Esperienze con i gruppi e tossicodipendenze
La tossicodipendenza offre sempre continui stimoli per una ricerca sui fattori individuali e collettivi che intervengono nel produrre e mantenere il fenomeno.
Il piccolo gruppo consente spesso l’osservazione di dinamiche e processi – allo stato nascente o terminali, a seconda del tipo di gruppo – collegabili all’intergioco degli assunti di base (attacco-fuga, accoppiamento, dipendenza) così come concepiti da Bion.
Ogni sottogruppo sociale tende a cristallizzarsi progressivamente su uno specifico assunto di base con sempre minori capacità di trasformare la propria “cultura”, cui ciascun individuo tende ad aderire acriticamente per fortificare i propri sentimenti di appartenenza al gruppo.
Tendenze alla contrapposizione culturale generazionale insieme a bisogni ludico-trasgressivi (così come ho potuto osservarli conducendo un Gruppo di Formazione Psicologica centrato sul Rapporto Interumano con Tossicodipendenti) possono progressivamente assumere l’aspetto di tragico gioco alla “roulette russa”, con l’eroina al posto della rivoltella, come è emerso attraverso una attività di gruppo con tossicodipendenti.
Il primo gruppo cui farò riferimento l’ho condotto circa sette anni fa. Si trattava di un gruppo di Formazione centrato sul rapporto interumano con tossicodipendenti da parte di volontari di diversa età; infatti il gruppo era composto da insegnanti e studenti di alcune scuole medie superiori.
I partecipanti, attraverso il gruppo di formazione, intendevano acquisire degli strumenti psicologici utili all’approccio con allievi o compagni tossicodipendenti ai fini di un eventuale recupero. A livello preconscio era presente nei partecipanti il desiderio di ottenere, attraverso il lavoro di formazione, una sorta di licenza riguardo l’attività di volontariato con tossicodipendenti, altrimenti sentita come eccessivamente trasgressiva, in mancanza di adeguate conoscenze e di strumenti circa l’agire.
Ritengo che ad un livello ancora più profondo, pertanto del tutto inconsciamente, i partecipanti, sia gli adulti che i giovani, avevano aderito al gruppo per rinforzare le proprie difese psicologiche contro pulsioni tossicomaniche risvegliate, come spesso accade, dalla vicinanza con la droga e con soggetti drogati. Una seduta del gruppo risultò particolarmente illuminante riguardo quest’ultimo aspetto.
Quella sera nel gruppo si poteva avvertire un certo disagio collettivo, una certa tensione velata. Alcuni giovani, dopo il mio arrivo, erano rimasti a lungo affacciati al balcone, senza mostrare eccessiva voglia di rientrare e prendere posto.
Iniziata la seduta, la discussione avveniva in modo svogliato e divagante; si parlava di scuola, di esami, della maggiore o minore importanza degli appunti dettati dall’insegnante rispetto ai libri di testo, e così via. Nel complesso regnava un’atmosfera stagnante e confusa, il gruppo era incapace di portare avanti dei discorsi ordinati e di funzionare come gruppo di lavoro. Ciascuno parlava senza convinzione e senza alcuna vera partecipazione affettiva come se in realtà ognuno si rendesse conto che quello che stava dicendo o quello di cui si stava parlando aveva poco o niente a che fare con i propositi coscienti del gruppo.
Di questo andamento probabilmente il gruppo me ne faceva una colpa, in quanto conduttore, provando un certo risentimento nei miei confronti.
Inoltre, il gruppo mostrava scarsa capacità di sviluppare immagini rappresentative e fantasie e ciò facilitava l’agire. Mi sentii in dovere di ricordare al gruppo che lo scopo delle riunioni era analizzare il rapporto interpersonale nell’approccio con tossicodipendenti.
