Una realtà tutta meridionale
Cosa c’è di strano nell’abbandonare il luogo natìo per andare altrove, in una grande città o in uno sperduto paesetto di montagna? Niente – mi si risponde -, abituati, come si è al giorno d’oggi, a spostarsi da un capo all’altro dell’Italia o del mondo alla ricerca di un posto sicuro per lavorare e vivere. Più che strano, brutto è invece, lasciare il proprio paese per l’aria insopportabile che vi si respira, a causa della delinquenza organizzata che tutto soffoca e opprime. Non ci sono alternative, o adeguarvisi, e vedere e accettare l’illegalità imperante, o andarsene, perché la debolezza dello Stato rende deboli e impotenti i cittadini, costretti a far silenzio per non subire.
Ludovico de La Terra senza di A. Vinci, dramma in due atti pubblicato da Ila-Palma, è dovuto andarsene dal suo paese perché non aveva avuto altra scappatoia, e lui non aveva voluto accettare una realtà così avvilente quale quella dei mafiosi che impongono il silenzio con l’arroganza e la forza delle armi. Non era per lui e non vi si riconosceva, dopo che il padre, per essersi ribellato, era stato malvisto dai paesani e considerato un pazzo, costretto a vivere in casa, e il suo amico migliore, Antonio il cantastorie, ucciso proprio per aver denunciato col canto uomini e misfatti nella pubblica piazza. Che vita sarebbe stata la sua, quali aspettative gli avrebbe potuto riservare un luogo che aveva fatto svanire le illusioni e le speranze della sua gioventù Una terra senza pace cosa avrebbe potuto offrirgli, se non di diventare come i peggiori dei disonesti?
Anna Vinci ha saputo calarsi con questo dramma nella realtà meridionale e siciliana, rimasta invariata fino agli ultimi decenni del secolo scorso. Non che ora sia cambiata, ma non c’è più quell’omertà che condizionava persino l’aria da respirare. In ogni caso, è un dramma ben riuscito, perché vero che trova linfa in quella realtà ma il suo sviluppo è nei personaggi, anzi in essi esplode e si realizza.
Anche questi sono ben riusciti, e lo è Ludovico che, ritornato dopo tanti anni, quasi pronto a ripartire, una volta venduta la casa paterna, ha difficoltà ad accettare quella realtà e a riconoscervisi, tanto da venire in contrasto con Rosa, la sorellastra, che aveva atteso e desiderato la sua venuta; e quando gli chiede se è stanco, risponderà che più del viaggio è il ritorno a stancarlo. Lei, invece, accetta il passato nel ricordo dei giorni belli e fa di tutto per vivere il presente, anche se dentro le mura domestiche, perché sa bene che la gente è stata cattiva con tutti loro. Perciò si sforza di non pensarci, corroborata dalla fede che la sostiene nella solitudine e dall’affetto, anzi dall’amore che riversa sul figlio e su Ludovico. Con l’arrivo di Ludovico, atteso da chissà quanto, Rosa sperava di ricomporre in piccolo la famiglia. Ma il ritorno pesa come un macigno sulla testa di Ludovico a cui di tanto in tanto gli manca l’aria e ha fatica a respirare.
Il dramma si gioca soprattutto tra questi due personaggi. Giacomo, il figlio di Rosa, fa la sua comparsa alla fine del primo atto e rimane in scena per buona parte del secondo. È come dice Ludovico, un “disincantato”. In effetti, egli rappresenta il nuovo, e il passato non lo conosce; non riesce a calarsi nello stato d’animo di Ludovico e nemmeno condivide quello della madre che pure vuole bene.
L’ambiente, che è uno studio, permette di seguire da vicino ciò che si svolge attorno, mentre dal sottoscala alcune voci di donne s’intercalano alle scene. Molto interessanti e utili sono le didascalie che aiutano nella lettura e nella comprensione del testo, e quelle dell’inizio sono un’ottima introduzione al dramma.
Ugo Carruba
Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 62-63.
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