In questi ultimi tempi l’ex Presidente del Consiglio Giovanni Goria, parlando a Genova, è ritornato a proporre la scelta nucleare nell’alternativa energetica. Anche se l’opzione ha suscitato polemiche e non poca indignazione tra coloro che già si sentivano al sicuro per i nuovi propositi di liberazione dal silenzioso killer nucleare che sinistramente minaccia l’intera umanità, la sortita del parlamentare democristiano non ci ha colto del tutto di sorpresa.
Le multinazionali, le grandi imprese, i grandi industriali datori di lavoro, ma altresì dispensieri di scempi, di rovina e di morte, non possono rassegnarsi a mutamenti radicali, a nuovi corsi, a rimedi o a rinunce che liberino i mortali dall’incubo dell’olocausto; per loro qualsiasi battuta di arresto sulla strada del profitto è fuori della logica di quel consumismo che ha contribuito non poco ad ottenebrare le menti di gran parte dei consumatori col sottile e subdolo inganno di un progresso che tale non è più quando, col passare degli anni, risentiamo dei suoi effetti funesti. E tuttavia si continua imperterriti ad inquinare, a predisporre le strutture di un immenso cimitero per noi e per le generazioni future e ci sottoponiamo al giogo di chi per la vita non ha il minimo rispetto.
Ovviamente, la significativa sortita dell’On. Goria dovrebbe far meditare a lungo gli sprovveduti elettori, inducendoli a considerare se non sia giunta l’ora di esigere dagli aspiranti reggitori della cosa pubblica il loro programma durante le campagne elettorali, a che se ne discuta ampiamente prima del voto e gli stessi elettori si regolino in tempo nel decidere se accettarlo o non e se, in conseguenza della scelta, accordare o negare loro la fiducia. Un elettore che non abbia venduto il cervello all’ammasso, ha il sacrosanto dovere di guardarsi dagli avventurieri irresponsabili e di non rilasciare una cambiale in bianco della quale, una volta ottenuta l’elezione, si servono a loro piacimento. Quanti arbitri in meno ci sarebbero!
Da più parti si sente dire che indietro non si può tornare, ed è proprio da questa abusata espressione che si deduce quanto sia ormai vuoto il cervello di quegli uomini dediti ad imporre, in spietata concorrenza, prodotti che congiurano contro il genere umano. Per legge naturale indietro si tornerà, invece: vi si ritornerà, eccome, se consideriamo che la Natura stessa ci spingerà a meditati ripensamenti col rimproverarci temerarie responsabilità allorché la terra, attraverso i suoi prodotti non più genuini, comincerà a restituirci il veleno che le propinammo un tempo. Allora gli uomini si pentiranno del loro disprezzo verso l’alma Mater e forse sarà troppo tardi: a noi, alla nostra generazione resterà pur sempre la patente di criminali, il torto imperdonabile di avere ordito e attuato un’abominevole congiura. Ed accadrà, a voler ragionare e riflettere, che quando con la complicità delle nostre menti insane e del nostro operato perverso non rispettiamo, non tuteliamo nemmeno il bene supremo ch’è la vita, quando questo viene messo a repentaglio dalla spregiudicatezza di incalliti e squallidi speculatori, quando non ci si rende conto che la società dovrebbe finalmente trarre maggior profitto soprattutto dall’agricoltura sana e genuina e non soltanto dall’industria che da sola, senza un razionale sfruttamento della terra, avrebbe assai poco o nulla da dire, quando non ci si avvede, non ci si rende conto di tutto ciò, sarà la stessa natura a decretare la fine e a spingerci nel buio d’un presunto progresso. Nessuno potrà illudersi di andare avanti indefinitamente, continuando a congiurare contro la grande Nutrice, ch’è poi, come dire, contro Dio.
Non dimentichiamo che in passato tutti i popoli più progrediti, giunti all’apice delle conquiste più avanzate, arrivati al sommo della parabola, hanno poi cominciato a discendere, fino a raggiungere i gradi estremi della loro decadenza e spesso, con essa, l’estinzione totale. Meglio quindi regolarci per tempo, lottare tenacemente per impedire che le conseguenze dell’eccessivo progresso si ripercuotano negativamente su noi, sui nostri figli, sulle future generazioni, se avranno la fortuna di sopravvivere.
Sappiamo, del resto, che molte di quelle conquiste, sia nel campo della tecnica, sia in ogni altro, non sono sempre state causa di notevoli squilibri, così numerosi che in certi momenti verrebbe voglia di dire che le sole branche della scienza da incoraggiare siano la medicina e la biologia, purché volte al solo scopo di proteggere e di prolungare la vita dell’uomo. Traguardo raggiungibile, questo, se al ricercatore non sfuggirà mai il fascino della sua origine.
Ogni altro sforzo tendente ad agevolarci nell’espletamento delle nostre attività, che non abbia il fine di preservarci la salute, è ingannevole invito che mira a distoglierci dall’obiettivo più importante della vita, nel tentativo di convincerci che l’unica realtà sia il facile guadagno cui fanno capo i filibustieri, gli speculatori e quanti, insieme a loro, sono abituati a sfruttare, da tempo immemorabile, l’ingenuità altrui.
