Le cronache di cent’anni fa non ci informano se, la notte del 20 agosto 1890, gli astronomi avessero notato qualche spaventoso fenomeno celeste. Comunque, le streghe superstiti dai roghi dei secoli precedenti dovevano essersi riunite in un frenetico sabba attorno alla casa n. 454 di Angel Street, a Providence, nello Stato di Rhode Island. Qui, infatti, stava per venire alla luce Howard Phillips Lovecraft, certamente il più grande evocatore di spettri e misteriose angosce.
Una fotografia di un paio di anni dopo ce lo mostra nelle vesti, secondo le usanze del tempo, di una graziosa bambina. Nulla lascerebbe presagire che quel bimbo dai folti boccoli biondi1 sarebbe diventato un brutto adulto che, a causa della mascella fortemente prognata, sembrava la reincarnazione dei Borboni di Spagna così bene immortalati da Velazquez2, e il genitore incontrastato della moderna letteratura del terrore.
Ma la sua vicenda umana e artistica merita certamente qualche cosa in più dei soliti brevi cenni che si riservano agli scrittori di “genere”. Lovecraft è altrimenti noto come “il solitario di Providence”; pure nella sua breve vita3 riuscì a produrre una sterminata corrispondenza. Con le sue centomila lettere. inviate un po’ in tutti gli Stati Uniti. lo si può considerare, fino a prova contraria. il più grande epistolografo di tutti i tempi: l’epistolario di Voltaire ammonta a soltanto ventimila lettere4.
A proposito della sua autentica passione per i contatta epistolari, vale la pena di citare il commosso ricordo di un suo caro amico, Samuel Loveman: “Un semplice biglietto /… / poteva evocare / da parte di Lovecraftl risposte di quaranta o cinquantanta pagine fitte. Erano lettere davvero stupende: si facevano leggere di un fiato, rivelavano un’erudizione prodigiosa e una grande umanità”5.
Proprio la sua grande erudizione e una totale incapacità di dedicarsi ad attività produttive hanno imposto l’immagine di un Lovecraft simile ai personaggi creati dalla sua fervida e stralunata fantasia6. Eppure egli sapeva anche godere delle piccole gioie che le sue misere finanze gli permettevano7. Se la golosità si può considerare una bizzarria, tra le tante di Lovecraft va annoverata anche la passione – che l’accomuna a Leopardi, un altro grande infelice della letteratura – per i gelati. Se la spietata e ciclica ristrutturazione urbanistica statunitense ha lasciato ancora in piedi la gelateria di Julia Maxwell, a Warren, su un muro della stessa gelateria ci deve essere ancora appeso l’attestato che afferma che Lovecraft aveva assaggiato in un tranquillo pomeriggio tutti i ventisei gusti disponibili8.
Le concessioni politiche di Lovecraft erano per lo meno originali. Provava un’assoluta fedeltà per la vecchia Gran Bretagna, e biasimava con estrema energia la Rivoluzione Americana: “Quando James Ferdinand I Morton, nipote dell’autore di My Country ‘tis of Thee / ed io sostammo davanti alla tomba del soldato rivoluzionario che cadde per primo in quella memorabile e deplorevole circostanza / la battaglia di Lexington/, mi tolsi il cappello e chinai la testa. ‘Possano perire così tutti i nemici di Sua Maestà Re Giorgio Terzo’, gridai”9.
A queste pulsioni nettamente reazionarie Lovecraft univa un non ben comprensibile interesse, del tutto accademico, per il New Deal. Per un periodo di sei o sette anni trattò questo argomento per lettera con Ernest A. Edkins, che così ci illumina: «Le congetture di Lovecraft prevedevano adeguati compensi per gentiluomini e studiosi indigenti, generose elargizioni alla classe contadina più povera, consistenti aiuti economici per coloro che desiderassero dedicarsi alle arti e alle scienze, un severo esame che verificasse chi potesse usufruire o meno del diritto di voto, e, infine, la graduale sostituzione dell’attuale “aristocrazia della ricchezza” con un'”aristocrazia dell’intelligenza”»10.
È evidente che Lovecraft dava una grande importanza alla valorizzazione del ruolo degli intellettuali, e considerava positivamente un governo essenzialmente paternalistico, costituito da leader che appartenevano a un ceto destinato per nascita a comandare, da lui ritenuto “un’autentica dittatura dell’intelligenza anzicché del proletariato”11.
Lovecraft, come chiaramente spiegano Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, “era un ‘materialista meccanicista’, refrattario ad ogni forma manifesta d’inclinazione verso la spiritualità, l’animismo, il sentimento religioso, e spiegava questo atteggiamento dicendo che, poiché il mondo è puro caos privo d’ordine, non è possibile postulare entità trascendenti ordinatrici dell’essere”12.
Il Nostro – che aveva mille e una ragione per non amare il mondo in cui era costretto a vivere – sembra confermare un’affermazione di Mircea Eliade: «si indovina nella letteratura, ancor più che nelle altre arti, una rivolta contro il tempo storico, il desiderio di accedere ad altri ritmi temporali diversi da quello in cui si è costretti a vivere e lavorare»13. I mostri evocati da Lovecraft nelle sue opere sembrano quindi avere il compito di riordinare la realtà, o, meglio, di giustificare l’altrimenti inspiegabile disordine. Per de Turris e Fusco. “L’elemento costante della sua narrativa è la ricerca di punti fermi nell’instabilità del caos universale”14.
