di Antonino Cremona
Vi è stato un tempo in cui le tazze avevano due manici, affinché si potesse bere agevolmente. Epitteto, però, diceva che non solo le tazze ma – generalmente – ogni cosa ha due manici; molto tempo dopo, gli entusiasti del premiatismo si sono accorti del rovescio della medaglia: un secondo manico, di forma diversa. In definitiva, Epitteto ci informava che vi è più di un modo per prendere le cose: prima da un manico, poi dall’altro, e ciascuna volta l’oggetto risulta diverso. A certo punto, le tazze hanno perso un manico: per effetto di un assolutismo unidirezionale. Sicché è rimasto un solo modo per prendere le cose. Infine, l’invenzione del bicchiere ha eliminato anche l’ultimo manico: non vi è più modo di prendere le cose. Rimane, però, l’avvertenza di Epitteto: alle idee, agli argomenti, alle persone, alle cose, ci si può accostare in modi diversi; intanto, possiedono diversi modi di manifestarsi. Un autore può essere preso – come si dice – per quello che è, o nel contesto del suo tempo. Ancora: può essere colto negli elementi che ci tramanda, o per la marea dei suoi discepoli.
Ma queste sono soltanto delle apparenze. Infatti, nessun autore può mai essere «quello che è» (la sua opera non può venire considerata come se il resto del mondo non esistesse). Ogni autore consiste, invece, nella sua storia; ch’è composta di due parti: la prima, sino al momento in cui produce; la seconda – in perenne formazione – inizia nel momento in cui ha smesso di produrre. A volte, l’assegnazione di un premio Nobel (o la semplice pubblicazione dell’opera omnia) vale un decesso. Non è stato il caso di Montale, né di Quasimodo.
La prima parte della storia di un autore è la sua opera che si va formando, e pure vi appartengono gli effetti della sua opera ancora in via di composizione; la seconda parte della sua storia sono gli effetti dell’ opera ormai conclusa, anzi interrotta da un qualche evento. Ma vi è da sospettare che l’opera è di quell’autore in quanto è di sua scrittura: egli e il suo ambiente si esprimono attraverso quella scrittura. Pure vi è da considerare che nessun autore ha bottega, non si sceglie i propri adepti, non li conosce nemmeno; lavora per suo conto (non è un artista – pittore, o scultore, architetto – di tipo rinascimentale), non si occupa di discepoli. Se ve ne sono, stanno fuori dall’officina; si trovano fra i suoi lettori.
Dalle nostre parti, non abbiamo autori di letteratura che possano essere conosciuti attraverso i loro adepti. Si vuole dire che l’opera di Salvatore Quasimodo non può essere valutata guardandone i seguaci ed epigoni: il fatto che vi siano quasimodiani segnala la forza di suggestione che l’autore è capace di imprime re, ma non può attribuire a lui alcuna responsabilità (appunto, non ha bottega) circa gli esiti dei suoi ospiti. I quali, come avviene al seguito di ogni fortuna letteraria, hanno frainteso il senso della sua scrittura. Equivocano le derivazioni decadentistiche – certamente quelle che provengono dal più fine decadentismo degli europei – scarabocchiando paesaggi in forma di bozzetto; sicché il civismo meridionalistico di Quasimodo viene tradotto in un disgustoso lamento sulle proprie sorti, e su quelle di un Sud inesistente; l’emigrazione si presenta, in questo modo, ancora più esecrabile.
Le dimensioni dell’opera di Quasimodo si accrescono, e si arricchiscono, quanto più essa si inoltra nella seconda parte della sua storia. Sicché diviene pressante che vengano condotte alcune indagini: rintracciare le influenze quasimodee su altri traduttori e poeti; così pure i legami di Quasimodo con i suoi contemporanei e i suoi antecedenti.
I suoi contemporanei non sono autori delle altre latitudini. Sono, innanzitutto, la gente (non necessariamente la sola gente di cultura) con cui egli è vissuto nei vari luoghi della sua vita; e sono i libri delle sue letture. I suoi contemporanei, dunque, si risolvono nelle riflessioni: dovute a persone che vivevano con lui (direttamente, oppure attraverso quanto egli era disposto a ricevere dalle loro attività artistiche). Una critica attenta a componenti di questo tipo darebbe risultati amari al criticismo astratto: troverebbe, peraltro, notevoli – e quasi sconosciute – personalità accanto e intorno a Quasimodo e lui accanto e attorno a costoro. Per conseguenza, si ridurrebbe l’immagine del poeta in una luce di solitudine all’interno della triade ermetica.
