Nur o Un sogno di una notte d’estate
Presentiamo un brano tratto dal 1° capitolo del romanzo Nur o Un sogno di una notte d’estate di S. Marotta.
Il libro è nella fase di rielaborazione finale. Ci auguriamo che venga dato alla stampa quanto prima, perché sia apprezzato e letto.
È la storia di un incontro dove l’amore, giuocando un ruolo di straordinaria importanza. permette di scandagliare gli angoli più reconditi dell’animo umano, ma è anche la storia di due persone molto diverse per mentalità e formazione, per cui tutto lascia prevedere un’insanabile rottura.
Cara Nur,
è notte fonda ed io non ho sonno. La tua partenza ha lasciato un vuoto incolmabile e mi ha reso triste e scontroso.
Oggi, non ricordo cosa volesse, ho sgridato la bambina perché la smettesse di chiamarmi e si rivolgesse a sua madre. Persino Fufy, il cane bastardo, intuisce che qualcosa non va e se ne sta alla larga, limitandosi a scodinzolare la coda.
Non so cosa mi prende. So solo che tu sei lontana ed io soffro. Soffro perché mi manca Nur, la mia luce, l’angolo che un giorno d’estate s’impossessò prepotentemente di me, prendendosi l’anima e il corpo.
Ora che avevo cominciato ad accarezzare l’idea di stare con te, tu sei partita, così, tutto ad un tratto, lasciandomi solo. «Ritornerà», mi dico, «ritornerà»; e, facendomi forza, ricordo i giorni passati insieme, i tuoi riccioli, il tuo volto, le tue carezze.
Quando ritornerai? Se lo sapessi almeno, se almeno ti facessi sentire…
Oh, potessi fare un sogno veritiero … No, no, meglio di no, alla larga dai sogni. Ieri notte ne ho fatto uno bruttissimo. Eravamo insieme, gioivamo quando tu, d’un colpo, senza dirmi niente, senza niente in corpo, cominciasti ad allontanarti. Ti chiamavo, avrei voluto correre. ma non potevo. come se una forza demoniaca mi tenesse legato sul letto. Gridavo: «Nur .. , Nur…». ma tu, incurante, seguitavi ad andare, ad andare lontano…
Mi ha svegliato la bambina, chiedendomi acqua. Poi, non avendo preso sonno, sono uscito in giardino, promettendomi che al mattino avrei composto il tuo numero telefonico per udire, per lo meno, la voce registrata, e sentirti viva nel mio cuore.
Fufy mi è venuto incontro e l’ho dovuto carezzare, povera bestia! Per tutto il tempo che sono rimasto fuori, mi ha fatto compagnia. Non c’erano stelle in cielo, e quelle poche che intravedevo erano come punti impercettibili, distanti tra di loro. Sono andato di nuovo a letto che era già l’alba. Non ho preso sonno, e avrei voluto gridare il mio sconforto. Ma a chi? Chi avrebbe voluto ascoltare i miei lamenti? L’amore è crudele quando è vero amore: ti fa temere di perdere chi ami, soffrire quando ti ritarda a venire, sentirti solo quando non ti sta vicino!
È veramente brutto. Se tu potessi provare per un momento solo la mia pena, se tu mi amassi, non a parole – come sembra -, ma con la mia stessa intensità d’affetto, certamente non saresti andata via come una sconosciuta, e ti avrei qui, accanto a me, colma di carezze e di baci. Ma io non capisco o, meglio, capisco tanto bene che vorrei non capire, e tu giuochi bene la tua parte e rimani impassibile, come se niente fosse mai successo, pronta a chiamarmi al momento opportuno («Amore, sono qui, come stai, vieni, ho bisogno di te e non posso farne a meno …») e a voltarmi le spalle col primo venuto. No … non credo, mi ostino a non credere una cosa simile. Credo, invece, che la mia Nur sia andata via per ritornare ancora, che sia andata per guardare come il mondo è fatto.
Se mi telefonassi, almeno, se ti facessi viva per un secondo, sono sicuro che riacquisterei fiducia e direi tra me: «Se Nur mi ha pensato, vuol dire che non sono morto del tutto nel suo cuore». E mi farei coraggio, troverei la forza di insistere nel mio amore. Ma questo non lo fai, e resti sorda ad ogni mio richiamo. Così soffro terribilmente la mia pena e non posso sfogare con nessuno il mio dolore!
Ieri, preso dal pensiero di te, sono andato alle “Tre Sirene”, la spiaggia di S. Giorgio, vicino a Sciacca, la ricordi? Ricordi quel giorno che vi trascorremmo insieme? Solo, mi sono spinto fin dove mi è stato possibile, perché il mare era così agitato che invadeva ogni cosa. Le orme dei nostri passi erano state cancellate, e non si vedeva più, sommerso dalle onde, lo scoglio su cui rimanemmo seduti a lungo. Di là guardavamo il mare e ci st.upiva la sua calma, simile a quella di un bambino in dormiveglia. I nostri occhi andavano lontano e, per un attimo, ricordando i tuoi genitori, t’invase la nostalgia. Fu allora che, stringendoti, dissi che avrei fatto di tutto perché potessi rivederli.
Ricordo che mi abbracciasti forte senza parlare, ma i tuoi occhi sprizzavano una gioia immensa.
