Dante e l’arte del preludio: il canto I del Purgatorio (*) 

Il c. I del Purgatorio è, quasi per antonomasia, il preludio della cantica. E da tempo. Già nel lontano 1906 il D’Ovidio lo designava come tale fin nel titolo di un grosso volume in ·cui raccoglieva solo due saggi: uno, sul primo canto del Purgatorio, l’altro, su tutta la cantica. Il titolo era infatti: Il Purgatorio e il suo preludio e, se nella sua prima parte, Il Purgatorio, intendeva il secondo dei due saggi, nella seconda, il suo preludio, intendeva invece il c. I. Di conseguenza, diveniva Il primo canto del Purgatorio all’interno del volume, là dove serviva a titolare il primo dei due saggi suddetti. Si esplicitò in Il preludio del Purgatorio nell’edizione del 1932. Nonostante il titolo, però, il saggio stesso è solo una discussione, sia pure puntuale documentata e precisa, di tutta la problematica posta dai vari elementi del canto, una rassegna delle varie proposte interpretative analitica e minuziosa, in perfetta sintonia con la scuola del “metodo storico” allora dominante, che tuttavia tralascia ogni operazione di sintesi e di confronto con il resto della cantica, sicché ci lascia nell’attesa di conoscere i motivi per i quali quel 

canto è stato definito preludio. Studi posteriori, più propensi a definire valori poetici e non a discutere dati eruditi, hanno dedicato buona attenzione a questo valore proemiale del canto, ma senza fame oggetto di uno studio specifico e assoluto. 

Questo è invece quanto io, modestamente, intendo fare in questa sede, giovandomi certo delle indagini precedenti, ma mirando a comporle, con le opportune aggiunte, in una organica unità, che valga anche a fornire un altro dato dell’altissimo valore dell’arte del nostro Sommo Poeta. 

Desidero, insomma, dimostrare quanto sia appropriata la definizione di “preludio” data al canto, ove per preludio si intenda una scrittura che svolga il compito di introdurre ad un’opera non ponendo premesse o narrando antefatti – contenuti che si addicono meglio a un prologo o ad un proemio – ma anticipandone e sintetizzandone le sue caratteristiche, i suoi valori ed i suoi significati, persino le sue tonalità, insomma i suoi elementi essenziali e distintivi. Così come ‘accade, là dove ci sono, ai preludi di certi melodrammi lirici, spesso vere sintesi dei motivi dominanti nell’opera che introducono. Rispetto ad essi il preludio dantesco ha questo di diverso, che non è una parte a sé, nel qual caso avrei preferito dire “preludio al” e non “preludio del”, ma, come quelli, prepara i lettori ad entrare nell’atmosfera della cantica, ad avvertirli delle sue proprie qualità e condizioni. 

Il primo ‘movimento’ di questo preludio è già nell’esordio. Dante vuole predisporre quanti si accingono alla lettura della cantica a intendere, che essi si avviano a compiere con lui un viaggio singolarmente foriero di conoscenze utilissime a propiziare un’alta elevazione morale. Appunto perciò nel paesaggio che egli descrive occupa una parte prevalente il cielo •e i colori sono di una delicatezza e di una trasparenza davvero singolari. Anche il linguaggio si adegua: se, nella sua concretezza, insiste su termini espressivi di evasione e di elevazione: correr, surga, alza, salire, resurga”” poi, acquistando in levità, si fa notevolmente musicale e, in particolare, melodico. Anche per questo la dizione “preludio” è 

* Il presente articolo ha alla sua base il testo di una Lectura Dantis dallo stesso titolo da me letto nell’aprile del ’91 nell’ambito di un ciclo organizzato dal Comitato di Palermo della Società Nazionale “Dante Alighieri”.

quanto mai appropriata. Essa richiama quella virtù propria della musica che è la sua straordinaria capacità di astrarre e di attrarre, astrarre dalla logorante invadenza del quotidiano e del reale e attrarre verso un mondo rarefatto e sublime, tanto più affascinante quanto più i suoni sono pacati, coinvolgenti, stimolanti verso l’immaginazione. 

