Consentitemi di dire che il 1992 è per il momento il più grosso successo di pubblicità e di commercializzazione.
Vi confesso che ho lungamente riflettuto su questo successo pubblicitario e devo dire di essere pervenuto alla conclusione che il 1992 non è un evento tanto sconvolgente; solo bisogna attrezzarsi per essere pronti al suo arrivo.
Nel nostro Paese, dove tanto si sta pubblicizzando questa data, ci auguriamo che a furia di parlare finalmente si faccia qualcosa, non per il 1992, ma per quello che avremmo dovuto fare sin dal 1958, data di entrata in vigore dei trattati di Roma. Se alle tante parole spese per enfatizzare questa data seguissero i fatti, ci sarebbe da essere contenti e quasi soddisfatti, ma il nostro è il Paese in genere delle molte chiacchiere e dei pochi fatti.
La data del 1992 ha finito con l’assumere in riferimento a taluni settori (attività industriale, agricoltura, artigianato, commercio, libere professioni) molta importanza, sicché l’Europa del 1992 non è soltanto un traguardo verso cui stanno muovendosi spontaneamente e senza bisogno di alcun intervento le istituzioni del paese Italia e degli altri paesi membri; è piuttosto un grande impegno sociale, la cui completa realizzazione deve convincere e fattivamente coinvolgere operatori, semplici cittadini e professionisti.
Questa partecipazione significa conoscenza, cultura, ma soprattutto coscienza serena ed entusiasta dei risultati che abbiamo a portata di mano. In un mercato di 330 milioni di individui, con il metro, talvolta spietato ma sempre terribilmente obiettivo, della qualità, dell’efficienza e del rispetto dell’uomo, dovremmo confrontarci con altre realtà nazionali, sociali ed intellettuali. Altri Paesi sono molto più avanti di noi, ma il tempo e la capacità di recuperare li abbiamo assolutamente intatti; basta volerli.
L’ampliamento della Comunità alla Spagna, alla Grecia ed al Portogallo, ha fatto aumentare i Paesi inefficienti, ma sempre più ha unito il vecchio continente; 12 Stati non solo hanno tradizioni diverse, ma hanno anche condizioni economiche e sociali che non sono assolutamente equiparabili ed omogenee.
Bisogna adeguare le scelte politiche nazionali in modo tale che l’Italia si adegui all’Europa e non pensare che l’Europa possa adeguarsi all’Italia. In merito desidero fare una riflessione che interessa in particolare il Mezzogiorno d’Italia, e la nostra Isola. Sento sistematicamente dire, quando si parla delle norme del regolamento del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, che l’Europa non tiene conto dei nostri problemi, oppure che le norme sulla concorrenza non ne tengono conto. Allora viene chiaro chiedersi: cosa ha fatto, o sta facendo, il nostro governo per salvaguardare le parti più deboli del Paese?
L’Atto Unico europeo avrebbe dovuto emendare il Trattato di Roma per permettere al Mezzogiorno di godere dei benefici e adeguarlo alla realtà europea. Anche in questo il nostro governo è stato debole, perché la Germania ha fatto in modo che l’Atto Unico europeo si dimenticasse di modificare l’art. 92, paragrafo 2, del Trattato, in base al quale Berlino e le zone di confine delle due Germanie sono zone rispetto alle quali la Germania può assolutamente erogare tutti gli aiuti possibili e immaginabili alle imprese. In effetti, questa era la realtà del 1957, ma nel 1986, al momento dell’Atto Unico, Berlino, certo, non era da paragonare alla Calabria, alla Sicilia o alla Tracia.
In un’Europa in evoluzione, cosa diventa la «questione meridionale» nel momento in cui le distanze non si misurano più con Roma, ma con Francoforte?
Con il 1992, secondo me, esploderà la vera natura della gestione meridionale che non consiste soltanto nel divario dei redditi e dei consumi, quanto nella qualità dell’ambiente sociale, istituzionale,· scientifico, culturale. Dobbiamo operare e lottare perché il Meridione sia parte integrante dell’Europa e non zona emarginata e i meridionali siano cittadini e non sudditi.
