Alla confusione spirituale dei nostri giorni, alle vuote parole dei vari pulpiti e ribalte, alla sfrenata retorica di chi si illude di praticare l’arte ed occuparsene seriamente, Giorgio Morandi continua ad apporre ancor oggi il suo riserbo, il suo silenzio e la straordinaria «qualità» della sua pittura che ormai da molti anni è un mito dell’arte mondiale.
Cerchiamo di capire «insieme» – come è nell’intendimento di queste note – il perché di questo mito, il perché della consacrazione nel più alto livello espressivo della storia artistica moderna di umili desolate inutili bottiglie dipinte dall’incomparabile pittore che possiamo definire – con Amedeo Modigliani – il più importante dell’arte italiana nel secolo.
Di Morandi e delle sue opere sono stati scritti saggi e commenti dei più qualificati critici e letterati da riempire intere biblioteche. I grandi musei e le più famose pinacoteche si contendono le sue «nature morte» come pietre preziose di inestimabile valore intrinseco e morale. Eppure, nell’opinione della gente comune, anche se di buon livello culturale e rinomanza professionale, Morandi è conosciuto come «quello delle bottiglie», spesso nel senso dispregiativo. Vuol dire che, anche per lui, le indicazioni ed i riferimenti di innumerevoli scritti in testi e monografie delle firme più illustri della critica italiana e mondiale, non sono riusciti a «persuadere» con sufficiente chiarezza sulla grandezza e sui valori di questo pittore e delle sue famigerate bottiglie.
Ed allora, più che leggere e guardare le riproduzioni nei libri, o visitare le mostre che si organizzano (peraltro non sempre efficaci in qualità e numero di opere, essendo assai difficile metterle insieme), penso che occorra, per capire i grandi pittori, specialmente quelli moderni, riunirsi e creare un’atmosfera di fiducia amichevole verso chi quel mito e quella bellezza espressiva ha capito ed è in grado di raccontare e spiegare il senso e la luce.
Così, in una dolce e azzurra mattina di settembre, decidemmo un bel gruppo di amici vesuviani ed io di andare a cercare la verità e la poesia delle bottiglie di Morandi su per le lave brune del Vesuvio. Avevo promesso la rivelazione del mistero di quelle bottiglie e del balsamo che poteva derivarne nel cogliere, appunto, la poesia delle piccole cose. Una difesa, aggiungevo, contro la minaccia del ridondante e del rumoroso, dello spettacolare e del falso grandioso che ogni giorno sempre più ci opprimono.
Ci fermammo in uno spazio di una tenuta vinicola famosa per il «Lacrima Christi». Poi ci inoltrammo in sentieri di sabbia ricolmi di pigne, fra pinastri e vigne in rigoglio. Nello spazio vuoto di pregiate cornici appoggiate ai fusti, avevo fatto radunare varie forme di bottiglie e recipienti «a perdere », cioè quelli che non servivano più e buttati via per essere poi raccolti nella spazzatura.
Le bottiglie vuote, di ogni forma e dimensione (di vino, con il tipico collo allungato, ma anche di birra, d’aranciata, d’acqua minerale), apparivano dentro le cornici portate apposta lassù come protagoniste. Ad una prima indifferenza da parte degli amici, per quei gruppi c;li inutili recipienti, subentrarono curiosità ed attenzione. Dalle cornici ricolme di bottiglie, si sprigionava una misteriosa indicazione di forme e colori; ogni cornice aveva una composizione diversa una dall’altra e mai vista prima. I quadri di Morandi, appunto: la serena scarna inedita sequenza di bottiglie sporche di fango, senza etichetta o contrassegno… desolate, inutili, e pure, pittoricamente «belle» come spazi nuovi, inesplorate stelle…
Entrammo in una vasta cantina odorosa di mosto, dove erano accostate le bottiglie vuote in un angolo. Feci scegliere agli amici le più polverose ed imbrattate: ed insieme incominciammo a sistemarle, di varia misura e forma, sopra un vecchio tavolo appoggiato ad un muro di tufo. Attorno al gruppo di bottiglie misi una splendida cornice «a guantiera» (tipica dell’artigiano napoletano e fiorentino).
