Il popolo è una comunità umana caratterizzata dalla volontà degli individui che la compongono di vivere sotto lo stesso ordinamento giuridico, e più propriamente, come dice Cicerone (Rep. 1, 25, 39), non è un qualsiasi agglomerato di uomini in qualsiasi modo riuniti, ma di gente associata dal consenso allo stesso diritto e da una comunanza d’interesse. Ciò premesso consegue che, allorquando proprio per mancanza di interesse il consenso a questo diritto viene a cessare, per diffidenza verso abili e inveterati approfittatori del bene comune, che operano per loro esclusivo tornaconto, ai cittadini defraudati dal loro Stato altro non resta che privarli del mandato, non rinnovando loro la propria fiducia e nulla concedendo per sostenerli in vita.
E intanto si continua a governare male, senza seguire uno schema prestabilito. Nel contempo il popolo, in nome del quale il sommo Arpinate si appellava nelle sue ardenti requisitorie per rilevarne la sovranità, ha meno titolo che mai senza una guida che dia finalmente fiducia e lo sproni alla ricerca di quegli ideali propri degli uomini liberi. Siamo ancora a più di duemila anni fa, quando Plutarco, nelle sue Vite parallele, volendo denunciare certi comportamenti dei mortali, lamentava che molti uomini sono come le pecore: laddove si dirige una, tutte vi convergono le altre. Epperò i motivi di simili comportamenti sono sempre gli stessi, da ricercarsi nei problemi rimasti irrisolti per fini esclusivamente speculativi e per imperdonabile mania di dissacrare i miti al fine di indebolire le istituzioni di ogni civile progresso.
Si è detto altrove che senza una famiglia e una scuola sana, senza una politica oculata, che non soggiaccia a favoritismi, senza una giustizia ben funzionante, qualsiasi nazione sarà travolta dallo squallore morale e materiale, indi dall’anarchia, fonte di sciacallaggio e di ogni scelleratezza, di ogni turpidine.
È urgente rivisitare le fonti del passato culturale, riprodurre testi e studi accettati e tesaurizzati da milioni di uomini non certamente da meno di noi, se pensiamo che sulla credenza dell’infinità dei mondi e dell’affascinante concezione atomistica già parlava, con felice e sorprendente intuito di scienziato, Tito Lucrezio Caro. Occorre nutrirsi di opere concettose, dense di esperienza vitale, tirarle fuori del dimenticatoio della dissennatezza di noi moderni, chè, ammesso e non concesso che fossimo tutti concordi nel ritenere operetta l’Institutio oratoria di Quintiliano, non otterremmo niente di concreto. Nemmeno l’irriverenza di altri venti secoli di storia potrebbe minimamente offuscare la gloria del tarraconese. Ma noi siamo superiori, non stiamo a rispolverare le mummie del passato, viviamo di ben altro, noi, disponiamo di alta tecnologia, siamo arrivati sulla luna, approderemo su altri pianeti, che ce ne facciamo della scienza infusa di tempi remoti, oggi le cose sono cambiate, a distanza di millenni il nostro cervello si è sviluppato (in peius) e poi siamo presi dal flagello dell’AIDS, dall’amica droga, dai sequestri di persona, dalla lupara, dalla ‘ndrangheta, dai buchi neri cosmici e bancari, dagli ammanchi, dagli scandali di vaste proporzioni, dai febbrili connubi delle multinazionali sostenute da correnti collettivistiche con tendenze iugulatorie e di esasperante egoismo.
D’accordo: si scelga pure il libertinaggio, ognuno è artefice della propria fortuna, con tutti i rischi e le conseguenze possibili e immaginabili, però non deve mettersi a disquisire, chè senza l’assimilazione di certe anticaglie si fa presto a farsi notare per leggerezza di contenuto speculativo e, di riflesso, per cortezza d’ingegno. È inutile provare a camminare se si hanno i piedi bruciati, a volare se le ali sono tarpate, a dare di penna se si è digiuni persino delle regole più elementari della grammatica. È vero che i soldi fanno parlare le bestie e che, per ibridi connubi politici ci sono delle eccezioni che culminano in un’infiorata di oltraggi alla nostra lingua, come quelli di una deputatessa con funzioni nel Dicastero degli esteri e, perché no?, di un ex direttore di un noto quotidiano romano, i quali facevano a gara a chi più commetteva errori, ma è un’eccezione, anche se ricorrente altrove, in personalità di cotanto senno!
A voler essere obiettivi, ci sono varie cause che inducono a non sperare che gli Italiani siano in maggior parte determinati a scuotersi dal torpore in cui vivono. L’accentramento delle testate gionalistiche, l’informazione televisiva … Altro che pluralismo! L’Italia della televisione può essere paragonata ad un immenso stadio moderno dove però si svolgono antichi baccanali tra aneddoti e scipitaggini, approcci, lamenti e contorsioni di cantanti osannati sino al parossismo, anche se il più delle volte crocidano o ragliano – absit iniuria verbo.
Questa miopia mentale, questa arroganza distruttiva di credere inarrestabile il processo di industrializzazione al servizio di un selvaggio progresso che non è più tale perché sta portandoci alla rovina. Lo Stato, bonificato, deve subito provvedere a bonificare. Diversamente non ci sarà niente da fare.
