La morte, il dolore, la lotta, la determinazione storica dell’esistenza, nella concezione filosofica di karl Jaspers1 sono considerate «situazioni limite». Situazioni, cioè, inevitabili poiché legate al nostro essere al mondo. L’uomo, di fronte ad esse, rimane impotente, contro di esse urta e naufraga perché non può mutarle né comprenderle profondamente. Tra le situazioni limite Jaspers include anche la «colpa». In ambito psicoanalitico si definisce «sentimento di colpa» quella sofferenza psichica derivante dalla sensazione, più o meno conscia, di aver causato o di poter causare un danno o del male ad oggetti amati. Tali sentimenti stanno alla base delle angosce depressive.
Gli stati depressivi non costituiscono una prerogativa della specie umana; infatti, osservazioni naturalistiche e ricerche sperimentali hanno permesso di verificare la presenza di comportamenti depressivi o «di disperazione» anche nei giovani mammiferi – nei primati in particolare in rapporto a vicende di separazione, di isolamento o di rottura dei vincoli di attaccamento affettivo. Tali comportamenti, nel mondo animale, avrebbero una funzione biologica adattiva; costituirebbero «segnali» diretti ad avvertire il gruppo, in particolare i genitori o la madre, che uno dei membri più piccoli si trova in pericolo. Dunque gli atteggiamenti depressivi avrebbero la funzione specifica di stimolare nei membri adulti la cura e la protezione degli individui più indifesi.
Non dissimili appaiono in campo umano le finalità della depressione almeno al suo primo apparire nella vita psichica individuale – quando si tenga conto delle teorie psicoanalitiche attualmente più condivise. Secondo M. Klein è possibile collocare attorno al sesto-ottavo mese di vita l’attivarsi nel lattante di una «posizione depressiva» che è capace di mobilitare nella madre delle risonanze affettive, dei sentimenti di colpa e conseguentemente – secondo la formulazione di F. Fornari – delle necessità di «amore-redenzione» che si traducono in una intensificazione da parte della madre di quelle risposte amorevoli e di quell’empatia che sono indispensabili al bambino per superare la fase depressiva.
La posizione depressiva è interpretata dalla Klein come il risultato della insorgenza di sentimenti di colpa e di una reversione all’interno dell’aggressività nel lattante, allorché egli, acquisita la capacità di conoscere la madre come un oggetto totale, si rende conto che sta dirigendo contro di essa, nel momento della frustrazione, i propri impulsi ostili e distruttivi. Dunque nel pensiero kleiniano la nascita del super-Io non avverrebbe nella fase edipica ma nel corso del primo anno di vita.
Lasciando sospeso ogni giudizio circa l’effettiva liceità di attribuire al lattante sentimenti che possono apparire plausibili solo compiendo uno sforzo di estremizzazione analogica con i sentimenti dell’adulto, possiamo tentare di affiancare alle teorie kleiniane altri rilievi psicodinamici i quali possono portare un contributo alla chiarificazione circa lo svilupparsi delle radici del senso di colpa negli umani. Innanzitutto dobbiamo ammettere che la madre possa avere normalmente delle discontinuità nella sua capacità di rispondere sollecitamente o nei modi adeguati a tutti i bisogni dell’infante; pertanto possiamo considerare le frustrazioni come accadimenti normali nella vita di ogni bambino; anzi noi oggi sappiamo che le frustrazioni sono necessarie perché possa svilupparsi no, perché possa avvenire la nascita psicologica. Sotto quest’ottica le posizioni depressive del lattante appaiono risposte fisiolgiche a vicende di allentamento di vincoli di attaccamento affettivo, a carenze di cure, ad assenze della madre-seno nel momento del bisogno.
