Il peccato dello straniero riflessi mitici nell’Othello di Shakespeare 

di Maria Paola Altese 

C’è in Otello la fascinazione dell’esotico e una suggestiva dissonanza nella costruzione drammatica del personaggio. Egli è infatti il «Moro di Venezia», un guerriero nobile e valoroso ed anche, unico tra i potenti generali al servizio della Repubblica, uomo dalla pelle nera con evidenti connotazioni di wildemess. Uno straniero dunque, che in una terra non nativa viene accolto e legittimato in funzione delle sue doti militari. 

Per il suo personaggio, protagonista dell’omonima tragedia scritta intorno al 1603, Shakespeare trasse ispirazione da fonti riconosciute nella tradizione novellistica italiana1, ma la diversità etnica di Otello trascende l’uso di un modello letterario, seppure significativo e si innesta su un terreno vastissimo di implicazioni culturali che ne giustificano le innumerevoli letture sia sul piano meramente critico che dell’interpretazione scenica. 

La questione qui esaminata è legata all’esito tragico del personaggio di Otello che nello sviluppo della vicenda mantiene la sua condizione di alterità, anzi, questa viene esaltata drammaticamente in un progressivo auto-isolamento all’interno di pensieri ossessivi e malati2. 

Così, il piano di lago ai danni del Moro agisce doppiamente come una perversa macchinazione che punisce l’ orgogliosa diffidenza dello straniero. 

(But he, as loving his own pride and purposes, I, l) e al contempo svela l’ingenuità di chi rimane alla superficie di una cultura non pienamente assimilata (l’insistenza di Otello nell’appellare Iago honest). 

Non a caso, contro l’interpretazione romantica ed eroica di Otello che soccombe di fronte al «male senza ragione» (a motiveless malignity, scriveva Coleridge) rappresentato da Iago, la linea interpretativa inaugurata da T.S . Eliot e seguita da Leavis3 ha avuto il merito storico di mettere in evidenza un tratto di egotismo e di ottusa autocelebrazione di un eroe che nell’ultimo monologo sembra ridotto a stereotipo tragico. 

La fondamentale dicotomia tra una visione prevalentemente idealistica e una visione anti-romantica, riemerge variamente nell’articolato percorso della critica che di volta in volta ha sottolineato (sebbene attraverso sempre nuove prospettive e mode letterarie) aspetti legati all’attitudine visionaria e trascendente della mente di Otello come di lago4, oppure, dall’altro lato, ha evidenziato contingenze ideologiche quali il tema del potere esteso anche alla sfera della sessualità5, e che si riflette nelle interazioni tra i personaggi e nella struttura drammatica. 

Ma ritornando all’impianto tragico della vicenda, soffermiamoci sulla questione della colpa. Perché non è soltanto Iago, tra i più perfetti villains shakespeariani, come ha osservato Harold Bloom6, una anticipazione del satana miltoniano, ad avere la colpa di tessere la caduta dell’eroe, ma è Otello stesso che sin dall’inizio appare segnato da un oscuro peccato originale. 

Questo va oltre il torto ai danni di lago quando Otello gli preferisce Cassio come suo luogotenente, il «peccato» di Otello è quello di uno stranger che ha varcato una frontiera culturale sulla base di una eroica reputazione pubblica: egli è comunque un Moro che si unisce con una bianca e giovane nobildonna veneziana. E la fuga d’amore dei due, nottetempo verso nozze segrete, non basta a cancellare negli altri oscene fantasie di accoppiamento. 

Durante il primo atto lago e Roderigo informano il padre di Desdemona: 

Even now, now, very now, an old 
black ram / Is tupping your white ewe. 
A rise, arise! / Awake the snorting citizens 
with the bell, / Or else the devii will 
make a grandsire ofyou7, (I, I) 

Le fantasie suggerite da lago a Brabanzio si evolvono culminando in un’immagine da bestiario medievale («vostra figlia e il Moro stanno facendo la bestia a due groppe»). 

Prima ancora della nobile e valorosa immagine di Otello, Shakespeare ci consegna, attraverso le parole di Iago, un personaggio il cui colore della pelle si estende a connotazioni peccaminose e bestiali. 

Otello non è certo un «Moor» sanguinario, il «super-villain» Aroon dipinto in Titus Andronicus, ma segretamente, in un’ottica che oppone pubblico e privato, pesa in lui una doppia natura, il soldato valoroso e il Moro lascivo, una doppia immagine che richiama la medesima doppiezza di lago. 

E il tema del doppio coinvolge anche il personaggio di Desdemona che Otello comincerà ad immaginare come prostituta, richiamando così la figura di Bianca nel suo legame con Cassio. 

Was this fair paper, this most goodly book, / Made to write «whore» upon? What committed! / Committed! O thou public commoner!8. (IV, II) 

Eppure nel primo atto Otello aveva difeso davanti al Doge la sincerità del suo amore per Desdemona, ricordando come lei si era innamorata mentre ascoltava il racconto delle sue imprese eroiche in terre lontane. 