Fu a questo punto che una studentessa di nome Adriana, che potremmo definire la leader dei membri più giovani, “trasse il dado”, cioè si comportò nel modo e nella forma più congeniale quella sera al gruppo. Mi chiese se fumare quaranta spinelli al giorno potesse risultare nocivo alla salute, aggiungendo che si era incontrata con un ragazzo tossicodipendente di sua conoscenza il quale le aveva confidato che dovendo sostenere gli esami di fine anno non vedeva l’ora di poter fumare quaranta spinelli in un solo giorno, un volta liberatosi dagli impegni scolastici. lo cercai di saperne di più sulla relazione interpersonale che si era stabilita tra la studentessa e il ragazzo tossicodipendente, ma nel gruppo si produsse una serie di interventi, ad opera sia dei giovani che degli insegnanti, che sembravano avere lo scopo di sviare l’argomento. Adriana tentava di evadere dall’analisi del suo rapporto col tossicodipendente, sostenuta dal gruppo che tendeva a considerare il “caso” come privo di risvolti interessanti dal punto di vista psicodinamico.
Potevo cogliere una certa ansietà generale, come se tra i partecipanti vi fosse il timore che emergesse qualcosa di indiscreto. Adriana da me sollecitata ripetutamente si decise a rivelare che era stata spinta dalla curiosità ad avvicinare quel giovane perché era noto come il “più grande fumatore di spinelli della città”. Si era incontrata più volte con lui, e avendogli parlato del nostro gruppo, avevano deciso insieme che lei portasse uno spinello per mostrarlo a tutti i partecipanti. Detto questo, depose su un tavolo un pacchetto che teneva in tasca e apertolo mostrò a tutti uno spinello. Chiesi ad Adriana come mai avesse pensato di fare questo, ma la ragazza invece di rispondere alla mia domanda mi chiese, a sua volta, cosa c’era di male e, mentre il gruppo era ancora intento a stabilire se quaranta spinelli in un giorno potessero essere dannosi, aggiunse che forse io avevo paura dello spinello.
Potevo cogliere in Adriana un atteggiamento di sfida che a stento era tenuto coperto, e ciò naturalmente le provocava una paura che aveva proiettato su di me. Naturalmente lo spinello in se e per sé non c’entrava per niente, ma Adriana aveva colto in me un certo turbamento che lei aveva interpretato come paura dello spinello, mentre in realtà la mia angoscia era molto più profonda, paragonabile a quella che può provare un medico che debba assistere alla nascita e allo svilupparsi in vivo di un tumore in un proprio paziente.
Adriana potenzialmente era già una tossicodipendente e in lei quella sera aveva parlato la tossicodipendente. Il gruppo, che coscientemente era stato chiamato ad una insidiosa complicità, a livello inconscio era stato invece investito proiettivamente delle valenze dell’altra parte di lei, la parte che lottava le pulsioni tossicomaniche. Esso poteva aiutarla e sostenerla nel non cedere alla tentazione, al dèmone. La reazione del gruppo al suo “acting-in” doveva offrirle l’indice attraverso cui orientarsi. Una paradossale forma per non giocarsi l’esistenza.
Il secondo gruppo cui farò riferimento risale a due anni fa. I soggetti che vi facevano parte erano tutti tossicodipendenti cronici. Pur conscio delle difficoltà cui sarei andato incontro, personalmente ero fortemente interessato a verificare la possibilità di svolgere una terapia di gruppo con tossicodipendenti ed, inoltre, quali meccanismi gruppali fossero attivi, quali fantasie, quali assunti di base, quale mentalità di gruppo. I più scettici riguardo alla possibilità che gli altri si presentassero alla prima seduta erano gli stessi tossicodipendenti, ma contrariamente alle loro aspettative tutti gli aderenti vennero regolarmente in occasione della prima riunione.
