di Helmut G. Koenigsberger
Re Riccardo: « … i leoni domano i leopardi.»
T. MOWBRAY DUCA DI NORFOLK: «Sì , ma non possono
cambiare le loro macchie.»
(Riccardo II, l, 1,5-6.)
Machiavelli fu bandito dal Parnaso «perché fu sorpreso di notte con un gregge di pecore a cui insegnava ad usare falsi denti di cani … così che in futuro esse non potessero essere rido Ile all’obbedienza col fischio e con la frusta».
(Traiano Boccalini. Ragguagli di Parnaso, LXXXIX)
PROLOGO
Lo Stato. che nasce per rendere possibile la vita, in realtà esiste per rendere possibile una vita felice. (Aristotele. Politica, libro l, cap. 2)
ELEUTHERlA – L’epigramma di Aristotele costituisce la più rivoluzionaria definizione di Stato nella storia del pensiero politico, La maggior parte degli Stati e, ancora di più, la maggior parte degli imperi sono stati fondati e governati per il bene dei governanti o per il bene della tribù. Sia la tribù che i governanti hanno sempre cercato di giustificare la loro azione di governo come volontà degli dei o di Dio. Si riteneva, naturalmente, che la volontà degli dei fosse per il bene dei sudditi. Tutto ciò era, nel migliore dei casi, un ripensamento o, più spesso, semplice propaganda.
Non che il pensiero di Aristotele fosse originale. Perché almeno 250 anni prima del suo scritto la vita felice era già equiparata all’eleutheria, la libertà, definita sia come libertà del governo da regimi esterni che come libertà dei cittadini dalla tirannia, dal dominio senza leggi di un singolo governante o, a volte, di gruppi di governanti. Ciò che i Greci inventarono nel loro ordinamento politico, fu la cittadinanza, la polis o città-stato, vale a dire la partecipazione dei cittadini alla vita civica nel promulgare o far rispettare la legge, nell’approvare tasse e spese, nel prendere decisioni sulle relazioni con le città vicine e, se necessario, nel prestare servizio nell’esercito. Tutto questo avveniva tramite il dialogo, l’attività reciproca di parlare e ascoltare e le conclusioni razionali che scaturivano da tale attività. Era una relazione dinamica, aperta, incerta nelle sue conclusioni e che sempre correva il rischio di essere sopraffatta dal suo opposto: governo e servitù, comando e obbedienza, certezza e accettazione.
Per i Greci solo la vita di questa cittadinanza partecipativa costituiva una vera libertà politica. In pratica, essi trovavano questa libertà – che Machiavelli nel XVI sec. avrebbe chiamato un vivere politico – difficile da raggiungere e quando ci riuscivano era solo all’interno del circolo ristretto della polis e dei suoi cittadini a pieno titolo. Donne, stranieri e schiavi erano esclusi, sebbene le donne fossero considerate libere se sposate con un cittadino. Aristotele era interessato solo alla polis. Quando mandava i suoi studenti a studiare le costituzioni fuori di Atene – uno dei maggiori programmi di ricerca mai intrapreso nel campo delle scienze politiche – li mandava solo in altre città-stato del Mediterraneo.
La cosa rivoluzionaria era la sua definizione del principio dello scopo di uno Stato: la vita felice.
Sin dalla riscoperta della Politica da parte della Cristianità latina, nel XII sec., essa ha avuto una profonda influenza sulla pratica e sul pensiero politico in
Europa e, recentemente, in quelle civiltà al di fuori dell’Europa influenzata dal pensiero europeo, anche nei casi in cui tale influenza non è stata apertamente riconosciuta. A volte questo principio è stato deliberatamente ignorato, anche nella nostra epoca e, di solito, con conseguenze disastrose per gli abitanti dello Stato stesso e di quelli vicini.
Nel Medioevo il principio di Aristotele cadde su un terreno fertile. I princìpi dell’eleutheria non erano mai andati del tutto perduti nell’Impero Romano. Negli Stati che nacquero dalle sue ceneri, questi princìpi furono rafforzati dalla pratica dei re germanici di convocare i propri liberi guerrieri in assemblee generali, per discutere le politiche perseguite dai re e per il consiglio (consilium) e l’aiuto (auxilium) che i vassalli potevano fornire.
RAPPRESENTANZA – Tutto ciò andava bene per unità politiche relativamente piccole e questa pratica sopravvisse in alcune parti marginali d’Europa. In molte vallate alpine e in alcune aree costiere meno accessibili della Frigia, della Norvegia o dell’Islanda. Il problema era inventare una forma di relazione partecipatoria nelle unità politiche più grandi. La soluzione al problema era sfuggita agli abitanti della Grecia classica o, meglio, essi non l’avevano considerato un problema. Concentrando la loro discussione politica sulla polis, avevano considerato i grandi Stati, come l’Impero persiano o la Macedonia, in ogni caso privi del principio dell’ eleutheria.
Nell’Europa medievale i principi della relazione feudale tra signore e vassallo non erano di per sé una base per l’eleutheria. La principale virtù medievale, l’ideale verso cui tutti i giovani uomini venivano educati, era tipicamente la lealtà. Non era un ideale da mettere in discussione. Il signore, o il re, era solito rivolgersi ai suoi vassalli per consigli e aiuto; ma per le discussioni e i dibattiti si circondava solo di pochi individui scelti con cura. C’era bisogno di qualcos’altro che potesse associare sezioni molto più ampie della società alla politica del re. Da questo bisogno nacque il principio della rappresentanza.