Nella cantina si era fatto buio. L’odore del mosto si alternava al profumo delicato ed arcano delle ginestre tenaci che veniva dalle balze laviche accanto. Accovacciati sulle cassette gialle che avevano contenuto le bottiglie piene di vino. gli amici sono ora silenziosi e seguono attoniti lo strano cerimoniale. Ad un tratto. un proiettore illumina le bottiglie incorniciate. Dal fondo buio della cantina. sale la musica struggente di un tema dei Pink Floyd. Ed allora il sortilegio si compie. puntuale e suadente. Evocato dalla mia voce commossa, il Maestro viene verso di noi, abbagliato lui stesso ed anche un po’ sorpreso dalla «natura morta con bottiglie», che è li davanti reale ed organica. di rara eleganza formale e di colore, proprio come quelle che lui dipingeva.
Il «pittore delle bottiglie» ci racconta incredibili inedite storie di poesia delle «piccole cose» e parla della tecnica difficile e raffinata per dipingerle. Perché, ci spiega, i contenuti, il tema di un’opera d’arte, sono sì importanti, ma determinante è l’atto esecutivo del ricoprire la tela con un metodo proprio ed inimitabile: il gesto della mano, la scelta dei pennelli, la loro pressione nell’applicare il colore. E l’impasto: il combinare le tinte nella dovuta dose e manipolazione. Quale mirabile equilibrio occorre nel ricercare i toni giusti ed armonizzarli! Ce ne parla come fossero note di un pentagramma infinito. Bianco di zinco, nero avorio, le «terre» (di Pozzuoli, di Cassel, di Siena, d’ombra naturale e bruciata) e le «ocre» (chiara, scura, dorata, di Napoli) e i «bleu» (oltremare, di Prussia, indaco, celeste chiaro, cinabro…). Mentre il Maestro parla, noi ci vediamo quei colori, mirabilmente impastati ed applicati nelle forme delle bottiglie che abbiamo davanti, inimitabili ed eleganti, visibili e pur astratte… In esse sembrano raccogliersi i misteri e i sortilegi di tutte le piccole smarrite cose. la squisita finezza di un timbro, la magia del poco nel tutto, il significato stesso della quantità impalpabile che ognuno di noi rappresenta nel divenire della vita…
L’incantesimo si stempera nell’aria vesuviana della sera, odorosa di mare e di carrube. Ritorniamo. Giorgio Morandi ci accompagna con lo struggente ricordo della sua lezione e delle sue bottiglie ritrovate. Abbiamo «insieme» conosciuto un genio ombroso e isolato, che ci ha insegnato – con semplici bottiglie mirabilmente dipinte – l’elegia del tutto nel niente, ed una verità essenziale che può aiutarci a vivere: la concentrazione sui temi più semplici, la consapevolezza che l’esistenza non ha nulla a che vedere con ciò che è appariscente, ridondante e facilmente spettacoloso. I suoi quadri, anche se soltanto riprodotti, dovrebbero ornare le case, gli uffici, e specialmente le aule delle scuole.
In realtà molti ancora non lo conoscono, tanto meno i giovani, ahimé! Ma l’insegnamento che emana dalle sue bottiglie ha in sé il prodigio della rivelazione per chi vuole fruirne e goderne. Anche per questo l’arte di Morandi ha un incomparabile «peso» morale e risulta – coi tempi che corrono – il più semplice e maestoso rappel à l’ordre che si possa immaginare. Francesco Arcangeli, studioso e saggista di primo livello, ebbe a scrivere di lui: «Due occhi che garantiscono silenziosamente, per tutti, la perennità di una confidenza col mondo, da non perdere mai; di un equilibrio fra lo spirito e le cose, che sembra rotto alla radice: due occhi che non rifiutano l’infinito respiro del cosmo anche nelle piccole cose. ma lo concentrano, segretamente, entro la misura di un tono e di una luce su una bottiglia».
Carlo Montarsolo
Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 45-48.
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