Un non attraversa tutta l’inter-rog(o)-azione poetica di Justo Jorge Padron de I Cerchi dell’inferno. È il non del «sono» che non si possiede più come amore, religio, luce, ma come fumo, ombra e buio. Il suo discorrere si scioglie tramite l’impiego di una parola-concetto che si raffigura e si oltre-figura nell’icastica ipotiposi di quasi tutto il bestiario che la tradizione poetica ci ha trasmesso e dello scenario visionario che la logica «architettonica» della poesia è capace di mettere in opera.
È il non della negazione-dissoluzione che emerge prepotente e si fa pres-ente nella potenza del suo negativo con la stessa forza con cui il negativo stesso era stato respinto e ricacciato nel profondo della subcoscienza. Lo richiedeva la costruzione della coscienza, lo spazio di una «identità luminosa», perché l’uomo stesso potesse sfuggire alla vertigine nichilistica dell’abisso del suo non-essere. Qui, infatti, tutto sarebbe stato intollerabile e terrificante equivalenza.
Simboli e allegorie sono gli strumenti espressivi e comunicativi logico-emotivi di un referente – dell’un di un uomo culturalmente determinato – che, nel durante dell’inter-rog(o)azione o azione-durante-l’interrogazione poetica di Padron, ha lasciato l’un della sua natura storico-temporale e problematica-mente in-determinato per farsi reificata astrazione onto-logica, sintetizzarsi e ipostatizzarsi erlebnis universale e metafisica.
Una astrazione così ipostatizzata che riduce l’in-determinatezza événementielle
dell’un alla determinatezza immutabile del metafisico lo (l’uomo), assorbendo la molteplicità degli uomini nella unità di una identità eterna e morta, in un assoluto che è «desolazione», «…totale assenza della vita».
Io «Sono l’uomo!/Io sono tutti gli uomini», dice, infatti, epigrammaticamente, ad apertura della propria opera, il poeta e, successivamente, «…SONO L’UOMO! /Io sono tutti gli uomini», «L’immagine futura della terra/è lo specchio di questo inferno». L’operazione di astrazione è portata avanti con un insistente e rilevante processo di metaforizzazione e di straniamento al fine di focalizzare massivamente la tematica e di con-centrare, catturare l’attenzione del lettore sull’ethos e il logos che lo percorrono in maniera, direi, disambiguata, dove il codice a volte rimane inalterato e i rapporti logici del giudizio sono affidati al connettivo logico del non trasgressivo: «e l’acqua non tornò più ad essere acqua».
Questo è un processo che Padron segue con un impiego piuttosto martellante delle armi della retorica poetica – personificazioni, esclamazioni, inversioni, anafore, diafore, metonimie, la similitudine e l’analogia del come metaforizzante – e con l’uso di una punteggiatura che spesso fa coincidere l’unità semantica del verso con quella metrica del verso chiuso (sebbene non trascuri l’uso del moderno enjambement) in un procedere sintattico dove coesistono legami ipotattici e paratattici.
Non è ignota al nostro poeta neanche la capacità di rivitalizzare, in un contesto consono e abilmente costruito, la vecchia metafora del re Mida (che trasformava in oro, per punizione, tutto quello che toccava): «Come Mida del fumo, tutto sto tramutando/in tenebre. Non esistono né il mare né le pianure,/né uccelli, né risa e neppure lacrime. /… /… Ormai sono un fumo nero/come la storia che si dimentica, un fumo nero/come le palpebre serrate delle pietre». Poco spazio, a volte, sembra venga lasciato a quelle che oggi vorrebbero e potrebbero essere le esigenze di una semantica estetica dell’opera aperta alla U. Eco o di una estetica della «ricezione» alla Jauss, se la poesia di Padron non avesse quella aseità polisemica che è caratteristica peculiare della poesia moderna.
La cattura dell’attenzione, per una sicura comunicazione informativa dell’ethos, appare dominante, e tutto il lavoro della systasis poetica, con la sua pittogrammatica inquietudine boschiana, appare volto a sottolineare senza equivoci il mutato rapporto percettivo dell’autore con l’uomo e il mondo. Questo nuovo rapporto percettivo però non si esaurisce solamente in una dilatata sensibilità estetica, perché, contemporaneamente, viene coinvolto il mutamento dei comportamenti e dell’apparato ideologico nel senso più lato.