Essa era in origine una pratica apolitica derivata dal diritto romano, in cui un avvocato rappresentava il suo cliente o clienti nelle cause civili. Non sorprende che tale pratica si trovi per la prima volta tra gli uomini di Chiesa, cioè, tra quella parte di società che conosceva il latino. I grandi ordini religiosi internazionali trovavano utile la rappresentanza per incrementare la reciproca coesione tra le varie case religiose. Così. nel XIII sec., i Domenicani svilupparono un sistema complesso formato da una gerarchia di consigli elettivi che rappresentavano le singole case, le assemblee provinciali e, infine, l’intero ordine.
Anche prima che i Domenicani sviluppassero pienamente il loro sistema di rappresentanza, i papi del XII sec. convocavano i prelati dagli Stati papali per consultarli. Nel 1213 Innocenza III fece un ulteriore passo in avanti. Nel convocare il IV Concilio Laterano, egli invitò non solo il clero cristiano, rappresentato dai prelati. i vescovi e gli abati dei grandi monasteri, ma anche gli ambasciatori dei re e di alcune città-stato italiane.
In modo ancora più incerto, i governanti cominciarono anch’essi a convocare i grandi vassalli in persona e talvolta i rappresentanti del clero e delle città. Se non l’avessero fatto, le conseguenze avrebbero potuto essere imprevedibili e nefaste. Nel 1158 l’imperatore Federico I Barbarossa convocò una grande assemblea feudale, una dieta, a Roncaglia, in Italia, per ottenere tasse su un certo tipo di commercio, sulla zecca e sui diritti delle miniere. Esse erano considerate tradizionalmente prerogative del re o dell’imperatore, le regalie. I notabili di
Federico, per la maggior parte tedeschi, non ebbero difficoltà nell’imporre queste tasse alle città italiane dell’Imperatore. Ma queste città non erano state consultate. Esse formarono leghe contro l’Imperatore e lo contrastarono con successo, finché non ottennero virtualmente l’indipendenza dal suo dominio.
Con maggior successo, alcuni principi riunirono delle assemblee in cui i prelati, i nobili e le città erano tutti rappresentati. Tale fu la prima Corte Spagnola del re di Leòn nel 1188. Questi incontri erano ancora sporadici e non istituzionalizzati. Furono i teologi, specialmente gli avvocati di diritto canonico, dal XII al XIV sec., a sviluppare teorie sistematiche sulla rappresentanza, collegandole all’ assunto aristotelico che lo Stato esiste per il bene dei suoi cittadini (sebbene i notabili e i prelati non avrebbero certo approvato questa affermazione) e furono essi ad impegnarsi in un dialogo moderno sul modello greco con i loro principi e tra loro stessi.
C’erano buone ragioni perché il pensiero politico ecclesiastico del tardo Medioevo insistesse su quest’ argomento. Per cominciare, c’erano le parole di Gesù, secondo cui bisognava dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Ma questo precetto da solo non bastava a spiegare lo sviluppo di elaborate teorie politiche. Niente del genere avvenne nella teologia bizantina né nella sua erede, la Chiesa russa ortodossa. Nell’Impero bizantino e in Russia (e a fortiori negli Stati islamici successi vi all’Impero Romano) qualsiasi reale opposizione tra l’Imperatore e la Chiesa (o tra i califfi e le leggi dell’Islam) era impensabile. Ma in Occidente il collasso dell’Impero Romano nel V sec. aveva reso il capo della Chiesa, il papa, virtualmente indipendente dall’Imperatore. Anche se per gran tempo non si pensò in termini di opposizione, era impossibile che a lungo andare i loro interessi, politici o teologici, coincidessero sempre.
Ci vollero parecchi secoli prima che venissero pienamente apprezzate le conseguenze intellettuali di questa situazione contingente e, nella prospettiva della storia mondiale, anomala. Ciò divenne inevitabile, però, quando dall’XI al XIV sec., sia i papi che gli imperatori del Sacro Romano Impero, e in seguito anche i re degli Stati europei indipendenti, cominciarono a richiedere la supremazia. Ogni tanto ci fu guerra aperta e in tutto quel periodo si ebbe un’ accesa campagna di propaganda da ambo le parti. Tutti i protagonisti del dibattito scrivevano in latino e tutti si rifacevano alla Bibbia come la fonte più autorevole in questo campo. Questa situazione costringeva gli uomini ad argomentazioni razionali. Inevitabilmente, specie dopo la riscoperta della Politica di Aristotele. che divenne un testo base nella formazione universitaria di diritto civile e canonico, queste argomentazioni razionali dovevano occuparsi della natura dello Stato e dell’ autorità politica. Ci si trovò a discutere in maniera fondamentale sia sul locus che sui limiti dell’autorità e su quali rimedi ci fossero se un tiranno ne abusava. Poiché, sebbene Gesù avesse affermato che tutto il potere viene da Dio, rimaneva da risolvere la questione pratica di come i re ottenessero il potere: se direttamente da Dio o indirettamente dalla volontà del popolo. E se il potere veniva dal popolo, che diritto aveva il popolo di toglierlo a un re tirannico o, perlomeno, di limitarne i poteri? Chi aveva l’autorità di fare le leggi? E il principe era soggetto alle leggi che lui stesso o i suoi predecessori avevano promulgato? In pratica, quali leggi poteva emanare, come imporre certi tributi, che non fossero in conflitto con le leggi naturali di Dio? E la legge naturale comprendeva significativamente i diritti sulla proprietà.