She lov’d me for the dangers I had pass’d, / And I lov’d her that she did pity them. / This only is the witchcraft I have us’d9. (I, III) 

È dunque Desdemona che per prima s’innamora di Otello e dal suo desiderio verso uno straniero di colore che nelle parole di Brabanzio è «contro ogni legge della natura» ha origine la sua condanna ad un destino tragico, che viene adombrata nel risentimento paterno: 

Look to her, Moor, if thou hast eyes to see: / She has deceiv’d her father, and may thee10. (I, III) 

Possiamo ipotizzare, nella tessitura della vicenda di Otello e Desdemona, l’utilizzo da parte di Shakespeare di un sotterraneo riferimento mitologico che condurrebbe all’immagine mostruosa del Minotauro e al mito di Arianna, ad esso collegato. 

Shakespeare, che in Otello non menziona mai direttamente elementi legati ai due miti, aveva utilizzato l’immagine del Minotauro nell’Enrico VI (1591), dove il conte di Suffolk si guarda dall’avventurarsi nel labirinto degli intrighi perché lì «si nascondono Minotauri e perfidi tradimenti». L’allusione, che però non viene ulteriormente sviluppata, è probabilmente sia ad una categoria generale di mostri (associati all’idea del tradimento) che al figlio di Pasifae e del toro. E certamente anche all’interno di una autorevole tradizione medievale da Dante a Boccaccio, a Chaucer, compariva variamente questo tema. 

Il Minotauro è un mostro metà toro e metà uomo la cui mostruosità risulta dal modo in cui è stato generato. Ed è la sua preistoria ad essere ancora più significativa della sua storia, che lo vede confinato nel labirinto, fino a che Teseo non lo uccida. Frutto del desiderio illecito della regina Pasifae per il toro che Poseidone reca in dono a Minosse, il Minotauro è il simbolo osceno di una natura bestiale e libidinosa. Nell’attrazione per Otello, Desdemona si proietta in una parabola mitica che apre uno spazio verso un segreto desiderio femminile al di là di un legittimo confine etico e culturale, che già nella scelta di un’ambientazione italiana e soprattutto veneziana11, sembra spostato in avanti: Iago: I know our country disposition well; / In Venice they do let heaven see the pranks / They dare not show their husbands12 (III, III), ma che in ultimo sarà punito. 

E Otello, il «Moro libidinoso» in preda ad una «mostruosa» gelosia e vittima di una altrettanto «mostruosa» cospirazione ad opera di lago, teme il doppio volto di Desdemona, l’idea di una insopportabile sessualità femminile il cui simbolo più eloquente sarà il fazzoletto che la sposa «lascia cadere distrattamente». 

Shakespeare potrebbe essersi rivolto anche al mito di Arianna che aiuta l’amato Teseo ad uscire dal labirinto dopo che il giovane ateniese uccide il Minotauro. 

Nel Rinascimento il mito di Arianna viene celebrato nella duplice immagine di Arianna abbandonata da Teseo e in quella di Arianna sposa di Bacco13. 

Nel caso di una possibile ripresa della figura di Arianna nella Desdemona shakespeariana, il tema utilizzato riguarderebbe l’eroina abbandonata (su di un’isola come recita il mito). Dunque nella canzone del Salice cantata da Desdemona risuonerebbe lo stesso lamento di Arianna vittima dell’abbandono di Teseo. E in effetti Shakespeare introduce un passaggio che afferma un’origine femminile e lontana di quella canzone, nelle parole di Desdemona: 

My mother had a maid call’d Barbara; / She was in love, and he she lo ve ‘d prov’ d mad / And did forsake; she had a song of «willow»; / An old thing ‘twas, but it express’d her fortune, / And she died singing it14 (IV, III) 

In Desdemona convivono due immagini opposte: Pasifae che trasgredisce «contro ogni legge di natura», ed Arianna che piange per il suo abbandono, vittima di un ordine tutto maschile del mondo. E quale, all’ interno di questo schema, il ruolo di lago, se non quello dell’artefice, costruttore satanico (che poi è il rovescio di divino) di una architettura della mente in cui si mescolano realtà e illusione? C’è in lui un’impronta del mitico inventore del labirinto, e la sua malvagità si trascende infine in un’urgenza estetica: 

Virtue! Afig! ‘tis in ourselves that we are thus, or / Thus. Our bodies are our gardens, to the which our / Wills are gardeners15 (I, III) 

Secondo una visione rinascimentale, il labirinto viene collegato ad una esperienza soggettiva intricata ed oscura (l’immagine del labirinto associata al 

tema della foresta compare ad esempio nel XXII canto dell’Orlando Furioso). In Shakespeare il topos del labirinto compare in A Midsummer Night’s Dream (1595). Qui il bosco. teatro dei sortilegi e delle schermaglie magiche tra Oberon e Titania, diventa un luogo abitato dagli spiriti, «haunted grove»; ed è un mondo alla rovescia: il corso delle stagioni sospeso e gli uomini che dimenticano di danzare e di attraversare i labirinti: («And the quaint mazes in the wanton green / for lack of tread are undistinguishable»16 II, I). 

