Dossier Inquisizione in Sicilia
Francesco Giunta, nel luglio del 1991, ha dato alle stampe il frutto di una ricerca (Dossier Inquisizione in Sicilia) condotta nell’Archivio Ducale Medinaceli di Siviglia assieme ad una missione politico-scientifica organizzata dai Ministeri degli Esteri e dei Beni Culturali d’Italia e di Spagna.
Si tratta di un volumetto di entità poco significativa quanto al numero di pagine, ma prezioso per i segreti che ci svela dopo secoli di forzato oblio; segreti che avrebbero fatto tremare gran parte della classe dirigente siciliana, se fossero stati resi pubblici nell’epoca in cui l’Inquisizione di Spagna in Sicilia fu abolita con D.R.del 17/3/1782.
Fino al 1991 si sapeva quasi tutto del S. Officio di Sicilia (l’ordinamento, i modi di condurre i processi e la casistica delle sentenze, i rapporti “ufficiali” con gli altri fori giudiziari, con le autorità civili, amministrative e militari, la giurisdizione e le competenze, le direttive ricevute dall’Inquisitore Generale di Spagna, gli Autos da Fè celebrati); s’è trovato finanche un conto spese (con elenco di vivande consumate) riguardanti un ricco banchetto riservato a tutte le alte autorità della Città, consumato presso l’Arcivescovato di Palermo dopo un auto da l’è con rogo svoltosi in una delle piazze del capoluogo siciliano. In tema di contabilità, a quanto sembra, dominava lo scrupolo. Ma dei cognomi e nomi degli Officiali e dei Familiari (cioè gli affiliati al S. Officio) nulla era rimasto dopo che il 27/3/1782, con una cerimonia solenne presieduta dal Vicerè Caracciolo, furono date alle fiamme nel palazzo dell’abolita Inquisizione tutte le carte più o meno compromettenti. Vero è, altresì, che il Vicerè M. A. Colonna, avversario dell’Inquisitore Bezzerra e coraggioso difensore della legalità, sosteneva in una lettera inviata al Re di Spagna che fra gli affiliati e caporioni della struttura inquisitoriale vi erano “todos los ricos, nobles, y los delinquentes” , e il Di Castro, con più precisione , scriveva: “Ce ne sono cavalieri, conti, baroni, ed artigiani, villani et ogni specie”. Ma nulla di più era emerso fino al 1991.
Il Giunta ha il grande merito di avere rintracciate e rese pubbliche le matricole contenenti i cognomi e i nomi degli officiales e dei familiari operanti in quasi tutte le città e paesi di Sicilia secondo l’organigramma redatto nel 1561 dal magister notarius secreti Juan Perez de Aguillar. Tale organigramma, comunque, conferma quanto riporta il Vicerè M. A. Colonna, cioè il carattere capillare della struttura occulta dell’Inquisizione di Sicilia e tale da controllare tutta la società dell’Isola. Ben a ragione il Giunta alla fine del “Dossier” chiosa: «Come tutti i poteri occulti o paralleli a quelli ufficiali dello Stato il S. Uffizio si configura come taluni del nostro tempo e della nostra società. Mi risulta evidente la strettissima analogia, come organizzazione e come mentalità, soprattutto con il potere mafioso. Problemi di quel tempo e, purtroppo, ancora del nostro». É molto probabile – ma occorrerebbero indagini oculate e accurate per dimostrarlo con certezza – che il substrato socio-storico sul quale, prima e con più virulenza che in altre regioni d’Italia, si è innestata in Sicilia l’organizzazione mafiosa dei nostri tempi sia stato abbondantemente concimato con le scorie più infami e illegalistiche di quasi tre secoli di dominio in Sicilia della obliqua e iniqua struttura inquisitoriale a servizio della più grande superpotenza del mondo che fu la Spagna col suo intercontinentale impero.
Il risultato più negativo di tale dominio fu l’aver abituato la gente di Sicilia, volente o nolente, al soffocamento del senso civico, alla sfiducia nei confronti dei poteri costituiti alla paura delle novità e della circolazione delle idee e del pensiero, alla diffidenza verso il proprio vicino e verso i membri della propria famiglia, al mutismo prezioso più del pane ai fini della sopravvivenza fisica, ad una mentalità insomma passiva e subalterna, allo spegnimento dello spirito critico. Tale mentalità fu, in verità, combattuta da una minoranza di intellettuali (talvolta membri della stessa Inquisizione caduti in disgrazia per aver dissentito da forme estreme di disumanità e crudeltà, come Argisto Giuffredi che fu contrario alla pena di morte e alla tortura), da eretici luteraneggianti o presunti tali, da teologi “troppo intelligenti” o anche da pubblici alti funzionari di Stato: ma essa non poteva elle soccombere dinanzi al vicolo cieco di un dominio spagnolo che sotto il volto legalistico nascondeva quello invisibile del potere inquisitoriale, il quale proteggeva pervicacemente qualunque criminale di alto o basso livello si fosse posto al suo servizio e sotto le sue ali. Sicché a uomini come il poeta (probabilmente il Baronio) dell’ottava seguente, decifrata e conservataci dal Pitrè, altro non rimaneva che affidare la difesa della sua dignità umana alla forza interiore e allo sfogo poetico sul bianco intonaco di una cella del carcere del S. Officio:
Et haju sensu assai e ancora sentu!