Tali discussioni non venivano necessariamente portate avanti in ogni assemblea che il principe convocava. Ma costituivano le questioni fondamentali che
determinavano lo scopo e le prerogative delle assemblee rappresentative. Esse erano sostenute da un principio derivato dal codice di Giustiniano: quod omnes tangit ab omnibus approbetur: ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti. Ancora una volta questa era già stata una procedura puramente tecnica nel diritto romano. Si applicava nelle cause civili, come la tutela di un minore da parte di diverse persone. Ma nel corso dei secoli XIII e XIV questo cavillo tecnico, qualche volta formulato in maniera leggermente diversa, diventò un principio politico. Si sarebbe rivelato un principio dagli effetti sconvolgenti. Era usato da coloro che adunavano le assemblee allo scopo di trovare sostegno da parte dei sudditi; fu questo il caso di Edoardo I d’Inghilterra quando convocò il Model Parliament nel 1295. Questo principio veniva usato regolarmente da coloro che ritenevano di dover essere convocati. Perché dare consigli aveva un duplice aspetto: era il dovere del vassallo nei confronti del suo signore o principe e finì per essere considerato un diritto. Così il principio del quod omnes tangit, associato a quello della rappresentanza, finì per riproporre il principio greco della partecipazione alle decisioni politiche cui si arrivava grazie al dialogo razionale e «approvato da tutti».
ASSEMBLEE RAPPRESENTATIVE – Nel tardo Medioevo il principio della rappresentanza si diffuse in tutta l’Europa cristiana cattolica. Si adattava bene sia alle necessità dei principi che alle tradizioni dei vari governi locali. Queste tradizioni differivano enormemente dalla partecipazione dei lati fondisti inglesi alle corti della contea, all’autogoverno virtuale delle comunità dei villaggi in varie parti d’Europa e, soprattutto, alle corporazioni cittadine, con i loro statuti reali o episcopali, che stabilivano sia la natura che i particolari dei loro diritti.
I principi, da parte loro, avevano bisogno di tutto l’aiuto possibile da parte dei loro sudditi nella feroce competizione militare che era diventata la norma in Europa dopo che i grandi imperi dei Franchi e dei Danesi erano scomparsi, sepolti in un irrepetibile passato. I principi ricevevano sia informazioni che aiuto dalle loro assemblee. Nel corso del XIII sec. divenne più comodo adunare non solo i notabili ma anche le città; perché erano proprio queste ultime a poter fornire più prontamente denaro per le imprese belliche dei loro prìncipi.
Per le città era fastidioso e costoso mandare i propri rappresentanti alle assemblee; ma era anche una buona opportunità per far approvare i propri statuti, discutere argomenti di interesse comune, come i rapporti commerciali con le potenze straniere o il conio locale e, soprattutto, tenere il fisco entro limiti ragionevoli. Le città potevano formare leghe, come le hermandades di Castiglia, che si riunirono regolarmente a partire dal 1282 e che, alla fine, svilupparono
istituzioni stabili per regolare la loro lega. Nelle Fiandre, i rappresentanti dei quattro membri, le città principali di Bruges, Ghent, Ypres e la zona degli agglomerati urbani e dei castelli tra Bruges e il mare, chiamata la Franc de Bruges (het Vrije van Brugge) tennero più di 4000 incontri tra il 1384 e il 1506, spesso in luoghi diversi e contemporaneamente. In Olanda, tra il 1401 e il 1433, si tennero più di 700 assemblee. Loro scopo principale era discutere di questioni commerciali. Nei principati più estesi e nelle zone prevalentemente rurali gli incontri erano per lo più gestiti dai notabili laici ed ecclesiastici, anche quando vi partecipavano alcune città. Queste riunioni erano molto meno frequenti, a volte con intervalli di parecchi anni, ma a differenza delle assemblee urbane erano molto più complesse e formali. Spesso le presenziava il principe in prima persona.
La cosa sorprendente è che le città-stato italiane, pur sviluppando la loro
indipendenza nella lotta contro gli imperatori tedeschi, non presero parte al movimento di costituzione delle assemblee rappresentative. Le loro leghe, come la Lega Lombarda che combatté Federico Barbarossa, erano poco più che alleanze di unità indipendenti, proprio come lo furono più tardi i membri della Lega Anseatica nel nord Europa. Questa Lega teneva i suoi raduni occasionali: assemblee dei rappresentanti di alcune città anseatiche, ma raramente vi parteciparono tutte. Queste riunioni non si trasformarono mai in istituzioni formali, con membri fissi.
