Romano Cammarata, Dal buio della notte, Armando Editore, Roma, 1983.
A chi ancora non si fosse soffermato a meditare sul significato della parola supplizio sin nei termini ultimi delle comuni possibilità interpretative e per mancanza di amore verso il prossimo, o per semplice apatia non abbia provato, almeno una sola volta nella vita, effetti benefici dopo essersi compenetrato nel dramma di una qualsiasi creatura, che al martirio della Croce non pari sol perché a tutte le innumerevoli sofferenze fisiche non si è potuto aggiungere il barbaro rito della vera e propria crocifissione, quest’opera sortirebbe nient’altro che un freddo e alquanto distaccato interesse. Viceversa lascerà una traccia indelebile nel cuore e nella mente di tutti coloro che, avendo provato l’intensità del proprio dolore, delle proprie afflizioni esistenziali, giudicheranno meritevole di esaltazione il calvario del protagonista minato da un terribile male, risorto a nuova vita, grazie alla sua tenacia, alla sua resistenza agli assalti della malasorte nella tempesta di timori e pensieri funerei, oppresso dall’assillo di un’ipoteca totale a garanzia di un viaggio senza ritorno, a lungo tempo e puntualmente rimandato ogni volta che il responso delle analisi cliniche ed istologiche lasciavano spiragli ad un esile filo di speranza vitale.
Andrea, questo straordinario sopportatore del dolore e artista della penna, ha saputo ovviare alla fragilità di detto filo con una resistenza che più volte – miracolo? – ha retto persino agli attacchi della ghignosa signora, impaziente ora più ora meno, ma sempre pronta a ghermire la preda nel silenzio delle interminabili notti insonni, tra il timore inconfessato di una imminente dipartita o di una non più possibile procrastinazione, tra una carezza e l’altra di Francesca che con bisbigli di consolazione e di amore si mostrava desiderosa di appropriarsi i dolori dello sventurato sposo come a lenirgli il travaglio dell’incessante tormento.
In una esposizione lineare e rispettosa del migliore uso della lingua italiana, Romano Cammarata ci ha trasmesso un dramma di elevata potenza descrittiva in tutti i risvolti e rilievi di un’allucinante esperienza. Ed è senza dubbio merito da riconoscergli senza riserve, se pensiamo che altri, al posto suo, avrebbero potuto avere persino timore di descriverla per non rivivere, ai confini dell’umana sopportazione, una lotta tante volte ritenuta impari e tuttavia combattuta dalla ferrea volontà di non demordere, di continuare a vivere pur tra i rantoli della disperazione, di dimostrare, nel modo e nel senso più credibili equalmente certi, che quando si è sorretti da una forza morale l’attesa di sublimi miracoli non è poi sempre vana. In Dal buio della notte è difatti dimostrato che competenza, tecnica e dedizione di valenti luminari della medicina e dell’alta chirurgia fanno ottenere risultati sorprendenti se il paziente reagisce all’idea della capitolazione. L’odissea di Andrea ne è una comprova.
Privo di un occhio asportatogli, devastato in viso, in ansia nella speranza di guarire e l’avvilente incertezza della buona riuscita, con la metà del palato e una mascella ricostruita, finalmente vittorioso sulla morte in agguato, il degente che oltre che per i suoi mali soffriva per quelli dei compagni che non rivedrà mai più e che ricorderà con sentita commozione, oggi, nell’espletamento delle complesse mansioni attinenti alla sua professione, è un uomo di una serenità olimpica, che infonde fiducia e coraggio con l’eleganza del suo dire, pago d’aver dimostrato che a colui che vuole nulla è impossibile e che, in definitiva, l’amore per le cose e per le persone amate, l’attaccamento alla vita, il rispetto per i propri simili, il disprezzo per gli impietosi che non si rattristano nemmeno in casi disperati, avranno la meglio nel superare qualsiasi ostacolo. Tanto più se sorretti dall’ardente desiderio di non lasciare orfani i propri figli e maggiormente se spronati a resistere dalla santità di una donna, senza l’abnegazione della quale il nostro protagonista non ci avrebbe potuto raccontare il suo dramma perché, probabilmente, già morto.
Storie del genere saranno accadute già altre volte, pochissime a lieto fine, per la verità, ma la Via Crucis di Andrea può a ragione ritenersi un esempio di ricupero ad un passo dalla fine, di riconquista del proprio equilibrio psicofisico, una dimostrazione di come comportarsi quando più aspra si fa la lotta nel periglioso pelago delle sventure umane. Sì, la riconquista di un bene prezioso strappato alla morte, il superamento di se stesso forgiato dapprima dalla fucina del dolore e dalla tribolazione, indi sospinto a novella vita dalla ritrovata felicità.
Donato Accodo
Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 62-63.
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