La storia dell’ antica Roma, già a partire dalle sue origini, fu una storia di avvenimenti bellici.
La guerra costituì la cifra identificativa della società romana, lo status belli, pressocchè permanente, costringeva continuamente ogni cittadino valido ad indossare le armi per la conservazione di Roma. Il legame indissolubile tra il civis romanus e lo Stato faceva quindi del campo di battaglia il momento per eccellenza in cui dimostrare la propria virtus. La storia degli antichi romani fu intessuta di episodi di coraggio militare e di devozione verso la patria: Orazio Codite, Muzio Scevola, Attilio Regolo solo per citarne alcuni, tutti attestanti il fatto che per l’antico romano fosse “dulce et decorum pro patria mori1”. Le prime guerre combattute dai romani furono di difesa, esse furono causate dalla pressione esterna e dal desiderio dei romani di conservare la propria identità, poi si aggiunsero le mire espansionistiche ed imperialiste: dalla data della mitica fondazione (753 a. C.) alla fine del II secolo a. C. Roma, di guerra in guerra, di vittoria in vittoria, diventò la “caput mundi”. Ma già nell’ultimo scorcio del II secolo a.C. la situazione si modificò: a contatto con le mollezze dell ‘Oriente e con il “Bello” dei greci, i romani cominciarono ad amare il benessere, il lusso ed a sentire la guerra come qualcosa di estraneo. Ad acuire questa situazione fu, nel corso del I secolo a.C. l’aggiungersi di guerre civili a quelle esterne, le guerre fratricide spinsero infatti la maggior parte dei romani a deprecare la guerra e ad anelare la pace. Nell’ incipit del De rerum natura Lucrezio chiede a Venere di fungere da intermediaria fra il mondo umano ed il dio della guerra, Marte, perchè soltanto la “genetrix Aeneadum” avrebbe potuto procurare ai romani una pace serena. Ma fu soprattutto nell’ultimo scorcio di repubblica che gli intellettuali, interpretando il comune malcontento, sottolinearono il loro distacco dallo Stato e vagheggiarono paradisi di pace. Virgilio, nell’ ecloga I, trasferisce nel microcosmo bucolico il dramma delle guerre civili, l’impius miles e il barbarus entrano in possesso delle altrui terre ben coltivate: “ecco fino a qual punto la discordia civile ha spinto i miseri cittadini2” . Analogamente Orazio, nell’ epodo VII, definisce i cittadini “sce1esti”, perchè ancora una volta corrono ad indossare le armi e sposano la causa della guerra fratricida. Dall’impossibilità di realizzare una serena pax nell’Urbs, emerge un diffuso desiderio di fuga, di necessità di rinnovamento e di una palingenesi. Nell’epodo delle “isole fortunate”, Orazio invita la pars melior dei cittadini ad una fuga dal reale, ad una sorta di esilio volontario collettivo nelle isole dei beati. Il messaggio di Orazio è cupamente pessimista (altera iam teritur bellis civili bus aetas3), il repubblicano deluso non vede alcuno spiraglio di speranza attorno a sé e fa una proposta disperata: fuggire via dalla patria per raggiungere le terre incontaminate dove è perenne l’età dell’oro. Più ottimista è Virgilio nella quarta egloga in cui si profetizza la nascita di un puer messianico che avrebbe riportato in Italia la pace e l’età dell’oro. Questo utopico ritorno dell’età dell’oro, (iam redeunt Saturnia regna), motivo topico nella letteratura di quei tempi, e la profetica annunciazione della venuta di
1 – Orazio, Carmina, libro III, 2, v. 13.
2 – Virgilio, Ecloga I, vv. 71-72.
3 – Orazio, Epodo XVI, v. 1
un nuovo “magnus ordo saeclorum4” riflette la speranza di pace (poi disattesa) riposta nell’ accordo di Brindisi e la fiducia nella possibilità di riscatto da una situazione di corruzione e di guerra.