Nun sugnu foddi a la dogghia eccessiva!
Et a li guai chi patu ogni mumentu
la mia dogghia murtali ancora è viva!
…chi furtuna ferma a lu miu stentu
pirchì la dogghia sia cchiù sinsitiva:
e benchè sia eternu lu turmentu
nè di sensu nè di anima mi priva.
Oppure rimaneva il piacere di inveire mordacemente contro le spie dell’Inquisizione (i familiari e affiliati vari), come si rileva dall’ottava attribuita dal Garufì all’inquisito, condannato intorno al 1567, avv. Guglielmo Bonscontro. L’ottava citata, oltre ad essere un palpitante documento dell’amara esperienza e della rabbia del poeta, lascia immaginare che chi diventava strumento dei crimini inquisitoriali subiva lo stesso destino dei perseguitati (cioè la morte violenta) quando non serviva più e poteva, se mai, diventare di impaccio e rivelatore di segreti.Tutto ciò rafforza l’ipotesi del Giunta sulla somiglianza (almeno stando a quanto ci riferiscono i giornali) della mentalità del “mondo” inquisitoriale con quella del “mondo” occulto del nostro tempo, nel quale non sembra infrequente la tendenza a eliminare fisicamente i testimoni più pericolosi di certi efferate vicende o di eccellenti delitti. Basti pensare agli inquietanti casi Giuliano, Pisciotta, Sindona, Calvi, ecc., per non parlare delle faccende sporche di altri stati orientali e occidentali.
Un altro aspetto che accomuna o fa somigliare l’Inquisizione di Sicilia ai poteri occulti del nostro tempo è rappresentato dal costante esorbitare dai suoi conclamati compiti di sacro tribunale in difesa della fede cattolica nel clandestino e frequente uso della sua organizzazione sul terreno politico e politico-militare. Questa connotazione politica si accentuò durante i regni di Filippo IV e di Carlo II. In questi anni di critiche emergenze assolse a compiti di primissimo piano contro le insidie dei Francesi in Sicilia e contro la rivolta popolare capeggiata da Giuseppe D’Alessi, della cui uccisione si tramò – dice il La Mantia – nel palazzo del S. Officio, ed è certo che il Baronio fu rinchiuso nel carcere dell’Inquisizione quando fu scelto come segretario dal D’Alessi.
Repressa la rivolta, il S. Officio funzionò come servizio segreto di spionaggio e di informazione sulla condotta dei singoli cittadini, stando a quanto si evince da una lettera di Don Giovanni d’Austria al S. Officio siciliano riportata dal La Mantia. Ma un vero e importante ruolo di supporto politico-militare fu svolto dall’Inquisizione durante la guerra franco-spagnola del 1647. È noto che durante quella guerra la Città di Messina, stanca di vedere la sua industria della seta tartassata da pesanti bulzelli, aprì le porte alla flotta e alle truppe francesi. L’evento suscitò gravissime apprensioni e l’Inquisizione, per scongiurare l’estensione della ribellione a tutta l’Isola, seppe abilmente prendere i provvedimenti adeguati e addirittura si sostituì alle autorità regie, al punto che – ci informa il Pitrè – il boia del S. Officio si sostituì al boia dello Stato nello strozzare nel carcere inquisitoriale, nel 1672, un cappellano della galera siciliana “S. Chiara”, reo di portare addosso alcune lettere del Duca di Bivona provenienti da Messina e alcune monete francesi.
Ma la prova palmare del molo politico-militare assolto segretamente dall’Inquisizione durante l’occupazione francese di Messina è costituita da una lettera inedita contenuta nel Manoscritto Qq.H 62 conservato nella Biblioteca Comunale di Palermo dal titolo: “Quanto ha contribuito alla tranquillità dello Stato il Tribunale del S. Officio”. Si tratta di una lettera riservata inviata dall’Inquisizione di Sicilia a quella Generale di Spagna e al Consiglio Supremo concernente la situazione di Palermo e dell’Isola determinatasi dopo lo sbarco dei francesi a Messina. In essa si fa una dettagliata analisi dei pericoli incombenti e si mettono in guardia le autorità politiche e militari dal prestare troppa fiducia al popolo reclamante la morte dell’Arcivescovo incolpato di non avergli voluto dare l’artiglieria della Maestranza necessaria al rafforzamento dei Bastioni e ardentemente voglioso di armarsi e di saccheggiare le case dei messinesi. Vi è detto che” ningun pueblo puede ser tan generalinente bien timorado que no tenga quien desea novedades y occasion de esercitar la codisia y la mudanza de fortuna” e aggiunge che “el zelo” della plebe “se passa a indiscreto y peligroso”. Non mancano, poi, le osselVazioni di carattere militare e l’informazione sulla organizzazione di un vero e proprio contingente di volontari armati. “Abbiamo formato – prosegue la lettera – una compagnia di familiari che stia pronta nelle occorrenze presenti (…) e consta in gran parte di cavalieri e di gente onorata e valorosa”.
Ho voluto riportare i passi più importanti della lettera per la curiosa analogia con i fatti tristemente collegati ai vari piani occulti dei nostri tempi e con le accennate ombre di nuovi volontari di un potere parallelo che non si chiamano più “familiari” ma “gladiatori”. Si vede che in Italia, all’alba del Duemila, la storia tende a ripetersi.
Gaspare Li Causi
Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 69-72.