I veri problemi, perché il nostro Paese scavalchi le Alpi, sono l’occupazione e il Mezzogiorno. A questo punto mi permetto di dire che ovunque nel nostro Paese si parla della scadenza posta per il 1992 dall’Atto Unico europeo, ma pochi si sono accorti che il primo problema da affrontare, per accogliere appieno le opportunità della nuova fase di costruzione dell’Europa, è proprio quello della diffusione su larga scala di più alti livelli di cultura e, quindi, dell’efficienza del sistema scolastico.
La scuola deve dare agli studenti una qualità formativa più elevata e, comunque, allineata agli standard internazionali più avanzati; essa deve, perciò, rispondere alla sfida della qualità di massa, cioè, assumere come punto critico della propria gestione il problema della produttività, e quindi dell’efficienza.
Fino ad oggi il sistema Italia si è caratterizzato per un vivere alla giornata, senza programmazione, senza quella elevazione culturale che un Paese deve mettere al primo posto per una concorrenzialità bisognosa non solo di innovazione tecnologica, ma di un principio democratico e funzionale, perché oggi la competizione si svolge tra sistemi, più che tra singole imprese.
Ci sostiene in questa affermazione quanto ha detto l’ing. De Benedetti: «I nostri concorrenti tedeschi e giapponesi si muovono su i mercati internazionali avendo accanto a loro le istituzioni, le grandi infrastrutture, i grandi programmi pubblici; in una parola tutto il Paese.
Secondo me, quelle forze che spingono per un ingresso indolore in Europa,
«meno Stato più mercato», sottintendono spesso «niente Stato niente regole» per poter meglio affermare i propri interessi individuali e corporativi, accelerando così i processi di disgregazione sociale ed economica.
Mi sento di affermare che il liberalismo non è una risposta come non lo è il vecchio statalismo.
Da oggi al 1992 l’Italia, se non vuole arrivare dimezzata o in tono minore, deve prendere decisioni grosse, rivolte a una serie di riforme che garantiscano il salto di qualità; il vecchio metodo d’intervento clientelare, e a pioggia, deve trasformarsi in un intervento finalizzato, tenendo presenti le peculiarità delle scelte territoriali del nostro Paese. Bisogna prima di tutto superare l’inefficienza di una Pubblica Amministrazione che si è appropriata sino a tutti gli anni ’70 di nuovi compiti; volendo dare al nostro sistema il definitivo carattere di uno Stato amministrativo, ha messo in moto un processo che ha favorito il rafforzamento dei maggiori gruppi industriali.
Una conferma è offerta dall’analisi dei settori produttivi italiani. Il sistema presenta posizioni di forza nella produzione di beni finali (vestiario, pelletteria, calzature, mobili, attrezzature per la casa, automobili, motocicli, turismo), e nelle produzioni di base collegate alle produzioni di macchine ed a quelle dei prodotti finali (es. acciai ed altre leghe speciali). Questo evidenzia come una parte del Paese è quasi pronta ad entrare in Europa, ma il Sud no, in quanto ha un’industria fatiscente ed un’agricoltura che non è in grado di competere con gli altri Paesi.
La contropartita del processo di sviluppo produttivo e sociale del Nord è costituita dall’incremetnto del debito pubblico e dall’arretratezza del Mezzogiorno.
Entro il 1992 quasi tutte le tecniche adoperate in Italia per il sostegno alle imprese e al Meridione sono destinate a scomparire o perché non compatibili con i principi del grande mercato o perché produrrebbero, nel nuovo ambiente giuridico ed economico dell’Europa, effetti diversi o persino opposti.
In questo quadro i grandi gruppi vertono in condizioni favorevoli, certamente migliori di quelle del passato; parecchie difficoltà si frappongono invece alle medie e piccole imprese. Rischio di cambio, pratiche valutarie, elevati tassi d’interessi sono i loro nemici. Esse sentono la necessità di puntare sul dinamismo e la flessibilità, in quanto quasi tutte ancora a controllo familiare.