Il progresso, il benessere seguono la cultura e non viceversa, per quanto attiene allo scopo di migliorarsi e raffinarsi, dacché non vi potrà essere progresso se non prima questo abbia progredito culturalmente, onde, secondo Kant: «La produzione di un essere ragionevole, della capacità di scegliere i propri fini (e quindi di essere libero) è la cultura. Perciò la cultura soltanto può essere l’ultimo fine che la natura ha ragione di porre al genere umano» (Crit. del Giud., 83). Ma non di una cultura ridotta a puro addestramento tecnico in un campo limitato di cognizioni professionali, altrimenti non è più cultura, dovendo questa occuparsi di tutti i gradi e le forme dell’educazione, sino a quella più specializzata, tralasciando nozioni vacue e superficiali che non arricchirebbero la personalità dell’individuo e la sua capacità di comunicare con gli altri.
L’uomo colto ha lo spirito libero, aperto a comprendere idee e credenze altrui, egli è per una cultura formativa, volta al futuro e saldamente ancorata al passato, mettendone in evidenza luci e ombre, somiglianze e divergenze, ben guardandosi dal disprezzare le glorie dei nostri precedessori. Senza di loro oggi saremmo ancora all’età della pietra e non avremmo capacità di predire e formare progetti di vita a lunga scadenza. Ma cultura è soprattutto civiltà, e questa, come spiega Spengler, è il destino inevitabile di una cultura. Le civiltà sono gli stati estremi e più raffinati ai quali possa giungere una specie umana superiore. «Esse sono una fine: sono il divenuto che succede al divenire, la morte che succede alla vita, la cristallizzazione che succede all’evoluzione. Sono un termine irreversibile al quale si giunge per una necessità interna» (Untergang des Abendlandes, l pag. 147).
Ora, dopo questa parentesi, dopo aver cercato di spiegare che colto è colui che ha lo spirito aperto e libero, che sa comprendere le idee e le credenze altrui, anche quando non può accettarle né riconoscerne la validità, dopo aver tentato di dare, per sommi capi, un’idea della connessione tra civiltà, cultura, conduzione della cosa pubblica, non resta che affidarci al buon senso dei nostri politici, i quali, tralasciando gli interessi di parte e quelli privati, devono far di tutto per espletare con correttezza il mandato che è stato loro accordato, tenendo conto del saggio consiglio di Democrito, secondo il quale «non si deve aver rispetto per gli altri uomini più che per se stessi né agir male quando nessuno lo sappia più che quando tutti lo sappiano, ma devi avere per te stesso il massimo rispetto e imporre alla tua anima questa legge: non fare ciò che non si deve fare» (Fr., 264, Diels).
Imperativo di alto significato morale, questo, ma ai nostri giorni, nell’imperversare delle lotte per opposti interessi, sembra utopistico obbedirvi, e ciò a causa della rottura delle due culture: quella tradizionale e quella moderna. Se non si è rispettosi neppure di se stessi, come si può esigere rispetto dagli altri, imbevuti di idee balzane, disorientati nell’aria cimiteriale di un subdolo progresso, in gran parte travaglio e dannazione del ventesimo secolo? Bisogna far di tutto per scuotere le coscienze sopite, è doveroso denunciare ibridi connubi tra multinazionali e gruppi di potere, compresa la mafia e il collettivismo librario, quasi che i frutti dell’uomo colto non abbiano altra irridente fortuna che quella di essere venduti deprezzati da impietosi opportunisti.
È soprattutto, più specificatamente, una questione morale oltre che culturale in senso lato, chè la cultura senza la morale non può dare buoni risultati. Un qualsiasi uomo dotto, un qualsiasi scienziato, se non è mosso dall’assenso o dal rimprovero della propria coscienza, se disprezza la sacralità della vita del suo simile e non ha alcun terrore di attentarvi, i misfatti, le sovversioni, le congiure, le guerre, le stragi aumenteranno a dismisura, e la possibilità che l’uomo si sostituisca alla belva anche nel comportamento, un giorno diverrà realtà. In tal senso si è già fatto un gran passo avanti.
Senza morale non c’è diritto, non c’è amore, non c’è prossimo, non c’è commiserazione né pietà. E allora siano pure chiuse le scuole, i tribunali, le chiese, tanto sono inutili. A che vale tenere in vita queste istituzioni? Forse che si è degni di vivere trascurando il culto della morale nelle scuole, e che senza giustizia dettata dal profondo della retta coscienza possa esservi uomo di legge? E che le chiese, da sole, possano convertire la canaglia del nostro secolo?
Solo una giustizia libera e indipendente, imparziale e irreprensibile, potrà salvare la nostra democrazia dai morsi tenaci di tanti falsi amministratori che vogliono ridurci alla bancarotta.
In una sua recente opera1 l’economista Umberto Villari fa rilevare che «la crescita e lo sviluppo della democrazia moderna saranno caratterizzati dall’abbandono dell’ambiguità nel cui senso spesso la politica viene ad agire nei confronti delle relazioni interne e degli altri Stati». E continua: «Nessuno deve potersi porre al di sopra delle stesse leggi. In primo luogo coloro che hanno ricevuto il mandato di fiducia dei cittadini elettori. Certo, se si vuole rinnovare la società occorre ristabilire il diritto. Bisogna risanare lo Stato e, quindi, in primo luogo, chi amministra le istituzioni dello Stato, la politica che emana dall’alto».
Soltanto allora, quando tutte queste invocate e auspicate trasformazioni avverranno, l’umanità potrà dirsi finalmente al sicuro da una possibile catastrofe che l’imperscrutabile prodiga Natura, nella sua infinita creatività sta già ritorcendo a sua difesa contro di noi, per disfarsi, forse, di una stirpe che ha scelto la strada dell’autodistruzione, dopo che nella mente degli uomini si sono moltiplicati i germi della follia criminale.
Donato Accodo
1 U. Villari, L’economia. nella partitocrazia, Roma, E.I.L.E.S., 1989, pagg. 314-315.
Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 11-15.
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