Tale fiducia si trasformò in un dato di fatto dopo la vittoria aziaca. Il princeps Ottaviano Augusto si propose ai cittadini come il restauratore di antichi valori etico-religiosi e come colui che aveva saputo mettere fine al “furor” delle guerre civili ed aveva realizzato la “pax parta victoriis”. Lo stesso Augusto nelle Res gestae, si vantò di avere chiuso per ben tre volte il tempio di Giano Quirino che “prima che io nascessi dalla fondazione di Roma, rimase chiuso due volte in tutto5”. La pax augustea divenne uno slogan politico di cui si fecero interpreti in maniera particolare, gli intellettuali del circolo mecenaziano. Augusto, infatti, ben consapevole dell’importanza delle lettere al fine di orientare la mentalità e di creare intorno a sé consenso, cercò in ogni modo di garantire una produzione letteraria in sintonia con l’ideologia dominante. C’è da dire che questo non gli costò grandi sforzi, visto che il suo programma di restaurazione morale e di generale pacificazione era molto gradito ai romani, desiderosi solo di uscire dall’epoca delle guerre civili. Quella di Virgilio o di Orazio non fu però piaggeria, ma reale e sentita condivisione di un programma. Nell’ Eneide virgiliana la pax augustea è intesa come punto di arrivo di un doloroso6, ma necessario, periodo di guerra, termine fatale voluto dal destino, secondo la solenne formulazione di Anchise nel libro VI dell’ Eneide:”regere imperio populos….. pacique imponere morem7″. Nel libro I dell’ Eneide è Giove in persona a profetizzare la missione di Roma e la venuta di uno “Iulius” grazie al quale cesseranno le guerre:”posate allor le guerre, il fiero tempo s’addolcirà: la Fè candida e Vesta, Quirino col fratel Remo daranno leggi, saran con ferrei serrami chiuse le dure porte della Guerra; dentro il Furor bieco, assiso sopra l’armi crudeli e avvinto a tergo da cento bronzei ceppi, orribilmente fremerà con la bocca sanguinosa8″. Efficace ed icastica è questa immagine del Furor, personificazione della guerra, incatenato e rabbioso su cui vince la Pax voluta dal princeps Augusto. Nella rassegna degli eroi del libro VI, Virgilio paragona Augusto a Saturno, la lunga pace e la grande prosperità del principato augusteo appaiono agli occhi del poeta la realizzazione di quell’età dell’oro di cui si vagheggiava il ritorno nell’ecloga IV. Augusto è quindi il rifondatore dell’aurea aetas, in questa immagine leggendaria si cela tutta l’ammirazione di Virgilio per il principe: “Questo è l’uomo che ti senti promettere, l’Augusto Cesare, figlio del Divo, che fonderà di nuovo il secol d’oro nel Lazio per i campi regnati un tempo da Saturno9” . La celebrazione dell’ impero augusteo
ricorre ancora nella chiusa del libro VIII. La descrizione dello scudo di Enea del libro suddetto diventa una lezione di storia romana e completa l’esaltazione dell’impero di Augusto che proprio negli episodi e nei personaggi esemplari dell’antichità cerca le sue radici. Al centro del mitico scudo c’è la rappresentazione della battaglia di Azio, l’evento che segna l’ascesa definitiva del grande Augusto, chiudendo il capitolo sanguinoso della storia di Roma e dando inizio ad un lungo periodo di pace.
4 – Virgilio, Ecloga IV, v. 5.
5 – Res gestae Augusti, 13.
6 – Cfr. L. Canali, L’essenza dei romani, Virgilio.
7 – Virgilio, Eneide, libro VI, vv. 851-852.
8 – Virgilio, Eneide, libro I, vv. 291-296.
9 – Virgilio, Eneide, libro VI, vv. 791-794.
Anche nella produzione letteraria “impegnata” di Orazio, ricorrono i motivi
dell ‘esaltazione della pax e dei miti dell’età augustea.
