Ricordo di Giuseppe Ungaretti
Sì, lo ricordo bene: ho come dei flash-back che me lo riportano alla memoria in modo diverso e a diverse età: mie e sue.
Lo ricordo quando, bambina, nel giardino di casa Saffi – dove si faceva musica di élite tra «dilettanti» – ma che dilettanti! – e il Trio di Trieste, non ancora molto noto, incantava con i trii di Beethoven che risuonavano dalle cucine al giardino – Ungaretti si appartava a volte con noi bambini, ma come isolato tra sé e sé in un mondo magico, fantastico: e cominciava a un tratto a declamare i suoi versi. Mi pare di risentirlo -la sua voce roca con intonazioni ancora toscane -lucchesi, per la precisione: infatti i genitori di Ungaretti erano lucchesi, anche se era nato ad Alessandria d’Egitto – recitare «Il Mughetto»: «Mughetto fiore piccino/calice di enorme candore/sullo stelo esile/innocenza di bimbi gracili/sull’altalena del cielo». E ancora: «Stelle»: «Tornano in alto ad ardere le favole. /Cadranno con le foglie al primo vento. /Ma venga un altro soffio/ritornerà scintillamento nuovo». Le sue parole mi sembravano davvero favole, ma favole nuove: il loro incanto era per me molto convincente.
Ascoltavo affascinata quella voce rauca che sembrava arrancare alla ricerca delle parole, ognuna delle quali sgorgava nuova, come colta in quel momento in un giardino di fiori poetici, creata ex-novo; e, legando inconsciamente musica e poesia – due arti, cui fin da piccola ero consueta, essendo figlia di poeta e musicista – intuivo l’intonazione musicale della parola detta. Null’altro allora. Solo più tardi avrei scoperto consapevolmente il poeta Ungaretti, che diceva di sé: «Quando trovo/in questo mio silenzio/una parola/scavata è nella mia vita/come un abisso».
Chi dice che i bambini non possono capire la poesia? Al contrario: io credo che la riconoscano a istinto, quando è vera. Forse mio unico merito è di aver riconosciuto Ungaretti vero poeta solo a pochi anni. E avere avuto il privilegio di conoscerlo, di ascoltarlo già in quel tempo lontano, ha fatto sì che egli avesse larga parte nella mia vita e nella mia formazione culturale, facendomi amare e inseguire quell’arte chiamata «poesia», che io già amavo e a cui sarei rimasta incline per tutta la vita.
In quel salotto di casa Saffi si incontravano settimanalmente anche gli amici de «La Ronda», la famosa rivista letteraria seguita a «La Voce» che includeva Bacchelli, Barilli, Baldini, Cardarelli e tanti altri. Ungaretti, della «Ronda», non fece mai parte, tuttavia era buon amico di tutti loro, anche se da alcuni veniva molto contestato. Mentre «i grandi» si occupavano della cultura, le mie sorelle e io preferivamo giuocare con la figlia di Giuseppe Ungaretti, Ninon: era meno impegnativo!
Fu anni più tardi – dopo aver letto Il sentimento del Tempo e molte altre cose di Ungaretti ed essermi documentata sull’uomo-poeta che avevo conosciuto bambina – che conobbi maestro. Frequentavo infatti le sue lezioni di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea all’Università di Roma, dove insegnò per molti anni al ritorno dal Brasile. Capii allora via via che il messaggio della sua poesia – della quale ogni tanto lo costringevamo, noi allievi, a parlare – aveva quasi sempre un carattere irrazionale, suggestivo, quasi magico, anche se ben ancorato a una realtà della quale l’A. non prescindeva. Ungaretti era ben convinto che uno scrittore, un poeta, appartiene decisamente a un dato momento storico, è incarnato in una certa realtà: donde, la conseguente necessità di impegno. Soleva dire: «Lo scrittore è sempre impegnato: se no, è uno scrittore inesistente». E continuava: «Non esiste poesia disimpegnata, anche quando la poesia sembra più libera, anche quando sembri non ascoltare se non la propria voce di poesia: la poesia è impegnata, legata ai suoi tempi, al destino suo, al destino degli altri uomini… E le fatali limitazioni che le si pongono non devono mai impedire alla poesia di conservare o di ambire di avere una universalità». Richiesto, una volta, se il poeta, nonostante i condizionamenti sociali, potesse a suo parere contribuire a rendere l’uomo consapevole della propria libertà, Ungaretti rispose, tra le altre cose: «Certo, se non ci fossero più poeti nel mondo, se non ci fossero più uomini che non credono che il mondo sia puro determinismo, la persona umana sarebbe finita, non esisterebbe più… Il valore della poesia è di rivendicare costantemente questa autonomia singola della persona umana e di fare sentire agli altri che va rivendicata perché altrimenti l’uomo sparirebbe come persona e diventerebbe una piccola parte di un ingranaggio meno importante degli ingranaggi che lui stesso ha trovato1».