Ma in tutta questa faccenda di progresso con fini esclusivamente consumistici il ruolo di protagonista perverso è lo spietato egoismo. Questo spinge a credere che interessante e indispensabile è produrre, smerciare, vendere per trarre utili sempre maggiori, non importa se i mezzi di locomozione ci avvelenano, se le ciminiere delle fabbriche divengono sempre più insidiose a causa della densità delle loro scorie, se dal cielo cadono piogge acide, se le nubi tossiche stringono in una morsa mortifera intere popolazioni private di tutte le sostanze, allontanate dai luoghi di nascita per andare a vivere altrove, con nel cuore la struggente speranza di un lontano quanto improbabile ritorno. Poco importa se non potremo più bere l’acqua per l’alto tasso d’inquinamento, se l’industria dei micidiali detersivi e di altri potenti ritrovati fa strage del patrimonio ittico, se la fauna scompare per la disseminazione di questi nelle campagne, se gli alberi incancreniscono e muoiono per sclerosi delle foglie, se l’insidiosa nevrosi si diffonderà nella misura in cui aumenterà il frastuono, con conseguente alterazione del nostro equilibrio neuro-vegetativo, se i popoli più progrediti conosceranno nel giro di un secolo – poco più poco meno – il tormento della pazzia a causa delle alterazioni o lesioni provocate al cervello bombardato quotidianamente e senza tregua da assordanti rumori, poco importa se il sistema uditivo. a furia di subire le violenze dei fragori della moderna civiltà (!), rimarrà danneggiato fino ad atrofizzarsi del tutto, se la prodiga Natura non interverrà in suo aiuto, modificandone la struttura per rafforzarne le difese. Quel che interessa è produrre, sempre produrre, pur consapevoli di non poter continuare all’infinito nello sfruttamento industriale se non si riconoscerà all’agricoltura il ruolo primario nello sviluppo economico- sociale dei popoli.
Gli uomini non hanno bisogno di ulteriori progressi che li uccidano. Se il progresso deve apportare miserie, lutti e illusioni di vita migliore, è bene che si arresti, almeno per consentire riflessioni, ripensamenti e nuovi propositi di meglio operare. Potremo, in tal modo, frapporre riparo al gran male che stiamo perpetrando a noi stessi e alla società in genere.
Ma non tutti sono d’accordo, non tutti ascoltano la voce della ragione. A questo invito odo già le proteste degli industriali colpiti nel vivo dei loro interessi, né mancano le critiche negative dei lavoratori, minacciati nella stabilità della loro occupazione. Eppure una decisione di riparo bisogna in tal senso, se non vogliamo andare incontro al suicidio.
Convinti che nulla è difficile a colui che vuole, sorretti dalla comprensione e dall’aiuto fattivo degli onesti, lavoreremo ugualmente in altri settori, se necessario, ma in ambienti sicuri. Viceversa, avallare l’operato di uomini senza scrupoli, che pur di accrescere le loro ricchezze, tengono in disprezzo la vita degli altri, dando ad intendere necessario ciò che non è, significa congiurare contro se stessi e contro l’umanità.
Dobbiamo distinguere l’industria utile alla salute dell’uomo, che lo aiuta nei suoi lavori, nello svolgimento delle sue funzioni, che gli cura preventivamente i mali, dall’industria nociva di quei prodotti molto spesso decantati dalla stampa di corrente o da altri mezzi di diffusione. Quanti ambienti acquatici seriamente compromessi, quanti disastri ecologici e quante vittime non ha provocato, difatti, il loro uso sconsiderato! E quanti innocenti, già predestinati a prematura morte negli anni a venire!
Occorre andare molto cauti, meditare prima di definire utili i benefici di un qualsiasi ritrovato. Nell’innumerevole varietà delle sue possibilità creative, la Natura, se ingannata, può sempre riservarci delle sorprese, può addirittura, in un secondo tempo, respingere ciò che noi, ai primi risultati, riteniamo una grande conquista. Spesso, a distanza di molti anni, ci avvediamo degli effetti sconvolgenti, delle disastrose conseguenze dovute alla leggerezza con la quale abbiamo fatto ricorso all’impiego di sostanze nocive. Nessuna faciloneria, quindi, nessuna improvvisazione, ma molta cautela nel dichiarare utile e di avanzato progresso qualsiasi scoperta scientifica. La suprema Natura opera con le sue leggi severissime, collaudate sin dalla notte dei tempi nella molteplice, inesauribile attività evolutiva. Tutto in essa è armonia e nulla è stato creato e stabilito a caso.
Invece noi diamo poca importanza a questa armonia. Pur di produrre il dieci per cento in più, permettiamo che la terra continui a ricevere i potenti veleni di una concimazione chimica dissennata e a subire il ricatto delle grandi società produttrici. Il risultato è che veniamo ripagati con frutti vistosamente belli, ma altrettanto pericolosi. Quelli ottenuti con trattamenti chimici, non esclusi i mortiferi pesticidi, sono difatti meno saporiti di altri ottenuti con sostanze organiche.