Le città-stato italiane svilupparono una forte tradizione di libertà politica. Proprio come l’eleutheria per i Greci, questa libertà era vista sia come libertà dall’oppressione straniera che come libertà dalla tirannia interna. I teorici politici umanisti italiani, compreso Machiavelli,
non dubitarono mai che la vera libertà dovesse essere repubblicana. Le loro discussioni riguardavano piuttosto la natura del regime repubblicano: se dovesse essere aristocratico, democratico o misto. La rappresentanza era propria delle monarchie e dunque non era
considerata un vivere politico, sebbene Machiavelli ritenesse che quando veniva perduta doveva essere ristabilita da un uomo di «virtù».
Ma c’erano ragioni pratiche perché le città-stato in Italia rifiutassero la rappresentanza. Nei confronti delle aree circostanti il loro contado, esse si comportavano come principi. Le soggiogavano, le tassavano e le usavano come basi di arruolamento per i soldati che
avrebbero combattuto per loro. Né le città del contado né la nobiltà rurale venivano
consultate per queste guerre e i nobili erano convocati solo quando era necessaria la loro presenza individuale nell’esercito. Per quanto riguarda le città suddite, una che ne aveva in gran numero, come Firenze, non avrebbe mai convocato i rappresentanti delle città toscane
insieme, dando loro modo di allearsi l’una con l’altra contro la città «imperiale». Questa tradizione anti-stato era così forte che impedì lo sviluppo delle assemblee rappresentative anche laddove una città-repubblica era diventata principato, come accadde a Milano e Verona e in altre città. Così, né una prevalenza di città, né di relazioni feudali, e nemmeno l’abbondanza di corporazioni ecclesiastiche e la presenza di giuristi canonici, possono da sole spiegare la comparsa di istituzioni rappresentative. Perché ciò avvenisse era assolutamente
necessaria un’ulteriore condizione, un elemento inerente all’idea stessa di rappresentanze di località, corporazioni e Stati che si riunissero in assemblea. Mancava il senso della comunità di una struttura politica. Al di fuori delle città, che certamente svilupparono sentimenti comunitari, ma dove, come detto, la rappresentanza non si sviluppò, tale sentimento in origine poteva essere di tipo tribale. Ma più spesso, durante il Medioevo, le origini tribali vennero dimenticate in favore di tradizioni di cooperazione politica e militare e di obbedienza al principe locale.
Nel 1128, durante una crisi dinastica nelle Fiandre, i membri della nobiltà e molte grandi città formarono leghe per gestire la crisi ed eleggere il nuovo conte delle Fiandre. Fino a quel momento le leghe non erano assemblee rappresentative (anche se alcuni storici le hanno considerate veri e propri pre-parlamenti) e non ci sono prove che la massima quod omnes tangit venisse applicata. Ma tali eventi costituivano in sé una collaborazione tra la nobiltà e le città ed evitarono che le Fiandre si spezzettassero in una serie di città-stato indipendenti come accadde in
Italia settentrionale. Ciò è più sorprendente se si considera che le città principali, Bruges, Ghent e Ypres, si comportavano in buona misura come se fossero città-stato, dominavano e sfruttavano le campagne e i villaggi circostanti come un contado italiano. A partire dalla fine del XII e per tutto il XIII sec. i conti furono spinti a cooperare regolarmente con le assemblee dei loro Stati per potersi difendere dai re di Francia che cercavano di ristabilire il loro dominio nel Paese.
In questo caso, come spesso accadeva nei rapporti tra i principi e le loro assemblee rappresentative, il corso degli eventi e l’equilibrio finale dei poteri non furono determinati soltanto dalla storia interna del Paese in questione, ma anche dall’intervento esterno. La storia dei principi e dei parlamenti non si svolge quasi mai in un sistema chiuso.
Questo vale anche per i parlamenti delle isole. La storia della Magna Carta forse sarebbe stata diversa se la rivolta dei baroni contro re Giovanni , nel 1215, non fosse stata sostenuta dalla Francia. Nello stesso tempo, e ciò evidenzia in maniera cruciale lo spirito di comunità che c’era nel Paese, i diritti e i privilegi che i baroni estorsero al re, specialmente il processo davanti ai propri pari secondo la legge. sarebbero valsi per tutti gli uomini liberi della nazione. Alla morte di Giovanni, il governo di reggenza per conto del figlio minore riemanò la legge altre tre volte. Anche se le tre versioni differivano in alcuni dettagli, le copie furono inviate a tutti i tribunali delle contee, quindi coinvolsero deliberatamente la comunità di tutto il regno.
Fu questo il modo in cui la Magna Carta finì per essere interpretata. I parlamenti successivi insistettero per promulgarla ancora. La reputazione del parlamento e della Magna Carta, entrambi considerati a salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini inglesi, si rinforzavano l’un l’altro, e si svilupparono insieme fino a formare la tipica simbiosi dell’idea di governo di diritto, dei diritti e privilegi dei sudditi e della rappresentanza dell’intera comunità.
