Il caso del tacchino
novella di Aluysio Mendoça Sampaio
Di là fuori risuonò forte il bussare a mano aperta. Si udì la voce ferma, stridente: «Ohè di casaaa …»
Quasi imprecando, posò di lato il merletto che stava lavorando e si avviò alla porta.
In piedi, reggendo a braccia un tacchino che faceva glu-glu-glu, un giovane bruno e spalluto, lo sguardo fermo e il gesto sicuro. Si era appena avvicinato alla soglia, che si udì la sua voce: «Donna Zeferina, suo marito mi ha chiesto di venire a prendere la sua macchina da scrivere e portargliela in ufficio per aggiustarla …»
Donna Zeferina non nascose la sorpresa per il messaggio inaspettato. In merito, il marito non le aveva detto nulla, né aveva mai visto il messaggero. Con voce incerta rispose: «Ma lui niente mi aveva detto, niente di niente, andando al lavoro.»
Con un sorriso a mezza bocca, il giovane disse: «Mah, vede come sono le cose? Nemmeno io potevo venire, poiché devo portare questo tacchino a casa del senatore … Ma suo marito mi disse che potevo lasciare qui il tacchino per portargli la macchina e di tornare poi a prenderlo. Così, non potevo negare il favore al signor Torquato …»
Non ebbe più dubbi donna Zeferina. Prese l’uccello e si diresse al cortile per metterlo nel pollaio (le galline fecero in coro co-ro-cocò). Strusciando le ciabatte rientrò dalla cucina, si affrettò allo studiolo del marito, prese la macchina e tornò all’ingresso.
Prima di andarsene, il giovane disse: «Poi vengo a riprendere l’animale. Se non non mi sarà possibile, manderò il mio amico Zé. Lo potrà consegnare a lui.»
Si ritirò donna Zeferina nella sua stanza a sferruzzare col suo merletto. Così indaffarata, si scordò della vita, sinché l’orologio della sala sciolse i dodici rintocchi del mezzodì. E subito dopo avvertì i passi del marito che rincasava.
Il signor Torquato non si era ancora seduto a tavola per il pranzo che lei si affrettò a domandargli: «Tutto a posto per la macchina?»
«Che macchina?»
«Quella da scrivere, che hai mandato a prendere.»
«Ma io non ho mandato a prendere macchina nessuna … »
«Ma se il ragazzo ch’è venuto a prenderla ha perfino lasciato un tacchino, che dovrà poi consegnare a casa del senatore … »
«Tacchino? Macché! Sarà stato un malandro di strada. E vado subito a denunciarlo …»
Si alzò deciso, malgrado la moglie insistesse: «Almeno mangia prima qualcosa
… Nossa Senhora, Madonna mia, com’è che ho potuto dare la macchina?»
Torquato non stava a udire, nella foga.
Non passò mezz’ora e donna Zeferina udì bussare alla porta là fuori. Era un picciotto con un testone mal sostenuto da un collo fino. Pareva confuso e rovesciò le parole.
«Il signor Torquato manda a dire alla signora che il ladro della macchina è stato preso. E manda a dire che pure il tacchino era rubato. Perciò la signora me lo deve dare per portarlo alla polizia, ora stesso.»
Con un sospiro di sollievo, donna Zeferina corse al pollaio (con le galline che
fecero co-ro-cocò) ed ebbe un po’ da fare per prendere il tacchino (che faceva glu-glu). E fu quasi di corsa fino al portone. Consegnò l’uccello al ragazzo magro col suo testone e si applicò al suo ricamo per tutto il pomeriggio.
Era già sera, la bocca della notte, quando il marito rincasò.
La donna si stranizzò vedendolo a mani vuote e si premurò a chiedere: «Dov’è la macchina?»
E lui: «Meno male ch’è rimasto il tacchino … »
«Ma non l’hai mandato a prendere?» esclamò la donna, lasciandosi cadere sulla sedia.
Aluysio Mendonça Sampaio
Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 34-35