Si accentua, intanto, la differenza dal c. I dell’Inferno, che svolge anch’esso una funzione introduttiva ma al quale si addice meglio la qualifica di proemio o di prologo. In esso, infatti, ha luogo una presentazione piuttosto analitica sia della struttura del primo dei tre regni dell’oltretomba (vedi la corrispondenza fra le tre fiere e le parti in cui sono distribuite le tre specie di peccato) sia di tutto il viaggio da compiere (vedi le indicazioni delle sue fasi date da Virgilio). Di conseguenza, il canto risulta eminentemente informativo, quasi didascalico, un complesso in cui le stesse figure allegoriche hanno un che di rigido e di oggettivamente definito, che solo il criticismo dei commentatori – a questo punto della loro opera ancora freschi di energie – ha potuto sinistramente complicare, mentre la poesia, per parte sua, fiorisce solo quando l’apparizione di Virgilio suscita sentimenti di commozione, di ammirazione, di gratitudine unita alla coscienza di avere, per effetto della frequentazione delle opere di quel maestro e di quell’autore, rinnovato il miracolo di un’arte di ben altra tempra che non quella di certa farraginosa e goffamente ornata arte medievale. Giusta, dunque, la qualificazione di canto proemiale a tutta l’opera, che del resto corrisponde a una precisa intenzione del poeta, chiaramente comprovata da numerosi elementi di fatto. 

Nel c. I del Purgatorio, invece, il procedimento è un altro: più scorrevole e al tempo stesso più organico. Gli stessi simboli sono parte del paesaggio – lo ripeto in termini più espliciti -, elementi coloriti e luminosi o inseriti in esso o strettamente connessi con l’agire e il parlare delle figure, chiari prefazi di una bella e ambita catarsi. È per queste ragioni che, mentre il 1° dell’Inferno è un ‘a parte’, un canto tenuto al di fuori del numero mitico dei 99, il 1° del Purgatorio non è distaccato dagli altri. Si direbbe che il dolce “licor” “nato” dalla stupenda visione di quel regno si compendia in quel canto e da essa poi “si distilla” nei singoli episodi e nelle singole. figure. Il risultato è una superba omogeneità delle tematiche, delle figurazioni e dei toni che conferisce al Purgatorio, rispetto alle altre cantiche, una maggiore unità, anche esteriore. 