Ci volle tempo perché venissero stabilite in Inghilterra adunanze regolari del
Parlamento e lo stesso valeva per le altre assemblee rappresentative sul Continente. Inevitabilmente esse si svilupparono in tempi diversi, dal XIII al XV sec. Vi erano i tre stati classici: clero, nobiltà e popolo; ma vi era anche il principato d’Olanda in cui le assemblee erano di solito limitate alla nobiltà e alle sei città maggiori (sebbene a volte venivano convocate anche le città più piccole) e non aperte al clero. In Polonia solo la nobiltà veniva considerata come rappresentativa della comunità. Le città venivano lasciate fuori dalla Sejm, la dieta di tutto il regno, anche se dominavano l’assemblea provinciale della Prussia Reale. In Svezia, al contrario, il clero era costituito non solo dai prelati ma anche dal clero locale, e c’era persino uno stato dei contadini. Molto dipendeva dallo sviluppo degli stati come gruppi o raggruppamenti auto-consapevoli all’interno dello Stato stesso, come la divisione tra notabili (ricos hombres) e bassa nobiltà (hijosdalgo) nelle Cortes di Aragona.
C’erano assemblee rappresentative dappertutto al di fuori delle città-stato, a parte alcune comunità contadine nelle valli alpine e le paludi della costa settentrionale della Frigia, nel mare del Nord, che conservavano antiche tradizioni di riunioni degli uomini liberi.
Le assemblee rappresentative non erano mai democratiche. Solo in Inghilterra c’era qualcosa di simile alle elezioni dei membri effettivi del Parlamento e nessuno immaginava che queste elezioni fossero democratiche. La democrazia era apprezzata da alcuni umanisti. Ma, al di fuori di alcune città-stato italiane e svizzere e delle poche comunità contadine indipendenti, la democrazia era
disprezzata ed evitata. La rappresentanza era presente negli ordini ecclesiastici e nelle monarchie. Certamente aveva il compito di coinvolgere le comunità nella vita politica, ma mai nessuno pensava che dovesse cambiare la struttura sociale della comunità. Era rivoluzionaria nel senso aristotelico che dava l’opportunità di una vita felice difendendo le libertà, i privilegi particolari di corporazioni e gruppi, all’interno della comunità. Doveva preservare la comunità dal governo arbitrario del principe. Ma la rappresentanza non era intesa come uguaglianza o uguali diritti. La forma esatta delle assemblee e i loro rapporti col principe dipendevano dalla struttura sociale delle comunità che rappresentavano. Questi rapporti, a loro volta, erano spesso influenzati dalle alleanze e dall’intervento delle comunità limitrofe. Una volta stabilite, le assemblee tendevano ad assumere una forma istituzionale. Come tali, cominciarono a sviluppare una loro vita propria con certe forme tradizionali talora rigide, e ciò accadeva persino quando le condizioni socio-politiche originarie erano cambiate. Se la comparsa delle assemblee rappresentative dipese dall’esistenza di un certo senso della comunità, le assemblee aumentarono questo sentire.
I principi avevano un atteggiamento ambivalente verso le loro assemblee. Le consideravano utili per assicurarsi il sostegno della comunità, l’osservanza delle leggi e in misura ancora maggiore, per la concessione di denaro sotto forma di tasse. Nel 1282 i Siciliani rovesciarono il loro re della casa francese di Anjou (Vespri Siciliani) e si rivolsero al re d’Aragona perché prendesse la corona e li aiutasse a mantenere la loro indipendenza. Pietro III d’Aragona, pur reclamando la corona di Sicilia per diritto ereditario, convocò molti parlamenti in Sicilia per farsi confermare re. Questi parlamenti evitarono che il regno si spezzettasse in una miriade di città-stato, come nell’Italia settentrionale, e così ottennero da re Pietro un certo numero di privilegi, in cambio di somme di denaro per finanziare la guerra con la casa di Anjou che si trovava ancora a Napoli. Non sorprende che Pietro d’Angiò abbia convocato anche un’assemblea nel suo principato di Catalogna allo scopo di ottenere supporto finanziario per la sua politica in Sicilia.
Eppure i principi erano ben consapevoli del pericolo costituito dalle assemblee che potevano diventare potenziali rivali dell’autorità. Sia essi che i loro avvocati erano sempre molto suscettibili a questo argomento. Se la massima romana del quod omnes tangit era ormai generalmente accettata, lo era anche quella del diritto romano che considerava il principe come legibus solutus, al di sopra della legge. Secondo alcuni giuristi, questo principio era rinforzato dal detto del Codice Giustinianeo: quod principi placuit leges habet vigorem, poiché piace al principe ha forza di legge. Cosa realmente significassero queste massime romane era un argomento di costante dibattito e di sottili e colte argomentazioni da parte di magistrati civili e canonici. Più comunemente, si sosteneva che solo il principe aveva il diritto di formulare le leggi che poi l’ assemblea rappresentativa aveva il dovere di confermare.
Ma cosa accadeva alle leggi che risultavano dalla presentazione di lamentele? Questa presentazione era una delle funzioni riconosciute alle assemblee. I principi erano ansiosi di non perdere il proprio diritto di accettare o rifiutare i suggerimenti delle assemblee. Talora, specie, quando si trattava di una disputa dinastica, le assemblee si riunivano di loro iniziativa. Ma i principi scoraggiavano simili azioni indipendenti e insistevano che solo essi avevano il diritto di convocare, prorogare o sciogliere il parlamento. Ma i parlamenti e le assemblee rappresentative non erano uguali ad un consiglio regale. In assenza di una vera e propria amministrazione civile, i parlamenti tornavano utili alla politica proprio
perché rappresentavano interessi, informazioni e autorità indipendenti da quelli del principe e del consiglio che lui nominava. Essi costituivano un’opportunità di dialogo politico per la comunità.
