Una rilettura in chiave poetica di uno sport a due ruote
I soliloqui del passista. Breve storia del ciclismo in versi di Antonino Cangemi è una raccolta di poesie corredata di brevi note biografiche dedicate ai grandi campioni dello sport su due ruote. L’autore, a cui non manca una buona dose di autoironia, invoca in apertura l’intervento della musa, come un cantastorie dell’antichità classica, affinché lo assista nell’impresa che si accinge a compiere: «Cantami o diva / lo stridore dei tubolari / sull’asfalto / la leggenda popolare / di storie vecchie e nuove».
Cangemi affida alla sublimazione letteraria uno sport che inaspettatamente si rivela permeabile a una profonda rilettura in chiave poetica e leggendaria. E questo in virtù soprattutto della particolare natura della disciplina che, nata povera e lontana dai fasti degli sport più alla moda, conserva tuttora un fascino impagabile derivante non solo dalla fatica smisurata che mette a nudo l’umanità dei suoi novelli eroi, ma anche dal contatto con lo scenario naturale che le fa da sfondo, di cui essa mette in risalto la bellezza suggestiva, spesso ancora selvaggia e incontaminata.
Le note biografiche accompagnano di pari passo i ritratti poetici, completando e illuminando con rara arguzia situazioni e caratteri. Ampio spazio è dedicato alla figura di Coppi, alla sua rivalità con Bartali e all’amore travagliato con la «dama bianca», di cui furono piene le cronache rosa degli anni Cinquanta. Coppi incarnò il mito del ciclismo. Proprio nella poesia a lui intitolata, il personaggio reale sembra volutamente eclissarsi per cedere il passo al mito, felicemente reso dall’Autore nell’immagine dell’uomo che «si lasciava guardare negli occhi / nessuno osava a quel punto parlare / gli occhi che videro – gli ultimi occhi – / su quei tornanti Coppi arrivare». Gioco sottile di specchi che insinua atmosfere surreali di dialoghi muti fra anime.
Cangemi non dimentica nessuno, neanche i gregari e i cronisti del Giro. E neppure la pioniera del ciclismo femminile, Alfonsina Strada, «paladina remota / di nobile causa / un giorno proclami / s’alzeranno nel cielo / uguali diritti / tra uomini e donne / stessi poteri / a chi porta le gonne». Eroica, perché vinse 36 corse contro ciclisti di sesso maschile e nel ’24, già in pieno fascismo, le fu consentito di partecipare al suo unico Giro d’Italia, figurando fra i 30 su 90 partecipanti che riuscirono a completarlo.
Gli anni Sessanta vedono il trionfo di un altro eroe leggendario del ciclismo italiano, Felice Gimondi: «vanitoso e fiero / come una donna / sul viale di Sanremo / mentre la folla / che tanto l’ amava / lo inondava di fiori». Poi, nel decennio successivo, il fenomeno del doping giunge a gettare ombre inquietanti sul binomio ciclismo-poesia, contaminandolo e affliggendolo fino ai giorni nostri con i suoi risvolti tutt’altro che sublimi ed eroici.
Riuscirà il ciclismo a vincere il confronto con le tentazioni sempre più invadenti di una gloria effimera e di basso profilo? È questa la domanda che si pone il poeta, lasciando però spazio, nell’ultima lirica (quella dedicata a Damiano Cunego) alla luce della speranza: «chiediamo di più / la vittoria senza inganno / siringhe o pastiglie / il volto pulito / sporco di sudore / d’eterno ragazzo».
Brigida Fagone
Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 58-59.
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