prima gioventù; è come una sintesi perfetta di quello che sentiamo e vorremmo esprimere, senza riuscirci; un insieme di profumi, di incertezze, di aspirazioni che portiamo dentro e che il più delle volte non riescono a trovare un loro sbocco: un anelito a capire sempre di più.
“Le domaine inconnu”, le “domaine mystérieux” di Alain-Fournier, “comme un souvenir plein de charme et de regret”, fatto di silenzi, di ombre, di solennità, e al tempo stesso di mille odori mischiati tra loro, di un profumo profondo che tutto avviluppa e appare come segno tangibile di una presenza infinita quanto indefinita, è come l’entrata in un altro mondo di anime che cercano le loro risposte, che vogliono capire, che tremano di paura ma al tempo stesso portano in sé la forza, la spinta assoluta e irrinunciabile della necessità del conoscere, del sapere, del voler vedere. È un “domaine” nel quale non sembra di poter penetrare se non divenendo prima nuvole, raggi di sole, soffi di vento… Cui si accede da un grande viale… Il viale misterioso che porta a “Casa Landau” – che Samonà ci fa percorrere con un “brivido di paura”, con l’ansia del personaggio del suo romanzo ultimo – e un po’ come il viale che porta, in Alain-Fournier, al “domaine mystérieux”. Solo che, mentre il “viale” di Alain-Fornier, del quale non si intravede la fine, si suppone conduca a una dimora di fate, verso un incantamento, un incantesimo preparato solo per noi, nella migliore tradizione dei simbolisti, il “viale” di Casa Landau è come il sentiero della conoscenza dell’uomo moderno, del ragazzo che percorre il sentiero della vita, con le sue paure e la sua attrazione per il mistero, le sue scoperte sempre al limite dell’immaginazione, il desiderio, la necessità di conoscere, costi quel che costi, la rivelazione progressiva delle cose e del loro significato. Non ricerca senza scopo, curiosità: ma ricerca di chi, pur in età assai giovane, vuol capire; di più, che sa di dover cercare per capire la vita stessa e i suoi misteri percorrendo la via della conoscenza, che passa, sì, attraverso quello che si apprende dai maestri e nei libri, ma è soprattutto necessità di scoprire la verità sulle cose e sugli esseri umani – e i misteri che li avvolgono – giungendo da soli alla rivelazione dell’incognito. Questa la differenza essenziale nelle due letture, per me. E non a caso lettura, l’una, della giovinezza, con i suoi sogni senza forma, della maturità, l’altra, con la stessa pienezza di funzionamento delle antenne, che però nel tempo sono diventate anche chiave di lettura per la realtà.
Non strana, dunque, la stessa emozione provata nei due casi, a distanza di tempo. Strano è invece che ci si accorga in maniera così vistosa, da farci ammettere che solo pochi, e veramente pochi, riescono a cavar fuori da noi il nostro “tutto”, in modo da costringerci a leggere le loro pagine con tutti i nostri sensi, con tutte le nostre forze e le nostre potenzialità: per arrivare a capire. Questo è certamente il caso di Samonà.
Ho conosciuto poco Camlelo Samonà: e me ne faccio un cruccio; ma sono grata agli amici che me lo hanno fatto conoscere e so che devo loro molto. Credo di averlo intuito, comunque: e non posso che rammaricarmi di aver avuto poco tempo per conoscerlo meglio. per approfondirne la conoscenza: e mi rattrista fin d’ora pensare che. quando invecchierà, un “maestro di vita” come lui non sarà vivo, materialmente. Il sentimento che ha legato per anni Carmelo Samonà ad ognuno dei suoi amici, per motivi diversi e non sempre comprensibili ai più, testimonia nel tempo la presenza di un uomo speciale, di un essere umano speciale. di un amico speciale, di un uomo di cultura speciale. Anche in morte Samonà ha permesso ad amici e parenti. a quelli che aveva cari e che lo avevano caro. di stargli accanto per un funerale a dir poco inconsueto.