Elemento essenziale, allora, è quello di attrezzarci con nuove regole fiscali. Quella della riforma del fisco è una fondamentale battaglia di giustizia sociale ed una chiara battaglia europea, perché un grosso problema è armonizzare i prelievi fiscali. «Meno imposte e più giuste» è il nuovo slogan C.E.E. per il 1992, e la Comunità nel lanciare questo slogan sa che è uno dei passaggi nodali per l’unificazione, in quanto in Europa si passa dalla grande rigidità alla colpevole permissività.
Non possiamo come italiani continuando a ‘colpi di decreto’ risanare la «barca fiscale» che fa acqua da tutte le parti. Ormai per chi non evade o non può evadere le aliquote e i continui balzelli (ultima la TASCAP), stanno diventando insopportabili. Nei limiti in cui queste osservazioni sono esatte, lungi dal creare condizioni effettive di eguaglianza, si rischia di accrescere il divario tra le regioni più ricche e quelle più arretrate. Il che, secondo me, sarebbe di danno non solo per le aree arretrate, ma per l’intera Comunità sotto molti profili: perché disparità sostanziali impedirebbero le ottimali localizzazioni dei fattori, le singole aree territoriali non sarebbero reciprocamente in grado di valorizzare al meglio le loro vocazioni naturali e si determinerebbero controspinte all’ulteriore integrazione.
Si rende perciò indispensabile sin dall’origine, ad evitare errori storici che sono stati commessi e continuano ad essere commessi come, ad esempio, in Italia, nei rapporti nord-sud dopo l’unificazione e sino ai giorni nostri, un cambiamento di rotta: bisogna affermare il principio che l’equalizzazione della capitalizzazione sociale, con riferimento ad ogni parte del territorio della Comunità, è interesse proprio ed obbligo della Comunità stessa.
Solo in tal modo si creerebbero le premesse per un suo sviluppo armonico e libero e si realizzerebbero condizioni di effettiva eguaglianza per tutti i 330 milioni di cittadini comunitari. Il principio enunciato è tutt’altro che semplice sul piano dell’attuazione; esso presuppone una forte ed efficace volontà politica, e questa non si esprime se non attraverso forme organizzative adeguate agli obiettivi e non attraverso continui litigi all’interno del governo e delle maggioranze, e a colpi di voto di fiducia.
Noi dobbiamo scontrarci con una grande realtà, che è l’Europa del ’92, quella Comunità europea che oggi copre il 38% del commercio contro il 15% degli Stati Uniti ed il 9% del Giappone. Dinanzi a questa fortezza e a questi aspetti positivi e negativi, come si presenterà – dal punto di vista geografico – l’ultima regione italiana? Una risposta non è facile, né ho la presunzione, nei limiti delle mie modeste capacità, di dare risposte esaurienti; mi sforzerò solo di fare delle riflessioni.
La prima grande difficoltà viene dal fatto che oggi non possiamo partire da fotografie statiche, ma dinamiche. In questi ultimi anni la nostra Sicilia è cresciuta nei suoi aspetti negativi e positivi; in alcuni settori è diminuita e in altri è aumentata la distanza dall’Europa più avanzata.
Il mercato unico europeo propone tempi duri per il negozietto sotto casa, molto diffuso nella nostra regione. La realtà sovranazionale e le possibilità offerte alla grande distribuzione spingeranno verso un aumento di centri commerciali al dettaglio, quelli con formula «shop in shop», a scapito anche del grande magazzino popolare.
Sino ad ora la data dell’apertura delle frontiere è stata scarsamente considerata con riferimento alle implicazioni ed alle problematiche che scaturiranno per le libere professioni; ma non solo, uno stimolo va fatto agli ordini professionali, perché senza dubbio c’è il rischio di venire condizionati sul mercato da una massiccia presenza di professioni. La realizzazione del mercato unico comporterà numerose modifiche strutturali e innovazioni politiche e istituzionali, ma comporterà necessariamente anche il superamento di squilibri e inefficienze, ed in questo i liberi professionisti forti e qualificati avranno indiscutibilmente un ruolo di primo piano, in particolare in una regione come la nostra che ha bisogno di attrezzarsi ed adeguarsi al passo europeo.