Non si possono non notare infatti gli effetti di radicalizzazione logico-estetica-
ideologica di certi giudizi copulativi e congiuntivi che (oltre il bit informativo della binaria logica classica) fanno risaltare il «climax» dei sostantivi, dell’aggettivazione e delle forme verbali, con evidente intenzionalità di nuove referenzialità informativo-culturali proprie della logica intensionale, che è anche in-tensionalità poetica e tensione del poeta stesso. Una tensione che consente al poeta di innescare, nel contesto di tutta l’opera e all’interno di ciascun testo, un simultaneo processo di vitale ambiguità semantica (per gli assurdi e le polisemie che lo pongono nell’essere della scrittura) insieme a quell’altro del disambiguamento di cui si parlava prima, sì che ne risulta una vivace dialettica che dinamizza tutto il discorrere poetico dell’opera.
Per connotare la sensibilità e la tematica di Padron sono stati esclusi Dante e Sartre e sono stati chiamati in causa Goya e Bosch: forse è il «nada nada» del «fantasma» di Goya che traduce meglio il terrore e lo stupore del vuoto e del nulla che Padron scopre «vivo» nell’immanenza dell’essenza antropologica dell’atomo-individuo che non la voracità sartriana dell’altro o l’inferno della teologia cristiana di Dante. Forse il diabolico immaginario e surreale barocco di un Bosch meglio si presta per visualizzare le luci-fere smagliature di una écriture poetica che dia-bolizza il tessuto di una presunta epoca d’oro dispiegata della luce e della ragione, quale avrebbe voluto essere quella moderna della scienza o quella trasparente del «villaggio» totale di McLuhan, se non ci fosse l’ipoteca del «1984» di Orwell.
La scrittura poetica di Padron, infatti, sottolineando lo spessore della disgregazione e del vuoto che occupano gli interstizi dello spazio-tempo conquistato dall’uomo, ce ne rende in gigantografie l’oscuro e le incertezze violenti – «il mondo è il terrore, e l’incertezza» – con scene sempre più spettacolari. I rumori di fondo e di primo piano non debbono attutire la vigilanza della coscienza e nascondere quel non del «sono» che è contemporaneamente una domanda di vita e di morte, di costruzione e di distruzione, di luce e scuro da quell’essere-possibilità materiale e infinitamente aperto che è «fondamento» dell’esser-ci.
Ora questa tragica strutturale consapevolezza non costituisce, a parer nostro, solo il pre-testo dell’inter-rog(o)-azione poetica o dell’azione-durante- l’interrogazione di Padron, essa è anche il luogo della resistenza che, secondo noi, per analogia, rapporta in termini nuovi il poeta spagnolo alla generazione d’oro del ’27. Artur Lundkvist, infatti, nel prologo, dice che Padron «ha coronato le ambizioni della giovane generazione dei poeti spagnoli, un prolungamento modificato dell’epoca d’oro lirica della generazione anteriore alla guerra civile». La resistenza di questo «Mida del fumo» è quella della lotta all’«appestato» o a quel «nemico» che è l’uomo stesso come nemico di se stesso. Una lotta contro quella forza distruttiva che Padron, servendosi della poesia e del suo lirico «impegno», porta avanti con decisione, come ieri hanno fatto i poeti del ’27 nei confronti delle dissoluzioni portate avanti dalle forze del fascismo franchista ed europeo e contro la peculiare disgregazione del soggetto e dell’oggetto, della/e verità della nuova epoca di massa, un’epoca che demonizza il novum e sacralizza la ripetizione.
Per quanto oggi sembra andare avanti la dimensione «favolistica» e deresponsabilizzata della fictio e dell’artificio di un universo fatto a immagine e somiglianza dell’immagine permanentemente metamorfosizzata, dove è diventato sempre più difficile, per non dire impossibile, individuare cause e responsabilità, Padron tuttavia riesce a farlo: vede «faccia a faccia» il nemico, lo prende e lo condanna nel suo stesso «inferno».
Non diversamente dai poeti del ’27, l’«impegno» di Padron, per esercizio poetico, si connota e snoda poeticamente e, secondo noi, liricamente raggiunge punte di elevata resa in due componimenti (che riteniamo fra i più belli della raccolta): «Il sogno del ritorno all’infanzia» e «La donna della terra», del quale riportiamo qualche frammento:
Il suo corpo era il profumo
che inebriava l’ombra e la notte.
Il suo collo era di marmo tiepido e ondoso fuoco,
un arco nel silenzio totale della bellezza.
Ma tropicali erano i suoi seni
Due frutti che incendiavano il mattino
con l’aroma della loro polpa aperta
sparpagliata al sole.
Con il lamento e il vento del lauro
la cintola rotante.
Bucchero del fiore.
Il riposo arancio. Mezzogiorno.
Antonino Contiliano
*Questo saggio di A. Contiliano, che pubblichiamo in anteprima, costituirà l’introduzione di Los Cìrculos del Infierno di J.J. Padron, tradotto in italiano da F. Chinaglia, e sarà pubblicato a cura della Libera Università di Trapani.
Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 23-26.
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