Considerato che pulsioni di vita e pulsioni di morte in ogni essere si trovano in equilibrio dinamico tra di loro, siamo costretti ad ammettere che l’assenza della madre-seno, cioè la carenza di apporti libidici dall’esterno, provochi uno spostarsi dell’equilibrio in favore delle tensioni aggressive che appunto – in quanto emergenti in assenza di oggetti gratificanti – non possono che scaricarsi verso l’interno dell’individuo con conseguenti valenze autodistruttive. Dunque, la mancanza di apporti libidici dall’esterno, cioè l’assenza di oggetti dispensatori d’amore corrisponde a qualcosa di cattivo, ad un male, ad un .noxa» che può mobilitare l’emergere di ciò che F. Fornari2 definisce .terrificante interno», quale percezione orlginaria dell’istinto di morte.
Quanto sinora considerato ci porta a dover ammettere che a livello “proto” esiste una accentuata correlazione tra allentamento dei vincoli di attaccamento affettivo e mobilitarsi di cariche autodistruttive. Ma possiamo, inoltre, ipotizzare che esiste in ciascuna specie un rapporto direttamente proporzionale tra potenziale aggressività, necessità di apporti libidici e prolungamento del periodo di completa dipendenza ai fini della sopravvivenza. Sotto quest’aspetto l’uomo occupa il primo posto in assoluto nella scala evolutiva relativamente a tutte e tre le variabili considerate.
Ritornando all’oggetto precipuo di questa relazione, è necessario riflettere sulla singolarità della situazione in base alla quale la sopravvivenza del bambino trova il suo principale fondamento nella possibilità di risvegliare, tramite la posizione depressiva, dei sentimenti di colpa nella madre, la quale sarà così sollecitata a mobilitare tutte le sue risorse lenitivo-riparative.
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Abbastanza esemplificato appare il caso di una giovane donna, già madre di un bambino di 5 anni, la quale dopo la nascita del secondo figlio, anch’esso maschio, sviluppò un accentuato stato depressivo in seguito alla profonda delusione per non aver avuto la figlia femmina, ardentemente desiderata. Insieme allo stato depressivo la paziente presentava delle alterazioni ideative, in forma ossessiva, rappresentate dal pensiero che il figlio non fosse suo: altre volte, invece, pensava che il figlio non appartenesse al marito, pur non avendo mai avuto rapporti sessuali extraconiugali. Quando la donna iniziò le sedute di psicoterapia il bambino aveva ormai otto mesi e da tempo aveva preso l’abitudine di piangere quando non veniva tenuto in braccio: poi, di notte, riprendeva il pianto ogni qual volta gli sfuggiva il ciucciotto, ma siccome ciò accadeva con una frequenza impressionante, quasi ogni mezz’ora, la madre era costretta a svegliarsi di continuo per riportargli il ciucciotto in bocca. Il fatto più interessante è che la donna inconsciamente aveva in qualche modo contribuito in forma decisiva allo svilupparsi di suddetti atteggiamenti nel bambino, poiché, contrariamente ad ogni aspettativa, aveva preso sin dall’inizio l’abitudine di tenerlo continuamente stretto a sé, come a proteggerlo dalla benché minima sofferenza, come se non potesse tollerare che il bambino piangesse; non rendendosi conto che il proprio modo di comportarsi era collegato ai sentimenti di colpa.
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Con il trascorrere dei mesi il bambino, per via della progressiva maturazione neurobiologica e della progressiva psichicizzazione, va acquistando una sempre maggiore coscienza della sua capacità di suscitare delle risposte psico-emotive e comportamentali nella madre; e insieme a questa maggiore consapevolezza anche i primi sentimenti di debito, di riconoscenza, di gratitudine nei confronti di lei.che viene sentita onnipotente in quanto dotata di quelle capacità lenitivo-riparative che per il bambino hanno una importanza vitale. Onnipotenza salvifica che il bambino tende a introitare tramite l’identificazione.
