La cena
Racconto di Caio Porfirio Carneiro
Guardò dalla finestra. II vento e il paesaggio. E la banderuola segnavento. Un frantume di vetro si specchiava al sole, laggiù.
Si sedette, sospirò, diede un’ occhiata ai piedi doloranti negli stivaletti impolverati. Per il gran camminare. Gli alberi fronzuti nel cortile sempre gli stessi. Il corridoio si apriva verso l’interno. Dalla sala da pranzo spuntava lo spigolo d’un tavolo.
Avanzò un poco. Le pareti coperte di ritratti. Sedie imbottite. Si voltò a guardare fuori. Il vento era calato. Camminò lentamente lungo il corridoio, il suono dei passi a ritmare la sua presenza.
Ora di cena.
Allora il tavolo largo e lucido apparve in primo piano.
Lui esaminò i mobili, la cristalliera che aveva tenuto in vetrina servizi pregiati.
Non fu sorpreso di vederla seduta a capotavola, in ombra. Le si sedette di fronte, il piano del tavolo a separarli. Allungò lo sguardo al pavimento del corridoio, e alla chioma degli alberi in cortile.
«E siamo qui… Tutto come prima.»
Lei sorrise. II sorriso di sempre. Lo stesso abito un po’ scolorito.
«Niente è cambiato.»
Lei disfece il sorriso. Si allungò sulla sedia. Incrociò le mani, le dita senza anelli erano più sottili, cresciute le unghie. Lo sguardo un po’ spento.
«Sì, niente o poco è cambiato.
Un filo d’aria per il corridoio e faceva battere a tratti un’anta della porta. La vernice del tavolo, in un punto scrostata, mostrava screpolature nel legno. A un angolo della stanza pendeva come un velo una tela di ragno.
«Cose del tempo.»
Lei tornò a sorridere. Piccole rughe a rigarle il viso.
«Ma quanti anni … »
Si alzò e si diresse al cortile. Non andò oltre la cucina: al,te pareti spoglie e fenditure in lungo, focolare spento. II muro di cinta caduto, alberi spogli attorno e appesa qualche foglia. Pezzi di legno e una tenda disfatta nel vivaio. Niente cinguettii d’ uccelli.
Tornò indietro e si rimise a sedere, dolenti le giunture.
«Qualche cosa è cambiata, però … »
Nella vernice del tavolo, buchi precisi scavati dal tarlo. E muri senza intonaco, tegole sconnesse, parte del tetto scoperchiata.
Lei, di fronte, un’ombra mummificata, veste a strisce di bave e sfilature.
Fuori dalla stanza, calcinacci nel corridoio intralciavano il passaggio. Quel che restava della porta cigolava e andava a sbattere a ogni soffio di vento. Fuori, erbacce cresciute. E lucertole slittavano nel mezzo.
Si mosse per andare a dare uno sguardo. Pochi passi e si fermò tra il fogliame secco e ramaglie sparse …
Una trave pendeva là in alto, sembrava scuotersi a tratti. E c’era una sedia impagliata là in basso, con la spalliera al muro, dove una lucertola saliva e scendeva.
«Sì, cambiata.»
Pestò un frammento di vetro: conservava lo stesso identico riflesso di quando era nella cristalliera.
Si chinò per raccoglierlo. Fu un inchino, come in una riverenza.
«Però … »
Mosse i passi tra i mucchi di calcinacci, con la mano appoggiandosi ai resti del muro. Cercò con lo sguardo la banderuola a vento. Poi si guardò la punta delle scarpe impolverate dal lungo andare. E un uccellino si posò lassù, in cima alla trave pendente, roteò gli occhietti ai quattro punti cardinali.
Spiccò il volo. Scomparve.
Versione italiana di Salvator d ‘Anna da «Literatura Brasileira» n. 31 , 2003, e n. 6, 1997.
Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 40-41.