Certo, un poeta è sempre un passero solitario; ma in senso diverso da quello per cui possa divenire un migratore . sperduto. Chi è privo di passione per la solitudine – un amore appassionato, quasi esclusivo – non riesce a scrivere, mai: la vocazione del poeta è la vocazione alle proprie riflessioni solitarie, pubbliche e private.
La solitudine di Quasimodo è tutta un fervore di relazioni, di scambi, di interessi, con quelli che possono essere ritenuti i suoi contemporanei, ma anche i suoi antecedenti, di tante epoche, con i quali ha tenuto contatti da contemporaneo.
Stranamente, il concetto di ermetismo non è una sintesi a posteriori. È – invece – un ritrovato di critici, in linea parallela allo sviluppo dell’attività di alcuni poeti e saggisti. È una sorta di programma, come quello che Adriano Tilgher stese a un certo punto del lavoro teatrale di Luigi Pirandello. Sappiamo tutti che i programmi in materia d’arte sono tentativi ogni volta falliti. L’arte se ne va sempre per il suo verso, sfuggendo alle regole. Va a finire che, rispetto alla gabbia messa su da Tilgher, Pirandello ha poi sbagliato; e che, allo scopo di rinserrarsi in quella gabbia, Pirandello cerchi di non sbagliare: con alcune conseguenze rispetto a se stesso. Va, pure, a finire che l’ermetismo rimane un’ipotesi; un movimento poetico nel quale (paradossalmente) tutto è fermo, e non vi sta dentro nemmeno un autore: ovvero alcuni letterati, che la poesia ha lasciato in desolazione (così nel romanticismo, nel classicismo, negli ismi).
Ne viene fuori che la triade si allarga. Interrogati, uno ad uno, i componenti della triade negano di farne parte (non solo di appartenere alla triade, ma allo stesso ermetismo), e oggettivamente non vi appartengono. Ognuno si è messo nella propria solitudine: lavora all’intemo della propria poetica. La triade si allarga perché – indicata con persone di varie generazioni, circostanza che metodologicamente non sembra idonea, e l’ermetismo non essendo esistito, almeno come denominatore comune – bisogna che altri poeti di pari dignità (qui non si dice di analoghe dimensioni della scrittura, se non per pochissimi, fra i quali Umberto Saba) siano riconosciuti attivi nel primo sessantennio del ventesimo secolo in lingua italiana. D’accordo, la vita operativa di ciascuno dei tre è andata generalmente oltre quel tempo, e le date stanno bene solo al calendario. Né conviene fidarsi delle dichiarazioni di poetica, quantunque ogni scrittore avverta il dovere di farle conoscere.
Del resto, ciascun autore conosce se stesso in breve misura. E ogni proposito viene puntualmente smentito dal risultato dell’arte; tant’è che si generano (ad esempio) le poesie a cannocchiale: l’una appresso all’altra, nella rincorsa ad esprimere quella determinata sensazione che, invece, sempre più a fondo si rintana. In verità, ogni autore è altro da sé; ciascuna opera è diversa da come l’autore riesce a vederla. Perché quello che resta, che vale, è solo quanto ognuno venga a trarne. Io non ne so nulla (saggiamente rispondeva Eugenio Montale): sono soltanto l’autore. Nei fatti, non sappiamo se si stava nel giusto durante il lunghissimo tempo in cui il poema di Dante è apparso privo di interesse; né se Petrarca s’indovinava quando riteneva di avere consegnato ai versi latini il meglio della sua espressione, o se gli attuali studi rivalutati vi conducano)e prose di pensiero del Leopardi allo stesso livello dei suoi Canti. Solamente sappiamo quanto, oggi, ci capita di avvalorarci dell’opera di ognuno.
Questi dell’ultima triade (in ordine d’ingresso: Ungaretti, Montale, Quasimodo) sono comunque riconoscibili maestri di quanti si siano successivamente dedicati alla scrittura delle parole (esclusi, dunque, quelli che scrivono suoni in forma di parole e i telematici) perché diedero segno di come la poesia dovesse scriversi senza maiuscole. Intanto senza le maiuscole dei crepuscolari, iniziarono ad avvicinare la poesia ai suoi lettori, allontanandola dalla letteratura; non solo dalla retorica, dal patriottardismo, dal nazionalismo, dalla magniloquenza. Sognarono e fecero poesia pura: lirica quanto più viene ad essere, insieme, civile; attratta quanto più ci persuade. E quanto il suo oggetto si localizza tanto riesce universale.