Una volta acquistata la coscienza di essere co-protagonista di scambi affettivi, nell’ambito della vicenda esperienzale diadica, il bambino svilupperà angoscia, malessere, ogni qual volta non potrà identificarsi con la madre riparativa ed oblativa, dispensatrice di amore e di bene. Questo malessere è ora la conseguenza del percepire se stesso, a causa delle pulsioni ostili o ambivalenti, quale responsabile dell’alienazione da sé di oggetti dispensatori di bene, cioè responsabile del proprio affamamento affettivo, della perdita di quegli oggetti gratificanti la cui presenza appare indispensabile ad evitare l’emergenza, reversiva all’interno, delle pulsioni distruttive. Pertanto, l’impossibilità ad identificarsi con l’oggetto d’amore riparativo, costituirebbe la radice di ogni sentimento di colpa, di ogni «cattiva coscienza». Dunque la coscienza, che appare trarre origine dall’emergenza del «terrificante interno», si svilupperebbe, e si potenzierebbe successivamente, soprattutto quale apparato deputato a mantenere separate, tramite una forzatura interna, l’ostilità dall’amore, la libido dalla mortido. Ogni falla in tale capacità di separazione determinerebbe la «cattiva coscienza», cioè la sensazione che si stia facendo del male all’oggetto d’amore con il quale, in questi frangenti, non è più possibile alcuna identificazione.
Evidentemente lo svilupparsi di sentimenti di colpa viene rinforzato via via dalla serie di precetti ed atteggiamenti educativi della madre, la quale connota come -bene» quello che da essa è accettato e valorizzato e come «male», come qualcosa di cattivo, tutto ciò che essa rifiuta, non approva. La prima legge, le prime regole di vita, i primi comandamenti sono dettati dalla madre. La madre e, successivamente, i genitori, quale «oggetto combinato», si pongono come universo dettante sia le colpe che le pene. Il mantenersi buono è necessario al bambino per sentirsi sufficientemente amato. La trasgressione così come gli impulsi ostili comportano un malessere, un sentimento di colpa, una «cattiva coscienza», collegabili alla preoccupazione che l’oggetto d’amore non voglia più dare il suo affetto o che lo stesso sia stato danneggiato, svuotato, deprivato dalla capacità di continuare a darne. Così il super-Io, al dì fuori della patologia, piuttosto che in funzione di una distruttività internalizzata, appare al servizio di una funzione salvifica internalizzata, in quanto mobilitando processi propiziatori-riparativi consente la revitalizzazione delle reciprocità bonifiche.
Il padre, che progressivamente con il trascorrere del tempo occupa un maggiore spazio nel mondo esperienzale del bambino, per certi versi, è sentito come un competitore, un ladro, un sottrattore dell’oggetto d’amore primario, che è la madre; ogni volta, ad esempio, che la porta via con sé oppure ogni volta che emargina il bambino nella sua stanzetta. Pertanto, la figura patema per molti versi sembra prestarsi ad una sorta di «elaborazione paranoica del lutto», cioè ad attribuire ad altri, ad oggetti nemici la causa delle proprie perdite, parziali o totali. Il bambino potrebbe così trovare nel padre, e non più nella propria cattiveria, il responsabile delle proprie frustrazioni primarie, cioè dell’allontanamento affettivo della madre. Ma questo meccanismo difensivo non può avere successo poiché il padre costituendo anch’esso un oggetto d’amore e di identificazione – in quanto anch’esso dispensatore di affetto, di cure e protezione nei confronti del bambino come anche nei confronti della moglie – non può essere investito di ostilità e di inimicizia senza mobilitare ulteriori sentimenti di colpa. Cosicché la «cattiva coscienza», che aveva avuto il suo esordio nella vicenda relazionale diadica con la madre e che avrebbe potuto trovare sollievo attraverso l’esportazione all’esterno della colpa, trova nella vicenda relazionale con il padre nuove occasioni per ripresentarsi.
