Leggendo i versi della Stecher (vive e lavora a Messina. Collabora alla terza pagina della Gazzetta del Sud, ha pubblicato: “Dialoghi e Soliloqui” – Firenze 1978-; “Qualcosa di sbagliato”- Palermo 1981-; “Non la terra” Palermo 1983-; “Quale Nobel Betuna” -Palermo 1986-; sue poesie sono presenti in riviste ed antologie sia italiane che estere) è quasi del tutto naturale immaginarsi l’autrice seduta alla sua scrivania, intenta a raccogliere da vecchie e ingiallite foto d’epoca il ricordo, l’emozione, il pensiero svanito nel tempo. Gli affetti familiari sono “la culla primordiale” del nostro “crescere”, della nostra personalità, e se vissuti in serena simbiosi, offrono spunti incredibili per itineranti “trasmissioni” della memoria, ricco forziere di possibili animazioni sensitive, lontane dal freddo pragmatismo psicologico. Non basta rivelare come preistorico florilegio gli episodi genealogici, per coinvolgere con la poesia chiunque voglia soffermarsi sull’idillio elegiaco di un “artista delle parole”. Occorre (come fa la Stecher) “creare” atmosfere, veri teatri di posa dove gestire la regia del “raccontare”, con la naturale conversione di attenti, precisi riferimenti storici e sociali che navigano “oltre” il tema privato, in un armonico, coerente “spazio architettonico” dove l’eterogeneità dei singoli componenti non agisce come elemento di disturbo. Un “campo lungo” che si rivolge a se stesso, estraendo l’io narrante per adagiarlo su una base speculare, adatta all’interpretazione diretta dello spirito introspettivo, ultimo anello della catena, ma assolutamente fondamentale. Le assonanze ironiche, terse freddure logiche, aggiungono lo stile denominativo, che puntualizza senza errore il temperamento “stecheriano” (“… La tua incuranza fu la loro penai perché non c’è peggio per i polli / che di veder fuggire un prigioniero”. – Foto di mia madre-).
Da non dimenticare la minuzia, il gioco sottile del “particolare”, non sempre legato ad un oggetto ma spesso identificato con l’atteggiamento specifico, che attira l’attenzione selettiva e sagace (non per questo discriminante) della poetessa, abile nelle sortite dialoganti con l’ampio carnet dei personaggi presi in esame.
Questa miscelante rappresentazione del nucleo domestico, lascia nel lettore un vago profumo di cose perdute. Evanescenti essenze mai svaporate dalla ciclica e intermittente “danza delle ore”. Ingranaggio di percezioni che non “corrodono” la temporalità poetica dell’autrice. Lucida e reale evocatrice del proprio lirismo.
Maria Giovanna Cataudella
Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pag. 79
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