Dalle parole “dette” ai funerali di Carmelo Samonà da Francesco Orlando – in mezzo a una strada. costretti, i presenti tutti, a reinventare un modo per trattenere il defunto tra loro, quasi per impossibilità di separarsene con la brutalità di un funerale “normale” – (e pubblicate recentemente sulla Rivista “Belfagor”) – mi è rimasto impresso questo: “Si potrebbe dire che. mentre a me è possibile cogliere l’importanza e il significato delle parti solo all’interno di un tutto, per lui era il valore del tutto che poteva passare solo attraverso quello delle parti”. Credo che questo fosse assolutamente vero, per Carmelo Samonà.
Orlando ha ricordato anche una conversazione che, lui quattordicenne e Samonà ventiduenne, nell’immediato dopoguerra, ebbero in un bosco “incantato” di Gibilmanna, aggiungendo: “da quel bosco incantato in un certo senso non sono uscito mai più”. E quel bosco, sulle colline di Sicilia, era certo rimasto a far parte integrante anche di Carmelo Samonà. Di quella sua Sicilia di origine, infatti, di Palermo in particolare, portava segni antichi, tracce di civiltà molteplici. straordinariamente ricomposte e unificate al suo interno; nonché alcune parole inconfondibili, determinanti: e il “mistero”: un mistero fatto di sguardi, di saggezza e di accattivante attrazione, da “gattopardo” di grande intensità e spessore; di profumi, profumi della Sicilia, dalla zagara aspra e dolce al gelsomino d’Arabia… profumi, tutti, pieni di contrasti, avvolgenti, indimenticabili.
Così come una sensibilità di qualità straordinaria e rara, un’intelligenza umana e intellettuale d’eccezione – vero “intelligere”, nel senso etimologico della parola: ossia, “capire”; mirabile fusione, in lui, delle energie del cuore e della testa. Così il suo scrivere, che nella incredibile capacità di sintesi non trascura il minimo particolare e lo fa assurgere a pienezza: anch’esso, vorrei dire, pieno di “profumi” evocatori. Il suo procedere asciutto e stringato, ma al tempo stesso ricchissimo, moderno e attualissimo, ma pur carico di tutto l’antico che la sua personalità porta dentro, senza mai indulgenze ma vivissimo d’immagini che denunciano una fantasia al colmo delle sue potenzialità, è raro esempio di prosa attuale, coltissima e semplice: come, del resto, il suo autore.
Carmelo Samonà è stato portatore di valori tali da segnare chiunque lo abbia “incontrato”. Ed è testimonianza che durerà nel tempo di come tali valori – se sono tali e quando sono tali – sanno anche manifestarsi e possono essere recepiti dagli altri.
La parola di Samonà è anche musica – quella musica che da Beethoven al più tardivo, amatissimo, Mozart, ha fatto sempre parte della sua vita: ma è, soprattutto, ritmo: quel ritmo che è l’esistenza stessa quando segue il suo filo conduttore. che come un concerto brandemburghese di Bach precipita nel dolore o sorride sul filo dell’ironia, dando il giusto senso alla vita e trovando verso di essa il giusto atteggiamento, sempre. La sua parola scritta è “sintesi”.
Pochi hanno attraversato – credo – vicende gravi e prepotenti di richieste come quelle che si è trovato a fronteggiare Carmelo Samonà: eppure, il suo far rotta sui sentieri della vita non si è interrotto se non in morte, ne ha interrotto il filo del suo calore umano, delle amicizie, della sua attività intellettuale, della sua ricerca spasmodica e perenne di cercare di comunicare con gli umani, al di là di un’originaria riottosità caratteriale e di una grande istintiva riservatezza “antica”. In tutti i suoi libri troviamo questo sforzo immenso, sempre incarnato e spesso premiato, di trovare comunque, a prezzo di superamenti eroici, lo strumento giusto per comunicare con chiunque, ponendosi e proponendosi come “persona” anche di fronte al muro del silenzio e, spesso, della follia, in qualsiasi forma questa si manifestasse.