CONCILIARISMO – L’ambiguità fondamentale di questo equilibrio dei poteri
tardo-medievali, divenne evidente nella prima metà del XV sec. nella storia dei grandi consigli ecclesiastici e del loro confronto con la monarchia papale. Non era un confronto intenzionale. I leader dell ‘Europa cristiana, sia religiosi che laici, decisero di porre fine allo scisma papale (1378). Un concilio a Pisa (1408-’09), convocato da un gruppo di cardinali, fu rigettato da entrambi i papi e finì per aggiungere un terzo papa ai due in lotta. Il concilio successivo a Costanza (1414-1418) fu convocato su iniziativa del Sacro Romano Imperatore e vi parteciparono un certo numero di re e principi europei o i loro rappresentanti, oltre una sfilza impressionante di prelati e teologi. Allora i papi e gli antipapi furono deposti con successo e ne fu eletto uno nuovo, Martino V, che fu accettato da tutti. Questo è molto simile all’operato delle assemblee rappresentative locali, come quello delle Fiandre, che aveva deposto un principe indegno e ne aveva eletto uno nuovo. Adesso, col Concilio di Costanza ciò era avvenuto su scala più vasta. Frequentato o, perlomeno, seguito avidamente dal fior fiore degli intellettuali europei, il concilio produsse naturalmente una giustificazione teorica alle sue decisioni. Essa si trova nel famoso decreto Haec Sancta (6 aprile 1415), dove si afferma che il concilio derivava la sua autorità direttamente da Cristo e questa autorità era superiore a quella del papa, il successore di San Pietro e vicario di Cristo. I padri della Chiesa erano attenti a reclamare tale autorità solo per le questioni di fede, ma come si potevano distinguere tali questioni da quelle organizzative e politiche? Il concilio procedette a riorganizzare la Chiesa e ad eleggere un nuovo capo.
Questi erano i problemi fondamentali sulla natura dell’ autorità che i teologi avevano dibattuto per secoli in senso astratto. Erano problemi essenzialmente analoghi a quelli dell’autorità del principe e dell’assemblea rappresentativa. Il confronto divenne più aperto nel corso del concilio successivo, a Basilea (1431-1449). Naturalmente gli scontri ora si svilupparono per il tentativo del papa Eugenio IV di sciogliere il concilio, mentre quest’ultimo replicava che solo lo stesso concilio poteva decretare il proprio scioglimento o la propria proroga. Si finì per formulare un decreto ancora più innovativo dell‘Haec Sancta, in cui si stabiliva che il concilio aveva semplicemente un’autorità superiore a quella del papa.
La posizione conciliare fu discussa soprattutto nelle università, in special modo nella facoltà di teologia di Parigi. Alla fine i teologi non poterono opporsi al potere del papa di usare le diverse potenze temporali l’una contro l’altra. Inoltre, egli aveva il vantaggio, nella propaganda spirituale, di avere concluso da poco un accordo apparentemente riuscito con la Chiesa greca ortodossa (1437). Già a metà del XV sec., il papato era riuscito ad emergere come monarchia autocratica dal confronto con i principi della rappresentanza dei conciliaristi. Nessuno poteva prevedere che il papato diventasse ora vulnerabile, non solo a causa dei riformatori della Chiesa – tutti concordavano nella necessità di riforme – ma anche nella ricerca da parte dei principi di indipendenza ecclesiastica e di controllo sulle loro chiese.
A riflettere sul dibattito del XV sec., l’aspetto sorprendente non è la partita persa dal movimento conciliarista. Gli interessi dei protagonisti erano troppo
diversi. Le mere dimensioni dell’ operazione conciliare e l’enorme territorio sul quale doveva essere coordinata, erano troppo persino per i più accaniti sostenitori. Così Nicola di Cusa, una delle menti più brillanti di quell’epoca, abbandonò i conciliaristi e si schierò dalla parte del papato. La vera sorpresa invece è quanto in avanti fossero riusciti a spingersi i conciliaristi. Era un segno della vitalità dell’idea di unità dei Cristiani, un segno analogo a quello comunitario che sarebbe stato essenziale per la nascita della rappresentanza nei singoli Stati europei.
Allora l’idea di rappresentanza fu sconfitta assieme all ‘ idea di conciliarismo? La storia non è così logica né così simmetrica. La nozione di un concilio sopravvisse come idea, come aspirazione, come un mezzo per guarire i mali del tempo. Era ancora un’idea forte nella prima generazione della Riforma, e rimase tale da ambo le parti del dibattito riforrnista. Ma poi la connessione tra concilio e rappresentanza svanì sempre più sullo sfondo, cedendo alle sempre maggiori certezze dei dogmi di entrambi gli schieramenti. Al Concilio di Trento (1545 – 1564) pochi erano interessati alla rappresentanza, tranne che per la necessità dei Protestanti di far udire la propria voce e dei Cattolici di negarla.
STATI COMPOSITI E STATI GENERALI
I concili ecclesiastici del XV sec. furono dei grandiosi, ma inefficaci, tentativi di creare un’istituzione rappresentativa composita. L’idea stessa, comunque, era tutt’altro che morta, né i Concili di Basilea e di Costanza furono i soli esempi. Le assemblee rappresentative
composite furono la conseguenza logica della comparsa di monarchie composite o multiple. Nel tardo Medioevo, queste monarchie erano diventate la forma più importante di organizzazione politica in Europa. Più era potente la monarchia – e il potere era l’obiettivo internazionale nella maggior parte delle monarchie – meno probabile era che fosse uniforme.