Il vissuto di colpa riaffiorerà regolarmente nel corso della vita ogni volta che sentimenti connessi all’odio – quali l’invidia, la gelosia, il desiderio di vendetta, le pulsioni di morte – si rivolgeranno contro oggetti che a causa della convivenza, della necessità, del desiderio o dell’identificazione, si presenteranno come oggetti d’amore. Sotto quest’ottica il sentimento di colpa appare in tutta la sua dimensione di «situazione-limite», indissolubile compagno nel procedere dell’esistenza, fonte di ogni profonda sofferenza morale, ma nello stesso tempo condizione necessaria per l’assunzione di quella responsabilità senza la quale non potrebbe avvenire alcun reinvestimento libidico. Ciò che distingue la normalità dalla patologia, il sentimento di responsabilità dal disturbo affettivo, dalla depressione, è dato dall’assunzione di una colpa che non sia talmente accentuata da paralizzare ogni possibilità riparativa, dunque non tale da tradursi in una forza al servizio delle pulsioni distruttive.
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Quanto sinora considerato, pur se può contribuire a focalizzare alcuni aspetti che appaiono di notevole importanza per la comprensione del mondo della colpa, non ci impedisce di rivisitare il problema sotto altre angolature che possono suscitare il nostro interesse.
Nietzsche in Genealogia della Morale3 afferma che «soltanto quello che non cessa di dolorare resta nella memoria»; il dolore costituisce «il coadiuvante più potente della memoria». Con il senso di colpa è stata introdotta «la più grande e la più sinistra delle malattie», «la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé: conseguenza di una violenta separazione dal suo passato animale (…) di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui quali sino allora riposava la sua forza, il suo piacere, la sua terribilità». Questa metamorfosi non è il frutto di un atto di volontà né di uno «sviluppo organico all’interno di nuove condizioni bensì come una frattura, un salto, una costrizione, una inevitabile fatalità»; una enorme perdita di libertà iniziata con la violenza e con la violenza condotta a termine da una piccola minoranza di uomini molto forti «una razza di conquistatori e di padroni che, guerrescamente organizzata e con la forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli su una popolazione forse enormemente superiore di numero, ma ancora informe, ancora errabonda». «Questo istinto delle libertà reso latente a viva forza (…), questo istinto della libertà represso, rintuzzato, incarcerato nell’intimo, che non trova infine altro oggetto su cui scaricarsi e disfrenarsi se non su sé stesso: questo, soltanto questo è nel suo cominciamento la ‘cattiva coscienza’-, di questa specie -è il piacere che prova il disinteressato, il negatore di se stesso, l’immolatore di sé: questo piacere rientra nella crudeltà (…), soltanto la cattiva coscienza, soltanto la volontà di svillaneggiare se stessi fornisce il presupposto per il valore del non egoistico-.
Jaspers con altre parole sottolinea ugualmente la drammaticità della condizione umana quando afferma: «Abbracciando la vita si toglie qualcosa agli altri-, l’esserci con il fatto di dover realizzare delle condizioni che sono indispensabili alla vita stessa esige «lotta e sofferenza altrui»; ciascuno paga con la sofferenza il prezzo del suo agire ma anche di alcuni dei suoi sentimenti più intimi. «Si può tentare di evitare la colpa non entrando nel mondo, non facendo nulla ma anche non agire è una forma di agire, un agire nella forma di omissione che conduce ad una fine più rapida dovuta a quell’inerzia sistematica e assoluta che assomiglia al suicidio (…l, sia razione che la non-azione implicano delle conseguenze, per cui in ogni caso siamo inevitabilmente colpevoli».
Nietzsche in Nascita della Tragedia4 si chiede: «Il pessimismo è necessariamente un segno di declino, di decadenza, di fallimento di istinti stanchi e indeboliti?», «c’è un pessimismo della forza? Un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza d un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza? C’è forse un soffrire della stessa sovrabbondanza?». E che significato ha poi la «follia dionisiaca?», «quel fenomeno in cui i dolori suscitano piacere, in cui il giubilo strappa al petto voci angosciate. Dal sommo della gioia risuona il grido del terrore o lo struggente lamento di una perdita irreparabile». Perdita irreparabile è quella che vive il melanconico. Ma ci dobbiamo porre il quesito se in fondo ogni riparazione nei confronti dell’oggetto amato non abbia anche una valenza narcisistica nel suo aspetto di riparazione dello stesso sentimento di colpa. Non possiamo rispondere che affermativamente.
