La Sicilia nella letteratura d’oggi: Biagio Scrimizzi
Quando un autore ha offerto al pubblico un numero anche non grande di opere attestanti personalità ed esse hanno meritato interesse e attenzione, allora è certo legittimo. ed anzi doveroso. tracciare un consuntivo che, sulla base degli elementi costitutivi dell’ispirazione e dell’espressione, aiuti a conoscere meglio, anche a fini valutativi. quella personalità.
Davanti ad uno di questi casi ci troviamo ora che abbiamo letto gli scritti in versi e in prosa, in lingua e in dialetto, pubblicati uno all’anno negli ultimi quattro anni da Biagio Scrimizzi, siciliano di Naso ma palermitano di adozione, già noto per esser stato, per lungo tempo, redattore di alcune riuscite e seguite rubriche culturali della RAI di Palermo.
Sono scritti che, sia per la materia sia per la forma, hanno più di un nesso con quei servizi radiofonici. Infatti, come questi svolgevano tematiche relative alla vita e alla cultura del popolo siciliano e al suo ambiente naturale e storico, assicurando a luoghi, usanze, feste, personaggi e istituzioni della nostra terra una divulgazione tanto seria, e quindi utile, perché documentata anche attraverso ricerche sul campo, quanto garbata nella conduzione e gradevole all’ascolto anche per il bel timbro della voce, così anche ora S. si ispira alla cultura (in senso lato) isolana. Più precisamente, nei primi due di questi agili volumetti – Giufà per il verso giusto (1990) e Filastrocche da fiabe e leggende siciliane (1991) – egli ha dedicato attenzione ad un particolare settore di quella vasta tematica, il settore che di solito si definisce folklorico. Lo ha fatto non da filologo o, più in generale, da studioso ma da lettore vivamente interessato e partecipe che quella materia trasforma in occasioni per integrazioni, interpretazioni, ri-creazioni, argute considerazioni sulla attualità perenne di certi aspetti del costume umano. Così, nelle ingenue, ma non tanto, battute di Giufà si viene a scoprire tanta e tanto valida umanità, mentre i miti del popolo siciliano si rimpolpano di una più sapida concretezza e acquistano sostanza più ricca e complessa, una risonanza nuova, che a primo acchito li rende quasi divertenti e poi li fa buoni a fornire spunti ed esperienze alla condizione spesso così distratta e poco riflessiva degli uomini del nostro tempo. Naturalmente, senza l’illusione di proclamare alcun ‘verbo’ ma, semmai, con la convinzione di chi sa che la spontaneità degli ingenui è, a saperla intendere, carica di vantaggi insospettati, uguali a quelli della presunta irrealtà di fiabe e leggende.
Alla rivisitazione, con conseguente riplasmazione, di Giufà, di fiabe e leggende nostrane, S. fa seguire, nella quarta e, per ora, ultima delle sue opere – Palermo felix ovvero I sogni di Lindo – l’ideazione di un personaggio nuovo. Ha il nome “chiaramente significativo e rappresenta la parte migliore di ciascuno di noi: è onesto, scrupoloso, ligio a tutte le norme della civile convivenza, ingenuamente fiducioso nel senso di responsabilità e nella sostanza d’impegno degli altri” (G. Monaco nella Premessa).
Innamorato della sua città, ne offre pateticamente il degrado. L’unico sollievo lo trova nel credere realtà i suoi sogni, sicché solo in questa dimensione Palermo gli appare con le vie ben pulite e liberate dal caos del traffico e con uffici, negozi e mezzi di trasporto efficienti e affidabili. Dai sogni, però, lo risveglia una voce (dell’autore?) e Lindo perde tutte le speranze. Egli, allora, è metafora dei palermitani delusi dalla insipienza a non dire d’altro – dei loro “reggitori” ma anche da una propria dose di scarsezza di senso civico. Ed è metafora per un verso gradevole, perché spesso condita da ironia sorridente, esercitata in modo che ricorda l’oraziano castigare ridendo mores, ma alla fine, purtroppo, amara, perché Lindo, dopo una lunga serie di sconfitte della sua disponibilità alla fiducia, vola via da Palermo, verso Paesi d’Oltreoceano creduti più vivibili che, però, poi si rivelano anch’essi tanto disumani. Sicché a Lindo non resta che compiere un’altra fuga, questa volta verso le “incontaminate” montagne del Tibet, dove continuerà a sognare, poeticamente, la “felice” Palermo d’una volta.
Parrebbe doversi concludere che l’unico rimedio al pessimismo sia la fuga dalla realtà. E sarà anche una conclusione non peregrina, ma nella sostanza significa un fallimento totale della speranza, un’abiura, una resa, e quindi non ci trova consenzienti. È più produttivo continuare a sperare contando sulle risorse che certo non mancano e su un loro responsabile impiego.
Ed è certo questo che, in definitiva, S. è venuto a dirci col metterei innanzi quell’evasione senza frutto, almeno sul piano pratico. Per suo merito, lo ha fatto senza assumere né i toni arcigni e severi del moralista né quelli, minacciosi, dei profeti di sciagure. Piuttosto, ha impiegato, gustosamente anche per lui, quella sua capacità di sorridere e di far sorridere – che già di per sé è, come più d’uno ha detto, non piccolo merito – e ne ha fatto la qualità peculiare, propiziatrice di simpatie, di una prosa chiara e fluida in tutte le sue strutture, di uno stile che mentre diverte fa pensare. anche perché sotto quella esteriore levità c’è buona gravitas, cioè “peso” di impegno umano e di corredo culturale.
Le doti di chiarezza e di fluidità della prosa, unite a un più sobrio gusto dell’umorismo. emergono anche in un altro scritto di S., che per altro con più diritto le richiede. essendo d’impianto narrativo. È la terza delle sue opere e qui la si pospone alla quarta per non interrompere la trama che intimamente lega le altre tre. Parve infatti libro “connotato dai segni di una svolta dello scrittore verso nuovi temi e modi di ispirazione e rappresentazione” già al suo prefatore (A.M. D’Asdia). Ha per titolo L’accelerato delle sei (1992) e nasce dall’idea che “i ricordi, essendo memoria della vita, sono pure significato della vita”. È così. una sorta di autobiografia articolata in racconti di esperienze vissute, in vivaci caratterizzazioni di tipi umani compresi, i più, nelle loro debolezze, in coloriti versi cui il dialetto dona un alto grado di espressività, e tenuta insieme dal tenace filo di una umanità aperta, sensibile, cordiale, che prova una dolce emozione nell’evocare e fissare per sempre i momenti più cari della propria esistenza e arriva pure a comunicarla, specie a chi sente pure lui, anche se non la esterna, tenerezza per il suo passato.
Antonino De Rosalia
Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 38-40.