Una parola ricorrente ha destato nel corso della lettura di Casa Landau la mia curiosità specifica e la mia attenzione: “inveramento”. Parola desueta, ora, ma un tempo cara al lessico filosofico di Croce e di alcuni suoi predecessori, certamente studiati da Samonà giovane. Samonà usa questa parola con frequenza inaspettata in lui, con una assiduità da “basso continuo”. quasi a ricordarci il trasporsi della sua fantasia eccezionale di ragazzo – imbevuto di romanzi storici, di Jules Verne, di Victor Hugo – il “calarsi” nella realtà di uno che ne ha paura, ma nondimeno non si rifiuta mai di scoprirla, di affrontarla, costretto dalle circostanze, “trascinato dai fatti, da alcuni fatti più forti di ogni immaginazione, di ogni possibilità di traslato o trasferimento” (p. 90).
“Una specie di emendamento alla dottrina libresca si faceva luce nella mia mente”, ci dice a un tratto. “Forse non ero io che governavo dall’alto de “I miserabili” la successione degli eventi di Casa Landau. Forse questo potere non era in me, e non era neanche nella trama del libro, con tutte le modifiche e i mutamenti di rotta che potevo introdurvi. Qualcosa accadeva “di fuori”, e possedeva una sua forza. Probabilmente, alla dottrina della dipendenza della vita dai libri e delle circostanze degli individui da quelle dei personaggi fantastici. bisognava sostituire l’idea di una sintonia, d’una convergenza segreta e ininterrotta fra i due momenti; e la teoria di un disegno generale. continuamente in atto, che comprendeva i personaggi e i viventi (questi non più come proiezioni o reincarnazione dei primi ma come una loro progenie) poteva ancora sussistere”. Sembra di poter intuire in queste parole significati profetici, misteriosi, che potrebbero aver adombrato avvisaglie personali di morte come di avvenimenti oscuri e fatali riferiti alla storia che ci racconta.
Due parole sulle “donne” di casa Landau. La figura della madre amata e desiderata ma, in un certo senso, non all’altezza del suo compito nei riguardi di un figlio tredicenne assai maturo per la sua età e, quindi, per lei problematico, pieno
di “risvolti”, di “pieghe”, di sfumature, che vive una vita tutta e solo sua, mascherando e celando i sentimenti più profondi e i turbamenti propri della sua età di transizione alle due donne che gli sono parenti e a lui più vicine “fisicamente”. Estraneità e incomunicabilità, dunque, con coloro che meglio dovrebbero poterlo capire perché lo hanno quotidianamente sotto tiro. È una certa disistima, quindi, e per l’una e per l’altra, che diventa a tratti bonomia o quasi sufficienza, come a dire: «sono molto più “grande” io di voi». Per una madre, dunque, che vive in modo assai immaturo la separazione dal marito, – che accusa di “non esserci”, per il figlio, di fronte alla educazione del quale si sente inadeguata; e per una sorella in qualche modo “complice” della madre, e quindi distante, preoccupata di sé, molto più grande di lui, che denuncia antichi retaggi di una certa educazione e un desiderio evidente di prevaricazione nei confronti del fratello minore: un rapporto misto di sensi materni e di avversione, dovuto a non-comprensione.
“Distanze” – come dire – dal protagonista del romanzo, che vive con i cinque sensi tesi e ricettivi come antenne di un radar, cui nulla sfugge nel corso di una giornata. Così Samonà, di cui si può dire che abbia messo a frutto in ogni istante della sua vita i sensi tutti di cui la vita lo aveva dotato: strumenti perfetti e affinati di cui usufruiva ininterrottamente, percependo con gli occhi, le orecchie, l’olfatto ogni più piccolo o debole cenno che provenisse dagli esseri umani. E trasmettendo a questi allo stesso modo.