La rivendicazione, in più circostanze, della , da parte del poeta venosino, non lascia dubbi che le sue espressioni di stima per il princeps che ricorrono nelle odi ci vili e nel Carmen speculare nascano da una sincera ammirazione per l’ uomo, a cui va ascritto a merito il ristabilimento della pace e lo sforzo di rendere migliore la società romana. Esemplificativa, a tal proposito, è l’ode XV del libro, IV testo in cui sono presenti tutti i temi che furono al centro dell ‘ ideologia del principato: la maestà dell’ impero, il ritorno alle virtù degli antichi, la rifondazione morale, la pace interna ed esterna: “tua, Caesar, aetas …. vacuum duellis Ianum Quirini clausit10”. Il poeta ormai è libero dall ‘angoscia e dalle apprensioni per la res publica e come l’ara pacis augustae che si stava proprio allora erigendo, anche questo carme è un “monumento” riconoscente alla pace. Anche se in alcuni passi Orazio cede alle convenzioni ed alle “menzogne11” del regime, non si può negare che il poeta esprima sentitamente la certezza che la pace instaurata da Augusto sarà garanzia di potenza e gloria imperitura per Roma. Il tema ricorre ancora nel Carmen speculare che, più che come inno religioso, va letto in chiave politica, come adesione totale al programma politico di Augusto ed alla pax da lui ristabilita. L’auspicio virgiliano del ritorno dell ‘età dell ‘oro per Orazio si è adesso concretizzato, l’età augustea ha portato “Fede e Pace e Onore, il Pudor prisco e la Virtù negletta12”. Augusto viene dipinto come colui che ha ristabilito la pace interna e che difende Roma dai nemici esterni: “già per mare e per terra teme il Medo la sua man e le latine scuri; già Sciti ed Indi pur testé ribelli, chiedono leggi”. Agli occhi del poeta venosino, indubbiamente, l’effetto più positivo che l’avvento del princeps aveva recato a Roma, dopo tanti anni di guerre civili, era la pace. Essa era per Orazio il presupposto necessario perché il mondo fatto di sereni campi e cristallini ruscelli potesse sussistere. Il tema dell’ aspirazione alla pax, pur se con toni e finalità diverse, ritorna anche nella produzione elegiaca di età augustea. L’elegiaco Tibullo, poco favorevole ad Augusto, esprime una sentita deprecazione delle guerre e degli impegni militari, la guerra gli appare come una sventura terribile e senza rimedio: “quis fuit horrendos primus qui protulit enses?13”. Il poeta vagheggia nei suoi versi una vita modesta e serena (me mea paupertas vita traducat inerti), vita di cui la violenza della guerra è la negazione. Quello espresso da Tibullo è un pacifismo agreste, egli celebra la Candida Pax dei campi, l’unica a consentire la serenità della vita e la realizzazione del sogno d’amore. Pur non essendo allineato alla politica augustea, Tibullo esprime opportunamente le istanze di pace e di serenità proprie di quel periodo, alle quali va aggiunto un influsso ineludibile della tradizione epicurea. La stessa vocazione alla pace ricorre nei versi dell’elegiaco Properzio, interamente occupato nella propria vita sentimentale, che lo porta al ripudio di ogni impegno militare. In entrambi gli elegiaci si riscontra l’attacco nei confronti della guerra considerata come mezzo per arricchirsi: “divitis hoc vitium est auri14”, afferma Tibullo, e analogamente per Properzio è l’invisum aurum la molla che spinge i milites ad
10 – Orazio, Carmina, libro IV, 15, vv. 8-9.
11 – Cfr. Mocchino in Odi ed Epodi, Milano, 1942.
12 – Orazio, Carmen saeculare, vv. 53-56.
13 – Tibullo, Elegie, libro I, 10, v. 1.
14 – Tibullo, Elegie, libro I, 10, v. 7.
imbracciare le armi. Properzio spoglia delle motivazioni ideali la spinta alla guerra, svelandone la vera matrice: l’avaritia. Egli si sente invece vocato all’amore, alla pace, il suo ideale di vita lo porta a deprecare qualsiasi forma di bellicismo: “pacis Amor deus est, pacem veneramur amantes: stant mihi cum domina proelia dura mea15”. Pur facendo parte dell’ entourage augusteo il poeta non canta i valori che la propaganda ufficiale voleva vedere esaltati, perchè gli manca una coscienza civile. Ma, come in tutti gli altri intellettuali di quell’ epoca, ricorre anche nella sua produzione letteraria il motivo della pax.
Un motivo topico che, con caratteristiche e toni di versi, costituì senz’ altro la palese espressione di una pressante e comunemente diffusa istanza.
Anna Maria Angileri
15 – Properzio, Elegie, libro III, 5, vv. 1-2.
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