Oggi tutto questo può suonare come espressione estremamente individualistica: è accaduto per certi poeti russi, ad esempio, che pur condividendo e vivendo gli avvenimenti storico-politici del loro tempo e del loro paese, sembrano essere rimasti più «poeti» , più «profeti» e «narratori» della storia contemporanea, che non veri rivoluzionari e poeti della rivoluzione. Penso ad esempio a un Pasternak in Russia. Tuttavia non è così: proprio la universalità della qualità poetica della vita impedisce alla poesia stessa di farsi strumentalizzare in qualsiasi modo. Essa «è» di per sé e comunque. In tal senso è anche strumento: non altrimenti. A Ungaretti piaceva dire: «Io credo che la poesia ha una sua validità anche se la gente non la leggesse, perché c’è in tutti gli uomini, la poesia, c’è inespressa ed è quello che salva nell’uomo l’uomo che è singolo, che è distinto da tutti gli altri uomini, che è una cosa che vale per se stessa».
Il messaggio della poesia di Ungaretti, dicevo, non era dunque messaggio indecifrabile come i critici di allora spesso ebbero a dire: bensì messaggio poetico autentico. Ungaretti stesso rifiutava critiche come quelle del Flora, che facevano di lui una specie di fondatore dell’«ermetismo» e rifiutava il termine di «oscuro», a lui spesso riferito, anche se affermava con foga che «dietro la parola e i suoi significati più precisi. più detti, c’è uno spazio illimitato, illimitabile, lo spazio del “segreto”: lo spazio, appunto, della poesia».
Sovente, durante le sue lezioni, citava Leopardi, dicendo che questi, molto meglio di lui, aveva affermato che se la poesia non suscita nella persona che l’ascolta, o nello stesso poeta che dà la parola, questo senso che va oltre il «preciso» significato delle cose, oltre la realtà determinabile, non è poesia. Egli si considerava volentieri un continuatore del filone antico che faceva capo a Petrarca
e a Leopardi… e, forse, in tal senso rappresentò anche quella «restaurazione culturale» promossa dal fascismo, che aveva teso a riportare la poesia a un certo ordine nell’ambito – anche figurativo e musicale – del neo-classico. Tuttavia Ungaretti fu essenzialmente il poeta che. disgregando il verso tradizionale e frantumando il discorso poetico in una serie di «monadi verbali sillabate», fu innovatore assoluto e diede, in un preciso momento difficile della storia letteraria in Italia, un impulso fondamentale, con un’azione di violenta rottura e di contestazione, dimostratasi delle più feconde. La poesia di Ungaretti cominciava ad apparirmi come una vera e propria riconquista critica del valore di ogni parola, un’illuminazione profonda della complessità della vita e della fantasia, primitività lirica riconquistata con grande sapienza.
Lo ricordo anche bene, Ungaretti – forse più umano e meno «diabolico», anche se i suoi occhi piccoli e un po’ satanici sotto le sopracciglia folte e cispose mi spaventavano sempre – nella sua casa di Piazza Remuria, sull’Aventino nuovo, circondato dall’affetto e dalle premure della cara, silenziosa moglie francese e della figlia Ninon: nella quiete del primo pomeriggio, quando mi riceveva e, dalla sua grande poltrona di cuoio, mi dava – con apparente distacco – consigli per la stesura della mia tesi di laurea (preparavo infatti una tesi su Bruno Barilli, musicista, critico musicale e letterario, giornalista e compositore, un personaggio anch’esso da me conosciuto bambina e grande amico degli Amici al Caffè. Non era facile né comodo, Ungaretti, come maestro. E nemmeno come uomo. Nella sua casa viva di memorie, di affetti, di immagini, fra i suoi libri e i quadri degli amici, Ungaretti sembrava immerso in un continuo soliloquio e in continua meditazione. Una delle sue poesie ben rispecchia questi stati d’animo: «E quando squillano al tramonto i vetri/ma le case più non ne hanno allegria/per abitudine se alfine sosto/disilluso cercando almeno quiete/nelle penombre caute/delle stanze raccolte/quantunque ne sia tenera la voce/non uno dei presenti sparsi oggetti/ invecchiato con me/o a residui d’immagini legato/di una qualche vicenda che mi occorse/può inatteso tornare a circondarmi/sciogliendomi dal cuore le parole».