Di fronte a questa tonalità poetica complessiva della cantica, di cui il c. I vuole partecipare, al tempo stesso in cui vuole preannunciarla, perdono diversi gradi di importanza le discussioni intese ad accertare il valore logico di certe espressioni o l’esattezza scientifica di certi dati. Fa parte di queste discussioni, per esempio, la ricerca dell’esatto, significato di “primo giro” Cv. 45) o della corretta grafia di “adorezza”, così come serve solo ad appagare l’orgoglio degli eruditi la scoperta – davvero straordinaria! – che nel 1300, l’anno dell’immaginario viaggio di Dante nell’aldilà, la stella di Venere era vespertina e non mattutina come la vede Dante ai ‘0’. 19-21. Di conseguenza, o Dante è incorso in un errore astronomico o bisogna spostare in avanti di un anno il suo viaggio. Risponderò con U. Bosco1, che l’accusa è immeritata e lo spostamento non necessario. In verità, a Dante, qui, la stella di Venere serve per aggiungere un tocco di luminosità ad un paesaggio che deve, prima di tutto, ristorare il pellegrino dal lungo e deprimente tribolare nelle tenebre e tra le pene dell’inferno e a far coincidere felicemente l’inizio di una fase nuova del viaggio con l’inizio di una nuova giornata, nonché a improntare a sentimenti di amore nel senso più lato la vita delle anime e i rapporti tra loro e con Dante. Quale elemento più e meglio dell’astro di Venere – “Lo bel pianeta che d’amar conforta/faceva tutto rider l’oriente”, (vv. 19-20) raduna in sé tutti questi motivi di idoneità a soddisfare le esigenze poetiche di Dante? Venere, dunque, anche se ciò comporta una inesattezza scientifica – che poi è una delle pochissime – Venere, perché un tale astro rende tanto copiosamente sul piano dei valori pittorici e poetici. Così come le quattro stelle che Dante vede splendere subito dopo, quando si volge verso il polo antartico. L’erudizione di taluni commentatori vi ha ravvisato la Croce del Sud, postulando a sostegno di tale tesi mezzi piuttosto inverosimili attraverso i quali Dante poté conoscerne l’esistenza. Ma è tesi che cade sconfitta da questa acuta osservazione del Porena2: “Se Dante avesse avuto notizia della Croce del Sud… come avrebbe potuto dire che quelle stelle erano state viste solo dalla prima gente?” (Avrebbero infatti dovuto veqerle anche questi ipotetici informatori di Dante). Invero, non si vede che necessità ci sia di dare un nome a queste stelle. Il loro valore è soltanto simbolico e funzionale. Infondono, assieme a Venere, la gioia della luce al cielo e quindi al paesaggio, concorrendo con esso a procurare altra distensione all’animo aduggiato del pellegrino: preparano una perfetta corrispondenza con le tre altre che le sostituiranno verso l’ora del tramonto, quando Dante si troverà nella valletta dei principi, e che verranno a completare il quadro etico-dottrinario delle virtù – cardinali le prime, teologali le altre -; illuminano di una luminosità quasi solare il volto di un venerabile vegliardo, Catone l’Uticense, che verrà subito a stagliarsi con la maestosità della sua figura sullo sfondo di quello splendido scenario naturale. Al tempo stesso esse forniscono la prima esplicita affermazione del possesso, da parte dell’insigne vagliardo, di quelle doti morali per cui Dante lo ha scelto a ricoprire il prestigioso ruolo di signore del Purgatorio. 

Dico signore, e non guardiano o custode, come comunemente si dice, giacché il potere di cui Catone è investito è quello di balio o baiulo, e balio o baiulo (dal fr. balif o baiili, a sua volta dal lat. baiulus) era infatti nel Medio Evo, fin dai tempi di Filippo Augusto (1180), il funzionario regio dotato di ampi poteri giurisdizionali oltre che amministrativi, quasi un rappresentante del re. Molto esattamente il Sapegno3 spiega “balia” (v. 66) con “governo”. 