Amici lettori, non lasciamoci convincere della propaganda interessata. A quanti intendono persuaderci della genuinità dei loro prodotti ottenuti con sistemi di sia pur dubbia utilità rispondiamo che è nostro intendimento continuare ad affertilire i campi con l’umile e generoso stallatico e con altri concimi naturali organici, sulla scorta di secolari e positive esperienze. Rispondiamo, con tutta franchezza, che vogliamo ancora inneggiare alla salubrità dell’aria, alla limpidezza delle acque, al culto della buona terra, prima che sia troppo tardi. Rispondiamo che c’interessa un’agricoltura sana, genuina, senza forzature che minino la salute della collettività, un’agricoltura come la voleva il sommo Cicerone per il quale nulla è meglio di essa, nulla di più produttivo, di più soddisfacente, di più degno di un uomo libero. Predichiamo l’agricoltura di Federico il Grande: la prima di tutte le arti, senza la quale non esisterebbero più né mercanti, né banchieri, né artigiani, né poeti, né filosofi. E nemmeno, può sembrare un paradosso che incontestabilmente non è, esisterebbe la stessa industria.
Con Platone concordiamo che quando la terra rimane sterile, tutte le altre attività rimangono paralizzate. E noi, di questo passo, corriamo il grave rischio di renderla improduttiva, di ucciderla. In tal deprecato caso l’umanità andrebbe incontro a sicura estinzione, vittima espiatrice delle sue stesse colpe; i cieli non verrebbero più solcati dai pennuti, i mari resterebbero senza fauna, tutto il nostro mondo cesserebbe di pulsare nel sinistro immobilismo dell’eterna notte alla quale mai più seguirebbe l’alba.
L’abuso di alcune sostanze chimiche, per quanto controllate con scrupolo, porterà, prima o poi, allo snaturamento e alla scomparsa della genuinità dei prodotti, alla rottura di quel tanto prezioso equilibrio di produzione del mondo dei batteri, senza il quale la fame, le malattie più impensate affliggerebbero uomini e cose.
Sono prospettive spaventose, che dovrebbero far riflettere con sacro timore coloro che per l’eccessivo progresso restano annebbiati nel cervello, retaggio sì di tanta evoluzione, ma privo della sua antica saggezza che oggi impedirebbe di elevare osanna alle conquiste e agli effetti biologicamente perversi.
Nel nostro mondo c’è un terribile nemico, c’è lo spettro della fame, perciò, si potrebbe obiettare, occorre produrre sempre di più per sopperire alle esigenze di prima necessità. È questa, si voglia o non, una conclusione di comodo, frutto d’ipocrisia e di egoismo elevati all’ennesima potenza! Ma basterebbe che i popoli più ricchi non sprecassero i loro prodotti e mangiassero di meno sottraendosi, tra l’altro, ai pericoli di un’eccessiva nutrizione, per aiutare i bisognosi. Ne guadagnerebbero, oltretutto, in salute, non più minacciata da squilibri alimentari.
L’uomo, però, è purtroppo adescato dalle mollezze dello sbandierato progresso; dimentico della sua origine «è l’unico animale al mondo a sfidare il proprio ambiente: egli, in poco più di un secolo ha superato moltissime barriere ambientali, favorendo l’aumento demografico e sfuggendo al controllo di precisi fattori del suo habitat. Ma un giorno, non si sa quando, la resistenza dell’ambiente finirà per ritorcersi contro di lui con imprevisione di contraccolpi che gli tenderanno un’imboscata mortale, culminante in cataclismi naturali e sconvolgimenti sociali». Allora egli pagherà il prezzo del vantato progresso dei suoi predecessori e amaramente li maledirà e li additerà ai posteri, se pur ve ne saranno, come i responsabili della congiura contro l’umanità del ventesimo secolo.
Ma forse l’uomo, col pensiero ad altri mondi, ad altri pianeti, crede di poter fare a meno della sua impareggiabile Nutrice. Non si illuda: per quanto possa andare in lungo e in largo dappertutto, fino a raggiungere gli abissi siderali, egli resterà comunque sottomesso alla terra, sarà sempre un mammifero che per vivere ha bisogno, nei suoi spostamenti, di un ambiente simile a quello in cui è andato evolvendosi sin dal giorno della sua comparsa, onde non potrà mai fare a meno di essa, essendo parte vitale del suo corpo che non vivrebbe se ne fosse privato.
Alla base di tutto questo discorso resta pur certo il fatto che non possiamo sanare i mali del nostro ambiente se non prima avremo sanato noi stessi nel cuore e nella mente, se non prima avremo operato con rettitudine, se non prima avremo amato la terra e imparato a consolarci delle quotidiane fatiche, a rinfrancarci lo spirito nel culto secolare che il genere umano ha sempre avuto per essa.
Donato Accodo
Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 8-13.
Lascia un commento