E “Miranda”, la “donna della finestra” di Casa Landau, che costituisce forse per lui nel racconto anche la scoperta della donna ma che, forse proprio perché “creatura angelicata”, “angelo caduto” – come dice il professor Landau al ragazzo – è dunque una “creatura anomala, dolorosa e goffamente sublime”. “È umana? Certamente è composita, e dunque è anche umana, ma fra i propri simili rimarrà sola e sperduta e sarà punita e reietta”. Quanti messaggi nelle parole di Samona…
Alla richiesta di aiuto del Professor Landau il ragazzo risponde, decidendo di “arrischiarsi” ed entrando così “nel periodo più intenso e travagliato” della sua vita, l’incontro con la realtà e il suo coinvolgimento in una responsabilità che teme ma che non rifiuta.
I vari personaggi – rispetto ai romanzi precedenti di Samonà – che si muovono nel libro Casa Landau sono, in un certo senso, una novità. Così come lo è, in qualche modo, lo spalancarsi delle tende quando il ragazzo, presa la sua decisione e “iniziato” alla stanza della misteriosa creatura femminile che è Miranda. immerge la stanza “nella luce del giorno”. Sembra quasi, a volerlo cogliere, che una tenue nota di speranza si insinui nelle vite dei protagonisti del racconto a dispetto delle situazioni e dell’ambientazione stessa del racconto, che fa presagire tacitamente la guerra alle porte e la probabile disintegrazione di tutti, salvo che del narratore, che assurge perciò quasi a simbolo della continuità della vita contro le nefandezze in predicato: “del professor Landau e di sua figlia non ho saputo più nulla”. Che cosa non ci fa sottintendere Samonà con queste poche, incisive parole, che potesse essere detto più esplicitamente? Tutti gli orrori della guerra, il massacro degli Ebrei – racchiuso forse solo nel nome ebraico di Landau – e quello che non può comunque essere descritto in parole… I rapporti stessi tra i personaggi, in questo romanzo, così intensi ed essenziali, sono incisi per sempre in noi con poche, straordinarie pennellate che dicono più delle parole…
L’inizio del Capitolo XVIII, rimasto incompiuto alla morte di Samonà, resta quasi a testimonianza non casuale di un suo sguardo finale verso la “vastità” della vita e di tutti i suoi aspetti simboleggiata nella “villa”. Umori infiniti, decadenza e presenza umana “esperta”, qualità e abbandono: uno scenario complesso e grandioso ma, soprattutto, senza confini.
“Io, per la verità non trovai mai il muro di cinta che mi aspettavo, ricoperto di edera e muschio, segno sicuro di un limite della villa”. Queste, le parole ultime di Casa Landau: che assurgono a espressione poetica assoluta, ma anche a simbolo inequivocabile della apertura di orizzonte, sconfinata, propostaci in vita e in morte da Carmelo Samonà.
Per lui mi vengono alla mente le parole di Baudelaire ne L’Albairos. Queste, certo, gli si attagliano, anche troppo facilmente. Ma mentre l’albatros di Baudelaire ha ali da gigante, sì, ma che gli impediscono di camminare, di Carmelo Samonà si può invece dire che le sue ali, di apertura veramente eccezionale, non solo non gli hanno impedito di volare spaziando in orizzonti ai più preclusi per insufficienza di strumenti, ma gli hanno permesso di camminare tra noi come uno di noi; uno che però ci indica la via per il superamento degli ostacoli anche i più difficili, non perdendo mai il senso concreto della realtà e il senso dell’umorismo. e sapendo godere appieno di ogni moderna forma di comunicazione che possa aiutarci a vivere e a sopravvivere trasferendo anche la realtà nell’immaginario.
Francesca Boesch
Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 17-23.