Le dichiarazioni di Quasimodo rispecchiano (ed è un’eccezione) la sua poetica. Nel Discorso sulla poesia Quasimodo si appassiona contro i filosofi (che gli appaiono «i nemici naturali dei poeti»: bisogna dire a torto, se non s’intende che sta discorrendo di quelli che presumono di avere definitivamente sistemato il mondo), però siede nell’essenza del proprio lavoro quando ribadisce che la letteratura «si riflette» mentre la poesia «si fa». Ed è vero: stiano i letterati nei loro paludamenti, con mitrie e aureole; decantino, invece, i poeti le voci del tempo, uniscano spazi, ritrovino l’uomo e i suoi miti, la natura femminile e maschile della terra, operando in precisa umiltà, ma nella consapevolezza di offrirsi come trasgressori di forme e di contenuti, come irregolari nei sistemi precostituiti, dunque vittime possibili.
E, ancora, Quasimodo s’incentra nel colmo dei propri significati quando separa le questioni grevi della morale dalla libertà della poesia: nella quale nulla può avere un senso immorale, o morale, ma unicamente poetico (concetto, da tempo, acquisito a proposito delle arti figurative ma tuttora non del tutto penetrato nelle valutazioni della parola scritta). E in quanto è trasgressione, la poesia è libertà; in quanto è creazione, è verità; «non insegnano, i poeti, che a vivere»: forse è questo il valore sociale della poesia (la socialità su cui il poeta insiste e alla quale assegna valore etico).
In noi si scolpisce questo passaggio del Discorso sulla poesia (apparso nel 1956, come appendice a Il falso e vero verde), che individua responsabilità senza limiti: «Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente. E poesia è libertà e verità di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento.» Questo si tentava di indicare: un autore ci appartiene, quale che sia la sua epoca, per la misura di libertà e di verità che per suo tramite riusciamo a riconoscere nel nostro tempo.
Negli «autoritratti critici» (raccolti da Ferdinando Camon nel 1965 nel volume Il mestiere di poeta) Quasimodo teneva a fare evidente questo concetto: «La ricerca di un linguaggio è la ragione principale della poesia.» E avvertiva: non si confonda il linguaggio con la filologia; si distingua la creazione del linguaggio poetico dall’ elaborazione filologica. In tutti e tre i periodi della sua lirica (l’iniziale collegamento stilnovistico, poi quello coevo alla rivisitazione dei classici, infine il periodo della più assoluta laicizzazione) Quasimodo non smise la ricerca (da poeta autentico, non poteva considerarla esaurita) anzi fece costante l’approfondimento dell’espressione nella qualita della parola, una quantità metrica ricca delle proprie risonanze, in contrasto con la qualità dannunziana. Quantità anteriore, in Quasimodo, allo stesso famoso suo accenno «al palo del telegrafo», cioè a un oggetto considerato impoetico. Sta nella sua musica quantitativa la capacità di elevare il canto da situazioni e cose impoetiche; la stessa capacità di rivelare originaria e inalienabile l’intonazione della sua voce. Ciò è in una tale efficienza che fu Quasimodo a dare ai classici, traducendoli, il proprio linguaggio. Lui stesso sapeva «non di una chiarezza ricevuta, ma di una chiarezza data» (intervista a Camon). Questo argomento suggerisce la particolarità del lindore della sua scrittura, che riconduce nell’area del canto pure se intrisa – o forse proprio per questo – delle materialità e delle crisi della sua epoca. Bisogna, riconoscere che il suo dettato diviene canto, perché si fa: crea e si crea, così come, in origine, la poesia era musica per la cetra.
Un’ultima cosa, a chiudere questa premessa a un discorso su Quasimodo. Può dispiacere ad alcuni, che preferiscono gli itinerari consueti (nazionali o di influenza europea); può essere gradita, invece, a quanti vedono la cosiddetta lingua italiana come filiazione di parlate siciliane – pure se (ragionevolmente) non considerano quella che comunemente si chiama letteratura siciliana come una letteratura nazionale, di una nazione Sicilia che in ambito di cultura non vi è mai stata perché sempre si è fatta sintesi e insieme lievito della vita mediterranea – però è utile tentare un’indagine a proposito di quanto derivi (e sia affine) a Quasimodo e quanto alla sua parola, immagine, metafora, si ricolleghi – nel senso della poesia – dentro l’area, sua, mediterranea (quest’altro mondo assai spesso dimenticato, anche da noi stessi che lo respiriamo).
Antonino Cremona
Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 3-6.
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