Le parti costitutive di una monarchia multipla, nella maggioranza dei casi, si univano insieme per volere comune, come nel caso della Sicilia o d’Aragona, o più spesso per eredità dinastica o di matrimonio, come la maggior parte dei domini della Casa d’Austria, o nel caso
dell’Inghilterra e della Scozia con la successione di Giacomo VI e I nel 1603.
In tutti questi casi il principe giurava di osservare le leggi e i privilegi preesistenti del suo nuovo Stato. Nel XV sec. queste leggi e questi privilegi di solito comprendevano un’assemblea rappresentativa che considerava suo dovere difendere i propri interessi e quelli dei suoi membri. Nei pochi casi in cui una monarchia acquisiva uno Stato o una provincia per conquista, si riteneva ci fosse il diritto di abrogare tutte le leggi e i privilegi preesistenti. In pratica, comunque, i poteri della monarchia erano limitati dalla necessità di riconciliare a
sé almeno una parte dell’élite del nuovo territorio. Machiavelli consigliava al suo principe o di distruggere la nuova provincia, o di risiedervi lui stesso (e dispensare generoso patronato ai nativi), oppure lasciarla vivere secondo le proprie leggi. Persino quando gli abitanti di una provincia, che passava da una mano all’altra, non venivano consultati sul cambiamento, ci si aspettava che queste leggi venissero osservate. Nel 1482 Maria di Borgogna fu costretta dai suoi Stati Generali a firmare il Trattato di Arras e cedere l’Artois e la Franche-Comté alla
Francia, come dote per la figlia neonata che avrebbe sposato il delfino. Al futuro sposo (che nel caso specifico non sposò mai la principessa Margaret) fu chiesto
«di tenere in particolare considerazione le contee di Artoi s e Borgogna e i poveri abitanti che troverete essere i migliori e più leali sudditi» .
In questo modo i principi potenti, abili o semplicemente fortunati , potevano aggiungere alloro regno provincia su provincia, e Stato su Stato, ognuno con le sue leggi e le sue istituzioni ben consolidate. Per ottenere una maggiore coesione dei suoi domini, il principe spesso trovava utile convocare insieme tutti i membri delle assemblee rappresentative. Non poteva dare per scontato che tutte le province sostenessero la sua politica, specialmente la guerra che per il principe era essenziale. Così nel 1485 le terre della Prussia Reale, una provincia di lingua tedesca che sin dal 1466 viveva felicemente sotto il regno di Polonia,
rifiutarono di sostenere la guerra con i Turchi Ottomani. Essi affermavano persino che, secondo i loro privilegi, il re di Polonia era obbligato a proteggerli dall’aggressione, ma non il contrario.
La monarchia francese aveva già fatto esperienze simili nel XV sec. Alcune delle province francesi non avevano alcun interesse nella guerra contro l’Inghilterra e preferivano tenere per sé le proprie risorse. I re francesi allora convocarono molte assemblee in tutto il Paese, les états généraux, solo raramente e non sempre con grande successo. Inoltre c’era il pericolo che gli Stati Generali, un’assemblea composita per un regno grande e complesso, potessero diventare molto potenti e cominciare ad usurpare l’autorità reale. Ciò accadde in Francia anche quando re Giovanni II fu fatto prigioniero dagli Inglesi nella battaglia di Poitiers (1356). Gli Stati Generali approvarono l’imposizione di tasse per poter continuare la guerra e per pagare
l’enorme riscatto per liberare il re. Nello stesso tempo cercarono di riformare il governo centrale la cui incompetenza aveva portato alla disfatta militare. Ma gli Stati Generali per un Paese così esteso e vario come la Francia si rivelarono troppo impacciati, e il nuovo energico re Carlo V preferì regnare facendone a meno. La monarchia francese era l’unica, a parte alcuni principati italiani, che era riuscita a mettere su un’amministrazione tributaria che funzionasse
nella maggior parte del Paese. Sin dal tempo di Carlo V, esso aveva acquisito la reputazione di dominium regale, un regime che poteva imporre liberamente tassazioni importanti. Al
contrario, in un dominium politicum et regale la monarchia non aveva tale diritto. La linea di demarcazione tra i due tipi di regime non era sempre così netta, ma gli esperti del tempo indicavano chiaramente che tale differenza esisteva e anche da quale lato si poneva la Francia.
Forse la situazione si può meglio riassumere con l’aneddoto di un ambasciatore veneziano, che Francesco I era solito ripetere. Egli diceva che l’imperatore Massimiliano gli aveva riferito che
lui, l’imperatore, era il re dei re, perché nessuno eseguiva i suoi ordini; Ferdinando il Cattolico era il re degli uomini, perché gli uomini gli obbedivano solo quando decidevano di farlo; ma Francesco, re di Francia, era il re delle bestie, perché tutti gli obbedivano sempre.