Teniamo, inoltre, in considerazione che il principio del mutuo riconoscimento legislativo comporterà che ogni Paese membro dovrà riconoscere come legittimo e lecito nel proprio ambito ogni atto originato in un altro Paese C.E.E. e che risulti legittimo e lecito secondo la legislazione del Paese d’origine.
Nel campo dell’agricoltura, come meridionale, ma soprattutto come siciliano, ritengo vi debba essere una maggiore attenzione, visto che l’elemento trainante dell’economia di questa Regione è l’agricoltura. L’ingresso nella C.E.E. della Grecia, della Spagna, del Portogallo mette a dura prova la nostra economia agricola, in quanto diretti concorrenti ai nostri prodotti ed in particolare a quelli della Sicilia, specie ora che viviamo una crisi del vino, dei serricoli, dei cereali, delle olive.
La Regione Siciliana piuttosto che affrontare una politica strutturale del settore agricolo ne ha portato avanti una assistenziale e contingente che sicuramente ci farà impattare con un’Europa più evoluta e razionale in uno stato di assoluta inferiorità.
Per ovviare a ciò, necessita migliorare la ricerca scientifica, l’assistenza tecnica e i servizi, bisogna mettere l’università al servizio delle produzioni agricole.
In un mercato per 330 milioni di abitanti non possiamo presentarci solo con il vino da taglio o con una bottiglia di vino per ogni cantina, perché faranno la parte del leone nel mercato europeo, con i loro vini pregiati, i francesi, che sono riusciti ad imporsi nella cultura e nei gusti dell’Europa e del mondo, i nostri connazionali del Settentrione con i loro vini, gli Spagnoli e i Portoghesi, i quali lotteranno per un loro spazio ancora più ampio, mentre alla Sicilia e al trapanese sarà sempre più richiesta l’estirpazione del vigneto.
Ho detto un po’ prima che il tempo e la capacità di recuperare ci sono; bisogna solo che i nostri Governi nazionali e regionali pratichino una politica diversa per evidenziare i pericoli e i rischi che l’unificazione del mercato può contenere per noi, soprattutto per il Mezzogiorno e per le parti meno sviluppate del Paese, e che nel contempo questa unificazione può rappresentare un’occasione da non perdere per rinnovare l’Italia e la Sicilia. L’Assemblea Regionale deve battersi per una legge organica del settore vitivinicolo, deve adottare una linea progressista e di alternativa che voglia una Sicilia non il Sud del Sud Europa, ma una regione che colga l’occasione per recuperare i ritardi storici. Bisogna creare sostegno e immagine al vino siciliano per un rilancio della sua commercializzazione e per un suo effettivo riconoscimento in campo europeo.
Secondo me, è finita l’epoca dell’intervento a pioggia, e della sussistenza; bisogna creare trasporti più agevoli, i nostri aeroporti, e in particolare quello di Trapani, a proposito di vino, non possono essere manufatti belli a guardarsi, ma centri vitali per la vita economica e commerciale della nostra Isola.
Lo zuccheraggio del vino non deve essere praticato in Europa, ancora siamo in tempo; altrimenti ogn{ sforzo troverà un nemico difficile da combattere. Il vino di Trapani, l’uva da tavola di Canicattì, le arance del palermitano o del catanese devono poter disporre delle più alte tecnologie che non possono essere il frutto dei singoli, ma l’impegno della Regione e dello Stato. Per le culture specializzate bisogna non affidarsi più alla sola intelligenza ed esperienza del coltivatore; bisogna un importante laboratorio di analisi (terreni, anticrittogamici, fitosanitari) per consentire agli agricoltori di autocontrollare l’inquinamento e garantire ai consumatori italiani ed europei un prodotto sano, migliore e concorrenziale. Per questo, ripeto, è vitale un aeroporto al servizio della nostra economia.
