Sull’ironia di N. Martoglio
Vito Titone, L’agro della favola, ed. Centro Servizi Stampa Facoltà di Magistero,
Palermo, 1988, pagg. 130, s.p.
Con il suo consueto stile, che coniuga stringatezza, chiarezza e capacità critico-analitica, il prof. Vito Titone, docente di Lingua e Letteratura italiana dell’Università di Palermo pubblica i risultati della sua ricerca sulla Centona di N. Martoglio.
È un lavoro questo che, ci sembra, consente all’autore, con tipica e pertinente penetrazione, di rappresentarci il complesso mondo martogliano e l’humus che lo sorregge. Un mondo che Vito Titone articola attraverso l’esame dei seguenti temi portanti: società e linguaggio, le suggestioni letterarie, tra eros ed ethos, preludio al teatro.
Certamente, per lo spazio di una semplice e modesta recensione, non possiamo parlare distesamente (come meriterebbe) della fatica di Titone. Non possiamo tuttavia esimerci dall’individuare nel «realismo» e nell’«ironia» del Martoglio la chiave di lettura del saggista, il quale, inoltre, nota anche i limiti ideologici del poeta e drammaturgo siciliano nella mancata occasione di una «vasta dialettica della società isolana» (p. 93).
Il realismo del Martoglio è quello filtrato dall’anima di un poeta che contemporaneamente è uno «scettico razionalista» e un «moralista», «reprensore (e nel contempo difensore) di un atavico costume, che tradisce una certa disposizione ad un’etica solo assai genericamente cristiana» (p. 98).
Da questo campo d’osservazione la «mimesi» dell’artista, sia nella Centona che nell’opera teatrale, non può condursi che attraverso l’ironia, la cui fabula non può che avere il sapore dell’agro (da cui, secondo noi, L’agro della favola), specie se il campo semantico di «agro», pur da radice diversa, abbraccia sia il pungente, l’aspro della satira che la campagna come metafora del popolare.
Ma l’ironia di Martoglio dove il «riso» ha una valenza conoscitiva e non di puro divertimento o di scarica ilare, dice il Titone, si serve di una parola, come delle ipotiposi e delle metonimie, per aderire con mimesis e verosimiglianza al mondo tragico dei catanesi e dei siciliani e renderlo nella vividezza dei suoi contrasti eterni, spesso emblematizzati nella dialettica metafisica di vincitori e vinti per eterno destino.
La mimesis dell’ironia martogliana però non riproduce né il vero né il verosimile come copia fotografica, perché la mimesis non è oggettivo riflesso bensì azione della poiesis dell’artista, così come documenta la morfologia di questi termini che sono diventati cardini paradigmatici della cultura letterario-filosofica occidentale. Né tanto meno il «verosimile» è da tradursi e leggersi come «simile al vero» ma come credibile perché ragionevole nella praxis del poeta che rimpasta la realtà.
Ma l’ironia martogliana non nasce solo dalle tragiche condizioni del mondo siciliano e dall’altrove, dallo spostamento di senso che l’ironia sistematicamente comporta come chiave di lettura e artistica. Essa nasce anche da una convinzione ideo-logica di vedere e rappresentarsi la realtà nella sua contingenza e casualità (forse un inconsapevole precursore letterario della «sfida della complessità»?).
La mimesis martogliana come la realtà è permanente processualità dinamica
e aperta come i processi del «non-equilibrio». «Poeta realista, nel significato più vero della locuzione, Martoglio, paradossalmente, distrugge la realtà nella sua apparenza fenomenica per reinventarla nella sua significatività; e la reinvenzione è affidata ad un interessato processo di costruzione e distruzione. Un processo cioè di accumulamento e di depauperamento di significati, di fissaggio, di amplificazioni e di modificazioni di immagini, di scarti successivi, talora vistosi, talora appena percettibili dei registri linguistici» (p. 125).
Antonino Contiliano
Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 50-51.