Questa presenza di Catone nel Purgatorio è stata da tempo oggetto di alcuni stupiti interrogativi. Catone infatti, razionalisticamente interpretato, avrebbe tanti motivi per restare escluso da ogni ‘salvezza’ cristiana. Fu infatti un pagano, un anticesariano, un suicida. Tuttavia, per Dante, tali qualifiche non sono affatto proibitive. Catone è uno di quei pagani che, in forza dell’eccezionalità di certe loro doti intellettuali e morali, hanno meritato di essere considerati da Dante, e non solo da Dante, come uomini, appunto, eccezionali e quindi assumono nelle pagine del Poeta valore di simboli. A parte Virgilio, la cui valutabilità di cristiano ante liiteram era un dato acquisito dalla cultura medievale e che quindi basterebbe da solo a dar peso a questo giudizio di Dante su certi pagani. si pensi a Enea, accostato all’apostolo Paolo, si pensi a Rifeo e a Traiano, già assurti all’eccelsa dignità del Paradiso, e si pensi pure ai tanti altri personaggi celebri del mondo antico, anche musulmano, che vissuti da buoni anche se estranei alla fede di Cristo, Dante, spinto da un giusto sentimento di simpatia umana, .colloca fuori dell’Inferno, nel Limbo, arditamente contraddicendo la sentenza di S. Tommaso che dal Limbo appunto esclude gli adulti non battezzati, in quanto non accetta che vi siano adulti ancora macchiati dalla colpa originale che non siano anche rei di peccati attuali (Summa I, Il, 89,6). Rispetto ad essi, Catone è in una condizione ancora migliore. Ha l’alto vantaggio di essere stato chiamato da Cristo fuori dal Limbo assieme ai Patriarchi e di essersi quindi assicurata la beatitudine celeste da fruire in uno con il corpo quando questo risorgerà nel giorno del giudizio universale: “la vesta che al gran dì sarà sì chiara” (v. 75). Pagano sì, dunque, ma pagano d’eccezione, tanto che già alcuni scrittori pagani avevano visto in lui dignità quasi divine. Seneca il retore, ad esempio, aveva a1Termato (nel proemio alle Controversiae): “Quale soprintendente alle cose sante potrebbe trovarsi la divinità se non Catone?” E Lucano (Phars. 9,554 s.; 601 s.) faceva eco: “Gli dèi non avrebbero potuto dare gli arcani e dire la verità a uomo più degno del santo Catone, che era degnissimo di esser posto sulle ,are di Roma”. Riprendendo questi giudizi, accettati per altro anche da autori cristiani, Dante già nel Convivio (IV, 5 12 e 17) e poi nel De monarchia (2, 5, 15) , elogiando l’inenarrabile sacrificio di Catone e illustrandone il valore di atto inteso ad accendere l’amore per la libertà, conclude con il nome di Catone un elenco di romani segnalatisi per le loro eroiche cirtù e li chiama non “umani” cittadini ma “divini”. Dichiara inoltre di ritenere che essi poterono compiere le loro “mirabili azioni non senza alcuna luce della divina bontade aggiunta sopra la loro buona natura” (Conv. IV, 5, 17). Sicché, quando poi interpreta allegoricamente il racconto di Lucano sul ritorno di Marzia a Catone dopo la morte di Ortensio suo secondo marito, vi vede il ritorno dell’anima a Dio e arriva a esclamare: “E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio che Catone? Certo nullo”. (Conv. N, 28, 15]; Su queste qualità divine di Catone tornerò più avanti. Qui mi limito a notare che la rilevata eccezionalità di Catone è significata anche figurativamente dal suo stato di maestosa e statuaria solitudine sulla solitaria e singolare spiaggia del sacro monte della salvezza. 

La paganità di Catone non ha dunque costituito ostacolo per il conferimento dell’alto ufficio cui l’hanno preposto la fantasia poetica e la fede cristiana di Dante. Ma non ha costituito ostacolo neanche il suo anticesarismo che pure, nella sostanza poteva significare opposizione ai disegni della Divina Provvidenza, coadiutrice manifesta, almeno secondo l’interpretazione cristiana, dell’unificazione territoriale operata da Cesare quale struttura propizia alla diffusione del Cristianesimo. In realtà, il fatto per Dante non ha rilevanza, tant’è che ad esso neanche accenna. Né so quanto sarebbe colpa imputabile a Catone, mancando certamente a lui, tra le sue pur numerose virtù, quelle profetiche. Che se poi ha in sé una parte di errore, da esso lo riscatta, oltre alla sua involontarietà. il suicidio, gesto a cui così si aggiunge altro valore positivo oltre a quello che gli era stato riconosciuto da alcuni, tra i quali pure Cicerone (de off. 1,31, 111), che lo aveva esaltato come atto dovuto nella particolare situazione in cui Catone si era venuto a trovare, quel Cicerone che pure nel famoso passo del Somnium Scipionis (de rep. 6, 15) condanna fermamente il suicidio. Lo giustificava, invece, in linea di principio, la morale stoica, di cui Catone era seguace e che Dante stesso ammirava – perché riteneva coincidesse in più punti con la cristiana -. poco curando che Agostino e Tommaso l’avevano respinta proprio nelle sue tesi sul suicidio e che il secondo. anzi. aveva esplicitamente condannato quello di Catone. Tuttavia: precisa il Bosco4, Dante trovava in entrambi eccezioni alla condanna. Rientrava fra queste il caso in cui il suicidio viene ispirato proprio da Dio perché sia di esempio agli uomini. Proprio di tal tipo pareva a Dante il gesto dell’Uticense che si diede la morte – dirò con U. Bosco5 – “non per motivi personali ed egoistici (lo sdegno per la sconfitta di Tapso o il timore di dover sottostare al tiranno) ma per sancire con il rifiuto di vivere il valore della libertà e insegnare l’amore”. Il suicidio di Catone vale quindi come esempio ed anzi, sulla base di quanto detto – e qui sopra riferito – nel Convivio e nel De monarchia, a Dante esso appare come il supremo degli atti eroici. un atto che gli uomini non possono compiere se non ispirati dalla luce divina: esso vale anche come attestazione di capacità di vincere il più forte degli istinti umani, quello di conservazione. Dante autore, allora, ha dato altra prova di coerenza logica ricordando il valore di tale gesto proprio nel momento in cui Dante personaggio si accinge a quella salita del monte che doveva appunto dargli, prima di tutto, la libertà dagli istinti. 

