L’espressione e l’abitante
La riscrittura della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ad opera di Stefano Rodotà [L’Espresso, 1989, n. 4, supplemento “I diritti del Duemila”], si colloca nel massimo interesse fra le innumerevoli iniziative che celebrano il bicentenario.
Duecento anni d’involuzione politica – e di regresso dentro la tecnologia – sono troppi, per non lasciare profonde rughe nel sorriso della Rivoluzione Francese.
Bonapartismo, rinfocolamenti monarchici, disuguaglianze borghesi, fascismo, superomismo più o meno tragico (e più o meno consapevole), devianze dagli scopi della dichiarazione d’indipendenza americana ponendo una dottrina di tipo imperialistico, travisamenti della Rivoluzione d’Ottobre alla ricerca di quanti possano diventare “più uguali” degli altri, sembrerebbero avere svanito i sogni di Marianne in ogni direzione.
Tuttavia, per fare un solo esempio, la carta costituzionale della Repubblica italiana direttamente ha linfa dalla Dichiarazione del 1789: a volte, usando parole di senso uguale a quello francese.
Si capisce. Anche i decenni trascorsi dalla Costituzione italiana sono troppi; dunque sorgono esigenze nuove, da più acute riflessioni, mentre alcune regole sembrano decadere.
Rodotà avvisa, ragionevolmente, che il “depotenziamento dei diritti” può anche essere determinato dalla proliferazione; sicché appare consigliabile incentivare concreti istituti di libertà, piuttosto che darsi alla proclamazione di altri diritti.
Forse, il concetto può essere precisato in questo modo: nessuna dichiarazione di libertà assume reale valore se non viene messa in pratica; invece che estendere l’area dei diritti, a ciascuno dei quali peraltro corrisponde un dovere, bisogna approfondire la nozione dei diritti già dichiarati.
Questo andare alle radici è, comunque, un buon metodo. Assai spesso, le devianze insorgono perché si è smarrito il senso delle origini.
E quello che vale per la Dichiarazione [1789] ugualmente ha valore riguardo alla carta costituzionale, poiché essa si forma come una sorta di regolamento dei principi primari.
Innanzitutto, guardiamo le nuove proposte di Rodotà: diritto “ad un patrimonio genetico non manipolato”; divieto di “ogni raccolta di informazioni che possa essere usata a fini” discriminanti: conoscenza delle “fonti di finanziamento di tutti i mezzi d’informazione”; lavoro “minimo garantito”: diritto “al riposo e alla sicurezza sociale”; partecipazione di tutti “alle decisioni che riguardano la pace e la guerra, la sopravvivenza di specie, ambienti e culture, la conservazione dei beni che costituiscono il patrimonio comune dell’umanità”. Ancora: possibilità che tutti agiscano “per l’attuazione del diritto all’ambiente e il pieno godimento dei beni collettivi”; diritto “di asilo nel caso di persecuzione”; diritto di tutti ad agire in giudizio per la tutela “degli interessi di rilevanza collettiva”: obbligo di pronunzia giudiziaria “in tempi ragionevoli”, e di motivazione degli atti che limitano la libertà personale: assenza di presunzioni, circa la responsabilità penale e la cosiddetta pericolosità: diritto di ognuno a “controllare l’uso delle risorse pubbliche”: pubblicità delle posizioni contributive; obbligo della “solidarietà politica, economica e sociale”: non sono ammesse “la pena di morte e la pena dell’ergastolo”.
A chiusura, e in limpido ricalco della Dichiarazione 1789, “Tutti hanno diritto di cercare la felicità”. In buona sostanza, la riscrittura dà conto del vivo dibattito svolto negli ultimi anni. Ma l’attenzione si appunta sull’art. 11.
Garantire “ogni forma di espressione artistica” sembra limitativo. Facciamo esempio dal caso dei Versetti satanici (o Versi satanici, come qualcuno traduce), sperabilmente ormai decaduto: pure se il Comitato internazionale per la difesa di Salman Rushdie, c/o Box 19 London SEI ILX, sembra tuttora – in modo anglosassone – battere cassa.
Gli integralisti islamici hanno decretato che quel libro non appartiene a nessuno genere d’arte; hanno pure stabilito ch’è soltanto un testo blasfemo, sicché l’autore va senz’altro ucciso. Sicuramente ognuno (compresi gli integralisti di ciascuna religione) è legittimato ad avere, e trasmettere, opinioni sui lavori d’arte: questo campo – e così le considerazioni di carattere storico, o filosofico – non è una riserva di caccia, giacché non vi è motivo per precluderlo.
A parte la faccenda occorsa a Flaubert con Madame Bovary (e a tanti altri, in momenti cruciali nello sviluppo della narrativa), mettiamo i Versetti vengano giudicati da un tribunale che non sentenzia uccisioni; ma che si permette decidere se quel libro appartenga all’arte; e, non ritenendolo di genere artistico, emetta condanna dell’autore sia pure al pagamento di un penny. Rushdie, ogni altro, rimarrebbe in balìa del giudizio incompetente – e inconferente – ma per legge valido.
Se ognuno è legittimato ad avere proprie opinioni sull’arte, non si può consentire che possano averne i giudici quando scrivono sentenze: le opinioni trasfuse in un atto esecutivo prevalgono – senza alcuna ragione – sul pensiero di altri, magari più esperti e di migliore finezza nel valutare le cose artistiche. Ed è già inammissibile che prevalgano sull’opinione dell’autore; comunque non si può ammettere che vengano sancite in sentenza, pure se l’autore non abbia opinione alcuna del proprio lavoro.
Bisogna, dunque, dire ch’è garantita – semplicemente – ogni forma di espressione: nessuno potrà mai negare che un’espressione esista, qualunque possa esserne il senso.
In qualche parte bisognerebbe, poi, inserire il diritto dell’abitante: cioè il divieto di discriminazione in riferimento alla nazionalità; di modo che chiunque si trovi ad abitare in altro Stato possa usare le leggi che regolano la vita dei cittadini, anche se non ha la cittadinanza di quello Stato: in quanto persona (essere umano).
Antonino Cremona
Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 11-13.