Ha perciò ragione Giorgio Galli quando afferma che «Lovecraft ha capito che la storia della terra come frammento del cosmo è vecchia di decine di milioni di anni, che l’umanità è solo una delle forme di vita intellettiva che vi si sono sviluppate. Ma la sua percezione esistenziale di questo passato è pervasa di orrore»15. Ma non si può più seguire il brillante politologo milanese quando sentenzia: «La paura del diverso lo domina, così come lo domina la paura del diverso specifico che è la donna (il suo matrimonio fu ovviamente un fallimento: così egli stesso lo definisce)»16. Ma era essenzialmente la paura di se stesso che perseguitava il solitario di Providence. Lovecraft si percepiva infatti proprio come un diverso. Un’isola arcaica spuntata per caso nel gran mare della modernità, o, per rubare un’espressione a de Turris e Fusco, «un nucleo di materia ostinata che non si dissolve nell’acqua corrosiva del caos»17.
Il fallimento del suo matrimonio fu dovuto soprattutto a insanabili problemi economici, come ci dice, con ‘fastidiosa’ abbondanza di particolari e ansia autogiustificativa, la sua stessa moglie18. Possiamo anzi pensare che la separazione non sia stata causata dal “terrore della donna relegata ad un ruolo subalterno e demoniaco”19, ma piuttosto dall’esatto contrario: Lovecraft non riusciva a concepire la mascolinizzazione della donna20. Non poteva farsi mantenere da sua moglie21. Aveva, insomma, una concessione del tutto romantica (piccolo borghese, se vogliamo) della femminilità e della famiglia. Chissà quali mostri avrebbe partorito la sua fantasia, se gli fosse stato concesso di vivere in questa nostra epoca post-femminista?
Gaetano Radice
1. Lovecraft «portò i capelli come una femminuccia fino a circa sei anni. Quando finalmente non volle più saperne e s’impuntò perché glieli tagliassero, sua madre lo portò da un barbiere, piangendo amaramente perché le forbici ‘crudeli’ l’avevano privata I sic I degli adorati boccoli». Sonia H. Davis, moglie divorziata di H.P.L., The Private Life of H.P. Lovecraft, manoscritto custodito alla John Hay Library della Bruwn University, Providence; ora, in traduzione italiana di Claudio De Nardi, in AA. VV., Vita Privata di H.P. LovecraJt, Trieste, Reverdito Ed.1987.
2. «Howard attribuiva la sua attuale fisionomia I… I a due incidenti: il primo si riferiva ad una caduta con la bicicletta, allorché aveva quindici o sedici anni l . .. I, il secondo era dovuto al fatto che aveva trascorso moltissime notti a scrutare il cielo e le stelle con il suo telescopio». Ibid.
3. Morì il 15 marzo 1937, a quarantasei anni, forse per un tumore intestinale.
4. Fino a oggi l’Arkham House ha pubblicato cinque volumi di Selected Letters, e il professor S. T. Joshi ha curato un libretto di Uncollected Letters.
5. Samuel Loveman, H.P. Lovecraft, ora in trad. it., op. cit.
6. «Era / … / privo di ogni interesse nei confronti di cose come la solidità economica, il lavoro, la posizione sociale, quindi in netto contrasto con lo spirito puritano della Nuova Inghilterra». Gianfranco de Turria e Sebastiano Fusco, A posteriori, -Linus», luglio 1981. Cfr. anche di Fusco e de Turris il fondamentale Lovecraft, Firenze, la Nuova Italia, 1979.
7. «Le sue entrate erano ridotte praticamente a zero ed era costretto a vivere con venti centesimi al giorno /si parla dei tardi anni venti/: anzicché impiegarli per mangiare, di solito li spendeva in francobolli». W. Paul Cook, H.P. Lovecraft: An Appreciation, trad. it. op. cit.; Cfr. anche la nota 20.
8. Donald Wandrei, Lovecraft in Providence, trad. it., op. cit.
9. Samuel Loveman, op. cit.
10. Ernest A. Edkins, Idiosyncrasies of H.P.L., Trad. it., op. cit.
11. W. Paul Cook, op. cit.
12. Gianfranco de Turris / Sebastiano Fusco, op. cit.
13. Mircea Eliade, Mito e Realtà, Milano, Rusconi, 1978.
14. Op. cit.
15. Giorgio Galli, Le Coincidenze, Linus, aprile 1981.
16. Ibid.
17. Op. cit.
18. Sonia H. Davis., op. cit.
19. Giorgio Galli, op. cit.
20. Circa i difficili rapporti di H.P.L. con la madre Susan, cfr. M. W. Vita Privata di H.P. Lovecraft, op. cit. passim; e G. de Turris c S. Fusco, Lovecraft. op. cit.
21. «Non solo gli inviavo settimanalmente degli assegni, ma ogni volta che tornavo in città gli davo abbastanza denaro perché non dovesse rinunciare né ai pasti, né ad alcunché gli potesse servire» (Sonia H. Davis, op. cit.).
Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 30-33
Lascia un commento