Il cielo era limpido, non c’era vento. Solo all’orizzonte qualche nuvola sembrava posarsi leggermente per inabissarsi chissà dove. Attorno tutto era gioioso e allegro. Il verde della vegetazione, sfumato dalla calura, s’intonava benissimo al colore oro dell’erba secca e del grano mietuto. Che meraviglia! Non c’erano rumori, e l’aria era così satura di odori che riempiva a fondo i polmoni e dava la sensazione di trovarci in qualche angolo di paradiso. Di tanto in tanto ci giungeva da lontano il canto monotono dei contadini che sfogliavano le viti. Più spesso, invece. venivamo attratti dalle voci dei bambini che sulla spiaggia si divertivano a costruire castelli e cinte murarie ben fortificati. Ma quando sembrava che stessero per completare l’opera, crollava tutto. Allora le voci e le grida si facevano più intense e si attutivano solo quando riprendevano un altro lavoro.
Giorni felici, dove siete? Era immaginabile che i nostri sogni sfumassero come rugiade al sole? Ricordo che mi prendevi in giro perché nuotavo male e tu, con aria spavalda, mi facevi tante di quelle capriole attorno da farmi stancare. «In cambio, sono bravo in altre attività», ti dicevo, e tu sorridevi e beavi, mentre ti carezzavo il volto e i riccioli d’oro. Ed eri felice. I tuoi occhi erano colmi di una felicità che non sempre manifestavi parlando, e gioivi di una gioia intensa: ed eri sincera, almeno allora, nelle manifestazioni di affetto. Ricordo che, senza aspettarmelo, mi saltavi addosso e mi colmavi di baci: ti stringevo senza parlare e sentivo di amarti come non avevo mai amato.
Cara, alle “Tre Sirene”, il ricordo di te e il saperti lontana mi hanno talmente sconfortato che, sapendolo, avrei fatto a meno di andare. Io volevo sentirti viva e respirare quell’aria che respirammo insieme. Ma i tonfì della mareggiata mi hanno stordito al punto di fuggire gridando il tuo nome. «Nur … Nur … ». gridavo, «Nur, dove sei …». Correvo come un forsennato, e avrei voluto annullarmi e scomparire per sempre.
Perché tutto questo? Perché i sentimenti, i nobili sentimenti spesso sono infranti e calpestati? L’uomo cade in uno stato angoscioso miserevole, e diviene vuota la vita, senza senso, quando gli vengono a mancare d’un colpo questi fili
sottilissimi che lo legano agli altri e lo fanno sentire qualcuno. Allora, cade l’interesse per il mondo, crollano i sostegni su cui aveva basato le sue forze e per cui aveva vinto le tanto insistenti battaglie quotidiane. Per quanto all’apparenza possa sembrare estroverso e creativo, venuti meno gli affetti che sino a poco tempo prima lo avevano sostenuto, l’uomo si rivela fragilissimo e non sempre reagisce e supera l’angoscia in cui è caduto.
È ciò che sto sperimentando sulla mia pelle in questi giorni così lunghi e interminabili. Il mio pensiero è rivolto a te, a te che sei lontana, e soffro maledettamente, anche perché non ho più quella tranquillità d’animo che ci vuole per portare avanti il mio lavoro. Sono rimasto fermo dal giorno della tua partenza e vani sono risultati i tentativi di ripresa, vano è risultato lo sforzo di apparire normale, perché chiunque s’accorge che c’è qualcosa che non va. Ieri la bambina, dopo avermi osservato, pur avendo bisogno di me, ha preferito chiamare la mamma. «Posso aiutarti io, se vuoi». le ho detto. «Ma tu sei intrattabile. Sei adirato con me? Ti ho fatto qualcosa?», Le sono andato vicino e l’ho abbracciata e tranquillizzata. La cosa più certa è che faccio fatica ad essere me stesso. «In questo periodo mi sento poco bene», le ho risposto. «Ma non è niente. Vedrai che fra non molto mi sentirò meglio, e allora ritorneremo a giuocare e ad essere buoni amici». Elisa mi ha guardato dolcemente, ma il suo sorriso non era il solito giulivo sorriso che si sprigiona dal suo volto innocente.
Q uesta, però, non è vita. No. Nur cara, non possiamo continuare così. A lungo andare la corda, resistente per quanto sia, si spezza. Faccio difficoltà a dirlo. Lo so io come ti ho ancora nel cuore, lo so io che fatica faccio ad accettare la realtà delle cose. Come è brutta, a volte, la realtà, come è deprimente! Dio, perché l’uomo deve sentirsi così prostrato, perché deve essere interiormente tanto travagliato da mettere in forse la sua esistenza?
Non ti chiedo altro, non ti dico niente. Se così hai deciso, sia pure (sarebbe inutile e controproducente l’insistere), se hai deciso così, vai, vai pure, non voglio trattenerti. L’amore non può essere mai unilaterale, e ben poca cosa è la finzione. Prima o poi la verità viene allo scoperto, e la realtà, nostro malgrado, ci si mette prepotentemente dinanzi per essere guardata in faccia. Allora non possiamo farne a meno e l’accettiamo con risolutezza.
Nonostante tutto, sappi che non nutro alcun rancore.
Salvo Marotta
Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 32-36