Noi siciliani, oltre a essere la prima Regione vitivinicola della C.E.E., siamo il primo porto peschereccio d’Italia, ma non riusciamo a trasformare quest’altra grande risorsa naturale in una ricchezza per l’intera popolazione. Anche questo settore si trova in crisi per la mancata politica degli accordi internazionali e per il continuo impoverimento delle risorse naturali determinato dall’eccessivo prelievo, e non basta il solo riposo biologico. C’è bisogno di una seria attività di programmazione e di una ricerca scientifica e tecnologicamente avanzata, come quella che praticano i Giapponesi. Sicché, anche in questo settore, impatteremo con l’Europa senza avere quel minimo di infrastrutture che sono ormai indispensabili per una visione europea del mercato.
Nel campo dell’industria le realtà della nostra Isola, nei confronti dell’Europa evoluta e del nord Italia, sono in grande difficoltà permanente per la crisi della commercializzazione del prodotto. Non ci sono stati sufficienti interventi esterni che per alcuni aspetti, secondo una mia valutazione, e per lo più sono solo serviti a penalizzare di più i nostri prodotti per agevolare quelli del Nord del Paese. Anche per questo settore in Europa arriveremo in crisi.
Il settore marmifero, presente in provincia di Trapani, ha bisogno di adeguare le proprie strutture a questo nuovo grande mercato, e per far ciò deve colmare le differenze che ci sono con Verona e Carrara: ma senza una legge regionale snella, che permetta di lavorare a chi ne ha voglia e capacità, è un settore che almeno nella parte astrattiva va verso la fine, lasciando languire la parte di lavorazione che in questi ultimi tempi ha cercato di adeguarsi alla più moderna meccanizzazione e commercializzazione. Senza il supporto della materia prima in loco, questo tentativo vedrà vanificare gli sforzi per l’inadeguatezza dei mezzi di trasporto, e in questo caso, il porto, struttura che va valorizzata come testa di ponte per il terzo mondo. Il ritorno ad un certo splendore commerciale di Trapani, secondo me, dipende molto dal porto, non come struttura fatiscente, ma come struttura moderna e snella in grado di competere con i più attrezzati porti di seconda grandezza d’Europa.
Il marmo è una ricchezza anch’essa naturale della Sicilia, e di Trapani in particolare, che potrebbe benissimo concorrere al mercato europeo, solo che non può essere lasciato nel più assoluto abbandono, e necessita di apporti tecnologici e programmati che lo facciano diventare, come potenzialmente lo è, una forza trainante dell’economia isolana. A questo punto, mi chiedo: ma è possibile, in un’Europa grande potenza economica mondiale e tecnologicamente evoluta, che non ci sia lo spazio per la nostra Sicilia che possiede grandi potenzialità naturali (agricoltura, pesca, marmo, turismo), e quindi non dipendenti da fattori internazionali, come le industrie di trasformazione? Ritengo che la risposta stia nel modo di governare dei nostri Governi regionali e nazionali che non hanno saputo portare avanti una politica meridionale per l’Europa, affinché tutta l’Italia entri a pieno titolo nell’Europa.
Proprio per questo chiediamo ai nostri governanti delle risposte concrete e che non ripercorrano, in questi anni che ci separano dal ’92, la politica del fallimento pratico di un indirizzo che ci ha allontanati dall’unificazione europea. Non possiamo come siciliani passare dall’illusione dell’industrializzazione del passato a questo tipo di sviluppo. Perciò ritengo oggi di spronare tutte le forze politiche nazionali e regionali, affinché si dica no ad una industrializzazione inquinante, che non trova spazio in Europa, ma ci si batta assieme per un’industria di trasformazione delle nostre risorse ed un’industria ad alta tecnologia che possano trainare la nostra economia e portarci in Europa con il resto del Paese.
La nostra Regione porta in Europa un’immensa ricchezza di beni culturali e ambientali che l’intero mondo ci invidia. Devono essere solo ricchezze da menzionare su libri specializzati e riservate a ristrette comitive di amatori, oppure grandi risorse da utilizzare per il grande pubblico dei 330 milioni quanto è la popolazione europea?