Ma vi è la possibilità di un sentimento di colpa che non può essere riparato neanche con la stessa riparazione? Lo potremmo chiamare un sentimento di colpa maturo, in quanto non sfiorato né inquinato da elementi affettivi (negazioni maniacali o mortificazioni depressive); esso è legato ad una profonda conoscenza dell’umano e della sua imperfezione. Questo sentimento di colpa per così dire maturo, privo di disillusioni, contiene in sé un rischio: di trapassare senza soluzioni di continuo nell’anestesia morale. In questo caso appare difficile stabilire dove finisce una responsabilità integra – non integrale ma integra, cioè libera di elementi affettivi, depressivi o maniacali – e dove comincia un’ anestesia egocentrica.
Ancora Nietzsche in Nascita della Tragedia si chiede se «il socratismo della morale, la dialettica, la moderazione e la serenità dell’uomo terretico», ciò per cui la tragedia greca morì non fosse «un segno di declino, di stanchezza, di malattia, di istinti che si dissolvono anarchicamente», se la stessa scientificità «è solo una paura e una scappatoia di fronte al pessimismo», «una sottile legittima difesa contro la verità»; infine se ogni dottrina che voglia essere solo morale non esprima anche .un’ostilità alla vita, la rabbiosa vendicativa avversione alla vita stessa: giacché ogni vita riposa sull’illusione, sull’arte, sull’inganno, sulla prospettiva, sulla necessità della prospettiva e dell’errore».
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Un uomo sposato, padre di tre figli, aveva allacciato una relazione con una giovane donna con la quale avrebbe voluto convivere, ma tale desiderio era contrastato dall’affetto e dal senso di protezione nei confronti dei figli che non voleva abbandonare.
Durante le sedute di psicoterapia, quest’uomo esprimeva una profonda sofferenza per il fatto di sentirsi in colpa e volersi votare al sacrificio per il bene dei figli, nello stesso tempo avvertiva qualcosa all’interno che lo faceva ribellare all’idea del sacrificio; altrettanto drammatico per lui era sentirsi, a causa della ribellione, come un essere debole. Era importante dal punto di vista terapeutico che egli potesse prendere coscienza dei suoi sentimenti di responsabilità; ciò gli consentiva di potersi identificare anche con un genitore buono capace di amare e di donarsi ai figli.
La psicoanalisi ci ha insegnato che molti problemi umani, individuali o collettivi, soprattutto alcuni nostri profondi conflitti, difficilmente possono trovare una vera risoluzione – ciò fa parte della nostra imperfezione -; quel che è importante è prendere piena coscienza delle realtà, a volte contraddittorie, che animano il mondo interiore. Per questo non possiamo non concordare con il più volte citato Jaspers quando sostiene: «Non si tratta (…) di essere innocente, ma di evitare realmente la colpa evitabile, per giungere a quella colpa autentica, profonda ed inevitabile, in cui non è dato trovare pace. La responsabilità diventa allora pathos esistenziale che porta ad assumerci la colpa inevitabile, che altrimenti ci terrorizzerebbe, e che consiste nell’essere noi inconsapevolmente e passivamente irretiti nella miseria della colpa».
Alfredo Anania
1. K. Jaspers. Filosofia, Torino, UTET. 1978.
2. F. Fornarl. Nuovi orientamenti nella Psicoanalisi, Milano, Feltrinelli, 1966; Ib., Psicanalisi della guerra, Milano, Feltrinelli. 1970.
3. F. Nietzsche. Genealogia della Morale. MIlano. Adelphi, 1984.
4. F. Nietzsche, La Nascita della Tragedia, Milano, Adelphi, 1977.
Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 45-53.
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