L’ultima raccolta di poesie di Nino Contiliano
Prendendo lo spunto dall’utopia di Hélllilah Arendt, così come riportato nel titolo del libro, questa nuova raccolta di Antonino Contiliano ci dà per certo la sua abilità di poeta dal non comune, del difficile, potremmo dire. Del difficile, insistiamo, perché questo è un libro per addetti ai lavori e non per coloro che tornano a ripetersi “l’albero a cui tendevi la pargoletta mano” del buon -leone Carducci. E anche se l’oculata presentazione del critico Domenico Cara può aiutare ad introdurre alla lettura, sono tante le sinestesie, le allitterazioni (vanire vivere venire- assenza assente), le diserzioni verso un linguaggio scientifico, materico, matematico, verso le citazioni in lingue vive e morte, che bisogna impegnarsi, e di buzzo buono, per enucleare da questa preziosa raccolta di versi il succo di una sensibilità spinta talmente al parossismo da sembrare spesso farneticamente, demenziale.
Il transfert dall’utopia della Arendt avviene, diciamo, per una corrispondenza d’amorosi sensi. Contiliano è un “idealista”, un uomo spinto per sua natura verso una utopia sociale nella quale purtroppo non si ritrova per le contingenze della vita odierna.
Un poeta, e un poeta come Contiliano non è influenzabile da sollecitazioni esterne, ma in esso scopre il tutto di sé, quel che gli preme dentro e che quasi lo soffoca se vi pone mente. E allo stupore delle scoperte si accompagna tutta una serie di excursus negli avvenimenti apparentemente esterni ma che hanno lasciato e lasciano tracce profonde, coaguli di dolore nella sensibile psiche.
Ora, anche se nei precedenti libri di poesia di Contiliano c’erano già i prodromi di questo exploit poetico-narrativo, diario dei giorni nostri, oggi ci troviamo fra le mani una vera scatola a sorpresa dalla quale saltano fuori tutti i marchingegni di cui dispone il formato vocabolario del nostro amico, il quale vive, sì, nel suo tempo, ma anche al di là di questo tempo, in un cosmo tutto suo e tutto involuto nel quale dolorosamente si muove come il feto nel suo liquido amniotico, ansiosamente aspettando la sua proiezione alla luce, verso quella utopia che è poi l’utopia di tanti altri come lui che vivono e soffrono nello stesso tempo.
L’aggancio alla Arendt ci sembra come una specie di ancora lanciata alla ricerca di un appiglio, un grido che attende la sua eco, una speranza per scansare i buchi neri: quelli dell’anima, s’intende.
E così Contiliano sembra annaspare sempre fra quelle sabbie mobili che sono le catene dalle quali vorrebbe districare se stesso e il mondo circostante nel quale sono rimasti pure invischiati i ragazzi di Tian An Men, e quegli altri “stormi di rossi ragazzi” e quegli altri ancora figli del Sud del Nord dell’Ovest dell’Est “e tutti i morti della violenza geostorica” per i quali “la guerra non è più la guerra mercante / inutile feroce indicibile l’es / ma tempo-noviola di possibili pentagrammi / gioco di arazzi mondi fiamminghi sparati”.
Un delirio nel quale le sabbie mobili vorrebbero avere ragione della sofferenza del Poeta, mentre la vita “castra anche le ali di Pegaso”.
Un delirio che è rabbia per l’incenerimento delle speranze, per la terribile constatazione che la vita-sogno di Calderon è fuggita dall’esistenza degli uomini di oggi, si è fatta fantasma veramente inseguito con affanno “nel cuore che naviglia astrografie d’insonnia” mentre “senza riposo cerchiamo un traguardo atteso”.
E, allora, non è un voler morire, un voler rinunciare a quel filo di speranza che sonnecchia al fondo di ogni creatura umana. Contiliano, con questa sofferta raccolta di versi che ha coinvolti nel magma del dolore, ma non per ciò tende a precluderei un desiderio di resurrezione.
Irene Marusso
Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 77-78.
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