Catone, dunque, in Purgatorio nonostante suicida: direi anzi, proprio perché suicida. Per le ragioni che ho esposte e per altre. che ora esporrò, e che spero diano conto della sua collocazione in questo preludio e del risalto che in esso ha. 

Iniziamo col dedicare altra attenzione a ciò che Dante ha ripetutamente detto della “divinità” di Catone. Subito dopo ricordiamo la funzione di “baiulo” che gli è affidata e che egli puntualmente svolge in questo canto e nel successivo; ricordiamo anche l’atteggiamento di massima riverenza che Dante tiene nei suoi confronti, sollecitato da Virgilio che “con parole e con mani e con cenni” (v. 501) cioè con somma premura, lo ha fatto inginocchiare, e inginocchiato e col capo chino lo ha tenuto per tutta la durata dell’incontro. Tutto questo significa che Catone è per Dante uno dei più alti ministri di Dio, forse più degli stessi angeli, quasi una figurazione sensibile dell’Altissimo. Al tempo stesso, egli è primo testimone e maestro – con la forza del suo valore simbolico e delle indicazioni operative che dà e che più di lunghi discorsi dottrinari gli conservano tutti i tratti di romano autentico – di ciò che significhi esattamente la libertà che Dante va cercando. Che non è, semplicisticamente, la liberazione dal peccato, perché questa è solo il mezzo per giungere, incontro dopo incontro nel corso del viaggio, alla conquista di quella condizione dello spirito umano. veramente nobile ed eccelsa, che consiste nella piena e consapevole capacità di operare in perfetta serenità le rinunzie, tutte le rinunzie dalle quotidiane alle estreme, imposte dall’obbligo dell’ossequio ai doveri connessi con le cariche e le ideologie 

responsabilmente accettate. Questa è la vera libertà. e se la lezione, resa più valida dal suo essere più pratica che teorica – vedi il rifiuto delle “lusinghe” avanzate da Virgilio – viene impartita da un uomo politico, contiene un implicito ma chiaro anche se finora poco evidenziato monito a quegli uomini politici che con tanta e tanto colpevole disinvoltura violano la moralità. Anche perché, se è vero che politica e morale appartengono a due categorie ontologiche diverse, tanto che si saluta con plauso in Machiavelli “il fondatore di una nuova scienza, lo scopritore della politica come forma della vita spirituale, distinta dalla moralità, con fini e metodi suoi propri”6, è pure vero che Dante, che tra l’altro non poteva aver letto Machiavelli, parlava, anzi poetava, sotto la spinta di una sofferta esigenza di una profonda moralizzazione della vita politica. Proprio come la soffriamo ai nostri giorni noi, allibiti spettatori di tanti loschi abusi. 