L’espressione «to tread a maze» riprende l’idea di un uso rituale del labirinto, non solo effetto di un sortilegio, ma anche simbolo del mondo nella sua esistenza ingannevole, metafora stessa del gioco teatrale che svela la continua tensione tra realtà ed apparenza. 

I am not what I am (I, I). 

Realtà e finzione, redenzione e colpa, come bianco e nero, in Otello diventano simboli interscambiabili, archetipi culturali dalle inesauribili possibilità interpretative; e così il «nero» di Otello si riflette progressivamente negli altri personaggi, come è stato evidenziato in una suggestiva rilettura teatrale di Carmelo Bene17, in cui 1’effetto più significativo è proprio lo scambio cromatico tra l’eroe e il villain: un Otello sbiancato e uno lago clamorosamente nero. 

Il peccato dello straniero ritorna attraverso modulazioni diverse, un complesso «teatro dell’invidia», come ha scritto Girard18, il cui motore è infine un mitico desiderio dell’altro da sé. 

Maria Paola Altese

NOTE 

1. «L’unica fonte delle grandi linee dell’intreccio di Othello è la settima novella della terza decade degli Hecatommithi di Gian Battista Giraldi Cinthio (1565), novella della quale non esisteva alcuna traduzione inglese, ma soltanto una francese nel Premier Volume des Cent Excellent Novelles di Gabriel Chappuys (1584)». Alcuni particolari derivano probabilmente da altre fonti: da una novella del Bandello e perfino dall’Orlando Furioso (tradotto in inglese nel 1591). G. Melchiori (a cura di), Teatro completo di William Shakespeare, vol. IV, Le Tragedie, Milano, 1995. 
2. In proposito si veda uno studio fondamentale di A. Serpieri, Otello: ,’eros negato: psicoanalisi di una proiezione distruttiva, Milano, 1976. 
3. T.S. Eliot, Selected Essays, London, 1932; ER. Leavis. Diabolic Intellect and The Noble Hero, 1952. 
4. «Il dramma tragico non deve essere per forza metafisico, ma lago, che dice di non essere altro che critico, non è altro che metafisico. La sua grandiosa vanteria: «Io non sono quello che sembro» ricorda volutamente il «Per grazia di Dio,io sono quel che sono» di San Paolo.» H. Bloom, Shakespeare: l’invenzione dell’uomo (1998), Milano, 2001. 
5. Riflessioni in questo senso si trovano nel libro di Valerie Traub: Desire and Anxiety: Circulation of Sexuality in Shakespearian Drama, London, 1992. 
6. H. Bloom, cit. 
7. Ora, ora, proprio ora / un vecchio montone nero sta montando / la vostra candida pecorella. Su, su, svegliate / con la campana a martello tutti i cittadini. / prima che il diavolo vi faccia nonno (trad. it. di Salvatore Quasimodo, in Teatro completo di William Shakespeare, vol. IV, cit.). 
8. Questa bella carta, questo magnifico libro d’amore / fu fatto per scriverei su la parola «puttana»? / Quale peccato hai commesso? E me lo domandi? Tu, donnaccia pubblica! 
9. Essa si era innamorata di me / al racconto di tutti i miei pericoli, / e io l’amavo per la pietà che mi aveva dimostrato. / E questa è tutta quanta la mia magia! 
10. Non perderla mai d’occhio, Moro, se hai occhi per vedere. / Come ha ingannato suo padre, potrebbe ingannare anche te. 
11. Un’ampia rassegna critica sulle ambientazioni italiane nel teatro di Shakespeare si trova in M. Marrapodi, A. J. Hoenselaars, M. Cappuzzo, L. Falzon (a cura di), Shakespeare’s Italy. Functions of ItaLian location in Renaissance Drama, Manchester, 1993. 
12. Conosco troppo bene i costumi del nostro paese: a Venezia le donne / fanno vedere soltanto al cielo / i peccati che nascondono ai loro mariti. 
13. Cfr. A.G. Word, The questfor Theseus, London, 1970. 
14. Mia madre aveva una cameriera che si chiamava Barbara. / Questa Barbara era innamorata, ma l’uomo che essa amava, / un giorno, commise la follia di abbandonarla. / Barbara cantava spesso “La canzone del salice», / una vecchia canzone, ma che esprimeva bene / un destino simile al suo. E morì cantandola. 
15. Virtù un fico secco! Dipende soltanto da noi / essere in un modo piuttosto che in un altro. Il nostro / corpo è un giardino e il suo giardiniere è la nostra volontà. 
16. E gli ingegnosi labirinti nel verde lussureggiante, / da tempo non usati, più non si distinguono. 
17. Otello (da Shakespeare), secondo Carmelo Bene, è stato rappresentato in due versioni teatrali nel 1979 e nel 1985. 
18. René Girard, Shakespeare, il Teatro dell’invidia (1990), Milano, 1998.

 

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 26-29.