Ritengo che, a quanto detto poc’anzi, vadano aggiunte le bellezze delle località costiere e delle nostre isole. Potenzialmente potremmo diventare un grande polo di attrazione turistica per l’Europa, dal punto di vista balneare, naturale, culturale, archeologico, monumentale, antropologico. In questo campo, però, senza le necessarie infrastrutture e le dovute azioni promozionali, non si arriva al grande pubblico. Quindi bisogna agire, e subito, affinché il più bel parco storico naturale d’Europa venga valorizzato e possa diventare volano di sviluppo economico per l’intero territorio nazionale.
Gli enti locali svolgano un ruolo non secondario in questo avvicinamento all’Europa della nostra Regione. Non siano centri di certificazione o elargitori di una politica clientelare, ma profondi sostenitori di una politica di programmazione che veda la spesa pubblica e gli indirizzi politici finalizzati a creare i servizi e le infrastrutture capaci di accogliere tutte le iniziative pubbliche e private al fine di accelerare ravvicinamento all’Europa. Nell’Europa unita la Sicilia vuole un ruolo degno della sua storia, della sua tradizione, della sua cultura.
In varie parti del mondo si sono affermati o si stanno affermando Stati continentali:U.S.A.,U.R.S.S.,Cina, Giappone, Brasile,India.Altri probabilmente ne sorgeranno nell’aria asiatica. L’Europa è uno spazio continentale. Il conseguimento di una dimensione istituzionale continentale s’impone, e con urgenza, anche per noi. Se fosse diversamente, l’Europa potrebbe subire la stessa sorte delle città-stato italiane che persero la loro indipendenza quando vennero a confronto con gli Stati nazionali. L’Atto Unico assegna la data del 31-12-1992 quale termine per la sua completa attuazione, entro quella data dovranno essere limitate le dogane e con esse dovranno scomparire tutti gli istituti limitativi dei movimenti. L’attuazione dell’Atto Unico è già in corso e sono da attendersi delle accelerazioni.
Fattori propulsivi saranno in particolare il principio del mutuo riconoscimento delle legislazioni e la direttiva sulla liberalizzazione dei capitali. Tutti i Paesi membri avranno il compito di accompagnare le rispettive collettività perché si trovino nelle migliori condizioni al nastro di partenza. Questo richiamo va sollecitato politicamente per il nostro Paese a tutte le forze politiche. L’Europa comunitaria sarà vitale se potrà contare su tutte le energie della collettività che la formano. Come elementi cardine in questo lasso di tempo 1’Italia e i suoi governi dovranno:
a) opporsi a qualsiasi nuova legge che crei disparità in danno dei fattori produttivi nazionali;
b) salvaguardare nel modo più attento l’ambiente giuridico-sociale che ha favorito il fiorire della nostra media e piccola industria e dell’artigianato, che sono una delle doti che l’Italia porta in Europa.
Per fare ciò è essenziale che si introducano meccanismi adatti perché rimanga salvaguardata l’autonomia delle piccole e medie imprese e si renda compatibile il loro sviluppo con la permanenza del controllo familiare. Se le più fiorenti imprese piccole e medie venissero acquistate da grandi gruppi, specie non italiani, potrebbero venire meno parecchi dei benefici che si attendono dall’Atto Unico e si potrebbero ottenere risultati opposti.
Si apre, dunque, non solo per la comunità, ma per tutti i Paesi membri, una fase quasi costituente.
L’Italia oggi si avvale di un sistema particolarmente rigido: ciò richiede tempi più lunghi e grande volontà politica. È quindi necessario partire con anticipo. In questa fase occorre una grande convergenza tra le imprese, i sindacati, i cittadini e le forze politiche.
Oggi la nostra funzione di uomini liberi è quella di spingere per portare tutta l’Italia, compresa la Sicilia, in Europa con l’apporto di tutte le forze autenticamente democratiche ed europeiste.
Certo che non sarà una semplice passeggiata.
Si richiedono ferma determinazione, analisi attente, comportamenti coerenti.
Non resta che metterci al lavoro e guardare al futuro con fiducia come europei, come italiani, e come siciliani.
Enzo Miceli
da “Spiragli”, Anno I, 1989, n. 1, pagg. 37-46.
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