All’inizio, attraverso le comunicazioni dei partecipanti, emerse la notevole dose di scetticismo e di diffidenza presente in loro per tutto ciò che aveva a che fare con la droga, con i drogati, con le istituzioni destinate al recupero. Concordavano unanimamente nell’opinione che le comunità terapeutiche avessero il fine di sfruttare i fondi regionali; che gli ex drogati che gestivano le comunità alla prima occasione tornassero a drogarsi. Rimarcavano il fatto che dei tossicodipendenti non c’è mai da fidarsi, che le coppie dei tossicodipendenti devono sempre temere il tradimento da parte del partner e scappatelle-droga all’insaputa dell’altro. Evidentemente ciascuno proiettava all’esterno l’essere diventato falso e bugiardo e la scarsa autostima. Ritengo che nello stesso tempo il gruppo dei tossicodipendenti tendesse metaforicamente a lanciarmi dei segnali come se volesse sottolineare che non mi dovevo fidare di loro. Per altri versi, malgrado le critiche nei confronti delle comunità terapeutiche e delle loro regole di vita, i tossicodipendenti manifestavano il desiderio di rimanere costantemente in contatto con una persona di loro fiducia, uno psicologo che stesse loro a fianco ventiquattr’ore su ventiquattro per guidarli, per proteggerli. Questo mi fece sorgere il pensiero che il gruppo stesse fantasticando che io potessi diventare una sorta di loro angelo custode.
I partecipanti erano tutti concordi nel ritenere che il metadone non avesse alcuna utilità ed inoltre tutti sostenevano che all’inizio della tossicomania v’è sempre curiosità. Criticavano uno psicologo che si era occupato di loro per le domande che aveva rivolto: “come mai hai cominciato?”, “perché ti sei bucato la prima volta?”, ecc. Ad un certo punto uno dei partecipanti, tra l’approvazione generale, cominciò a decantare in modo seduttivo gli effetti dell’eroina e della cocaina; ciò mi fece pensare che il gruppo stesse fantasticando che io potessi diventare uno di loro; ma una ragazza del gruppo disse qualcosa che mi fece pensare che io venissi considerato come un bambino da preservare. Ma non si trattava di un pensiero affettuoso; bensì di un pensiero sminuente il mio valore personale rispetto alla loro capacità di vivere l’avventura “eroina”. Infatti attraverso le comunicazioni di un altro partecipante potei comprendere che il gruppo mi poteva considerare un bambino da preservare sino a che non c’era la possibilità di spillarmi dei quattrini; in questo caso non ci sarebbe stata alcuna esitazione a farmi entrare nel “giro” dei drogati. Quando interpretai questo al gruppo, dicendo che venivo considerato come un bambino e che la mia promozione ad adulto sarebbe avvenuta solo in conseguenza del guadagnarmi lo “status” soddisfacendo la loro necessità di avere denaro, si verificò un cambiamento nel gruppo e venne fuori la parte più dolorosa della loro esperienza personale e le motivazioni più vere che avevano portato alla tossicomania come ad esempio le crisi personali.
Un tossicodipendente sposato e padre di un bambino raccontò di una soluzione fisiologica che si era praticato per flebo e in cui aveva aggiunto dell’eroina convinto di poter chiudere la cannula quando avesse voluto, ma che in questo modo aveva rischiato di finire in coma.
Io dissi che questo mi faceva ricordare la roulette russa, ma l’interpretazione non fece piacere ai miei “tossici” perché riguardava le loro angosce di morte e le loro pulsioni autodistruttive.
Nel complesso il clima relazionale del gruppo era abbastanza piacevole, non c’era l’atmosfera da laboratorio clinico; uno dei tossicodipendenti aveva cominciato a rivolgersi a me in modo confidenziale dandomi del tu; se non fosse venuto un collaboratore a ricordarci l’ora tarda, la seduta avrebbe potuto proseguire senza fine. Questo può far nascere la considerazione che i tossicodipendenti anche per le sedute di gruppo possono diventare voraci, ingordi, senza limiti; almeno per una volta, dato che in occasione della riunione successiva nessuno dei partecipanti ritornò.
Alfredo Anania
Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 35-43