In Catone dunque si celebrano lo spirito di rinunzia e la pratica del dovere. Sono altri elementi della funzione che egli svolge nell’ambito di questo preludio, perché le anime poste “sotto la sua balia” (v. 66) compiono proprio mediante l’esercizio di queste virtù la propedeutica alla beatitudine celeste, che è soprattutto distacco progressivo dalla terra e dalle sue lusinghe e totale adeguamento della propria volontà a quella di Dio, come splendidamente enuncerà Piccarda: “… è formale a esto beato esse / tenersi dentro a la divina voglia, / per ch’una fansi nostre voglie stesse”. (Par. 3, 79-81). In definitiva, la libertà che Dante va cercando è anche la sublime misteriosa consonanza della libera volontà con la Prima Volontà e quel Catone di cui egli ha compiuto, dice il Sapegno7, “l’esaltazione e quasi la deificazione” ne è chiarissimo preannunzio e stimolante modello. 

Assieme alla rinunzia e al dovere si richiama e si celebra in questo preludio un’altra norma di vita da osservare da parte di chi è ammesso a soggiornare nel sacro monte ed essenziale per il conseguimento della redenzione: l’umiltà. L’ingresso in questa condizione di spirito si compie nella forma propria di un vero atto liturgico: la cinzione del giunco attorno alle tempie dell’espiante. È il primo dei numerosi atti religiosi cui assisteremo con Dante nel corso del suo progressivo ascendere verso le coreografie e i canti dei beati del Paradiso e che nel Purgatorio culmineranno nella trionfale processione che si snoda solenne tra i corsi d’acqua, i fiori e le rigogliose piante del Paradiso Terrestre, popolata di figure e di simboli, densa di effetti visivi e di significati profetici. Il tutto, in questo episodio come negli altri, sullo sfondo di un paesaggio perfettamente consono alle esigenze di anime che fanno quasi tutt’uno con esso, luminoso in rapporto con le ore del tempo, dimensione ormai recuperata dopo la notte incessante dell’Inferno per essere poi annullata dall’eternità della luce nel Paradiso. 

 

Il rapporto fra scena ed azione è curato anche in occasione del rito propiziatorio dell’umiltà. Il paesaggio, con la dominante “dolcezza” dei colori dei suoi elementi, mira a infondere serenità e ad essa è improntato. Lo stesso moto delle onde di un mare altre volte crudele – si ricordi che è quello stesso che ha inghiottito Ulisse e i suoi compagni – è ridotto a un poeticisimo tremolare (che non a caso ritornerà in uno dei più pittorici versi di G. D’Annunzio) sfavillante in un incantevole brillio. È anche questo un significativo prodromo di quella pacatezza e medietà di toni che sarà la nota dominante, anzi la caratteristica tonale di tutta la cantica al tempo stesso in cui contrassegnerà la condizione sentimentale delle anime, garantendo loro di compiere in serenità, oltre che in fiducia, la dovuta attesa, più o meno lunga che sia. 

Un vero dono, questa serenità, un magnifico dono di cui noi uomini d’oggi avvertiamo un desiderio struggente e per di più vano perché, dominati come siamo dall’attrattiva dei beni materiali, non riusciamo mai ad aver pace o quiete e la serenità dello spirito resta, ahimé, una realtà solo vagheggiata, quasi addirittura negata. 

Gustiamola almeno nella poesia di Dante. 

Antonino De Rosalia

(l) DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia a cura di U. BOSCO e G. REGGIO, Purgatorio, Firenze (198510) (=19791), p. 15.
(2) cit., da G. REGGIO, comm. cit., p. 15. 
(3) DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia a cura di N. SAPEGNO, Purgatorio, Firenze 19853, p. 10.
(4) op. cit., p. 12. 
(5) ibidem
(6) N. SAPEGNO, Compendio di storia della letteratura italiana, II, Firenze 1959, p. 68. 
(7) op. cit. pp. 7-8.

Da “Spiragli”, anno VI, n.6, 1994, pagg. 19-27.