Forse l’Ungaretti poeta e l’uomo Ungaretti – più vero, più scoperto, più aderente al suo messaggio poetico – mi si rivelava soprattutto quando riusciva a parlarmi del figlio molto amato, Antonietto, morto a San Paolo del Brasile nel 1939: lo ascoltavo e lo guardavo, in quei momenti rari, come chi è fatto oggetto e depositario di una confidenza affidata, grave, importante. In quei momenti il suo volto appariva segnato dal dolore e dalle vicissitudini, e anche dall’intensità della vita interiore: in quei momenti Ungaretti somigliava molto all’uomo del ritratto che un giovane pittore di genio gli aveva fatto, a come lo aveva visto: Scipione, nel suo bellissimo ritratto. Da quel dolore, antico, infatti, erano anche scaturite poesie di grandissima qualità.
Lasciatosi andare alle confidenze, a volte mi proponeva di accompagnarlo in una delle sue passeggiate per i viali alberati intorno a casa sua, dove si recava ogni giorno quasi a inseguire lentamente i ricordi, «echi brevi che si protraggono in un inutile infinito…» Avremmo dovuto parlare della mia tesi, e invece… Le «usate strade» lo conducevano dove l’antico risplendeva nella memoria, dove il nuovo s’innestava nella luce del vivere quotidiano. Come da ragazzo passeggiava sulle rive del Nilo, ad Alessandria d’Egitto – mi raccontava dove era nato e nelle tiepide sere egiziane usciva quasi a seguire il ritmo di un’insolita soffocata poesia, così quell’abitudine non l’aveva più abbandonato. E a Roma scendeva fino al Tevere che – come tutti i fiumi importanti della sua vita – sembravano accompagnarlo nel suo lento e solitario vagare. Il Tevere gli era diventato familiare, «laborioso», non più mitico: al suo cospetto, davanti allo schieramento dei palazzoni nuovi che già allora sembravano sopraffare l’incantata sopravvivenza degli acquedotti, Ungaretti sembrava cercare ancora una misteriosa corrispondenza tra se stesso e il cosmo, l’armonia tra se stesso e gli altri.
Si direbbe che il fiume sia stato come un emblema umano di Ungaretti. Tutta la sua vita si è svolta, a ben pensarci, sotto il segno dell’acqua: da quella del Nilo a quella della Senna, nei suoi anni di studente alla Sorbona di Parigi, dal Serchio all’Isonzo, negli anni della guerra del ’14-’18 e delle sue prime, straordinarie, «essenziali» poesie, scarne e rapide come quando si ha fretta di scrivere perché non c’è tempo da perdere e perché potrebbe non esserci un altro giorno per scrivere. Di quell’epoca sono la famosissima «Si sta come/d’autunno/sugli alberi/ le foglie». E anche: «Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro/ Di tanti/che mi corrispondevano/non è rimasto/neppure tanto. Ma nel cuore/ nessuna croce manca/È il mio cuore/il paese più straziato».
Per anni, poi, lo persi di vista. Il lavoro, i viaggi mi impedirono una consuetudine più stretta. Tuttavia lo ricordo bene quando, per le celebrazioni in onore dei suoi 80 anni, nella Sala della Protomoteca in Campidoglio fu festeggiato e, commosso, andava dicendo che non confessava -né sentiva – di avere 80 anni, ma che aveva risolto il problema dicendo che aveva «4 volte vent’anni»! Di quel giorno – così come di un incontro con i giovani di una scuola nei dintorni di Roma – ho una breve registrazione, che forse a molti piacerà ascoltare per udire dalla viva voce di Ungaretti vecchio – così intensa, così sempre più roca, rarefatta e rada, così scavata e sofferta, quasi alla ricerca di vibrazioni sempre più sottili, di espressioni sempre più essenziali – le sue emozioni, il suo sentire. Ai presenti che gli chiedevano come facesse a ottant’anni a scrivere poesie d’amore, egli rispondeva sogghignando che «basta essere vivi nel cuore, per scriverle»…
Francesca Boesch
(*) Appunti per una conferenza tenuta presso l’Istituto Italiano di Cultura in Danimarca il 1°-12-’88 nel centenario della nascita del Poeta.
1. Quel «lui» non mi piace, anche se è di Ungaretti, come non mi è mai piaciuto «Il zappatore» del Recanatese; visto però che è seguito da «stesso»…
Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 29-33.