Questa battuta era ovviamente un’ esagerazione. Lo storico ha ben ragione di chiedersi, però, perché Francesco lo raccontasse così spesso. Il giudice Fortescue, a cui si deve la pal1icolare formulazione della definizione dei due diversi tipi di regime nel XV sec., non si
inventò certo l’idea. L’aggettivo «politico » derivava dalla Politica di Aristotele ed era usato di frequente sul continente per indicare un regime limitato o misto.
Se i governanti delle monarchie multiple nutrivano sentimenti ambivalenti
verso le assemblee rappresentative multiple, così era anche per le proprietà delle singole province. Quelle degli Asburgo d’Austria, nell’Europa centrale, erano spesso riluttanti a mandare i loro deputati al di fuori dei propri confini. I Boemi, per esempio, si rifiutavano di andare in Austria. I privilegi che i governanti avevano giurato di mantenere erano sempre i privilegi locali di quella particolare provincia. Non si mettevano da parte tali privilegi con leggerezza,
per paura di perderli del tutto. Se si riteneva necessario farlo, si pretendevano altri privilegi maggiori. Se negli incontri degli Stati Generali le province più piccole in genere seguivano le indicazioni di quelle più grandi, per esempio, nella concessione di tasse, tutti opponevano
strenua resistenza verso qualsiasi mozione di voto di maggioranza, specialmente in questioni finanziarie.
Questa è un’altra ragione per cui, con pochissime eccezioni, gli Stati Generali funzionavano solo in territori contigui. Una striscia di mare tra due territori sotto la stessa corona, costituiva
un serio ostacolo. Ma anche in questi casi, le storie di Inghilterra e Irlanda, di Svezia e Finlandia e di Aragona e Sardegna dimostrano che il mare non era una barriera assoluta. Questi esempi, però, erano relativamente rari e la ragione principale era che i membri degli
Stati Generali, ancor più di quelli delle unità singole, insistevano nel restringere i poteri dei deputati e pretendevano che sulle questioni importanti essi si consultassero con coloro che li avevano mandati. C’erano buone ragioni per tutto ciò. I borgomastri, i sindaci e i segretari
comunali trovavano naturalmente più facile far valere il loro coraggio all’interno della propria comunità, rispetto a quando si trovavano a viaggiare come deputati e ad affrontare i grandi signori del consiglio reale o persino lo stesso re o il suo reggente. Respingere le richieste
dell’autorità era più facile se si poteva affermare di non avere il potere di decidere personalmente. Al contrario, era più facile per il governo intimidire i singoli deputati che dover affrontare l’intero consiglio di una grande città. Nonostante ciò, non era sempre chiaro
chi rappresentassero i deputati. Le assemblee provinciali o le città parlamentari e le corporazioni ecclesiastiche? Né era sempre chiaro il ruolo dei notabili nelle assemblee, specialmente se essi facevano parte anche del consiglio del re. La storia degli Stati Generali non può quindi essere separata nettamente dalla storia delle assemblee delle province
costituenti di una monarchia multipla. Gli uomini non cedono volentieri il potere che esercitano o che pensano di dovere esercitare. Se l’ideale di dominium politicum et regale era cooperare per il bene della comunità, ci potevano essere idee molto diverse riguardo a chi
e che cosa fosse la comunità.
Ci potevano anche essere svariate e appassionate idee riguardo a cosa fosse il bene, aristotelico o meno. E se queste differenze conducevano a conflitti aperti, come spesso accadeva, era inevitabile che gli Stati vicini fossero coinvolti in tali conflitti. Lo storico, dunque, osserva certe tendenze e certe regolarità in queste storie. Ma le contingenze influenzavano sempre il risultato. Ciò che lo storico non può fare è predire l’esito di queste storie, né per l’Europa né per i singoli Stati.
Una storia comparata ed esaustiva degli Stati Generali sarebbe quindi equiparabile alla storia politica dell’Europa moderna. Anche se fosse possibile
scriverla – e finora non esiste – non ci fornirebbe una legge generale dei rapporti storici tra monarchia e parlamento. Per
questa ragione ho scelto un formato diverso: quello di descrivere in modo approfondito
i rapporti fra la monarchia e gli Stati Generali dei Paesi Bassi in un periodo di duecento anni. La ragione di questa scelta è la storia infinitamente varia di questo rapporto. Ci troviamo
davanti a un’organizzazione politica multipla all’interno di uno Stato multiplo, aperto sia alle idee che all’ intervento esterno. Il leone per una volta è riuscito ad alienare tutti i leopardi dal suo comando. Metà di loro scelsero di ritornare a lui, per svariate ragioni, non ultima
quella della paura di pecore con denti di cane. L’altra metà dei leopardi scelse di non ritornare sotto il comando del leone perché scelse di non nascondere le proprie macchie. Tutti scelsero di tenere le pecore, con o senza i denti, all’oscuro. Il Riccardo Il di Shakespeare riassume
quest’atteggiamento quando caratterizza la stranezza della ribellione di Bolingbroke:
Ho avuto modo di osservare io stesso,
e con me anche Bagot, Green e Bushy,
com’ ei riesca a corteggiare il popolo,
e penetrare in fondo ai loro cuori
con umili ed affabili maniere;
e prodigarsi a loro in grandi gesti
corteggiando quei poveri artigiani
con l’arte del sorriso.
RICCARDO Il (I, 4)
(Trad. italiana di Bruna P Scimonelli) H.G .K.
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