Luigi Tenco. A venticinque anni dalla morte
“Signore e signori buona sera, diamo inizio alla seconda serata con una nota di mestizia per il triste evento che ha colpito una valoroso rappresentante del mondo della canzone. Anche questa sera per presentare le canzoni è con me Renata Mauro.
Allora, Renata, chi è il primo cantante di questa sera?”. Così, il ventotto gennaio di venticinque anni fa, il presentatore per antonomasia, Mike Bongiorno, posteggiava impudicamente nell’inconscio collettivo degli italiani la vita di Luigi Tenco, e il gesto disperato (o profetico?) che quella vita aveva concluso.
La notte precedente, una pallottola calibro 7,65 br., uscita dalla canna di una Mauser PPK – la piccola, magnifica semiautomatica dei poliziotti tedeschi – aveva ruotato nel suo cranio purgandolo per sempre dai pensieri molesti. Questi i fatti: troppo noti per insistervi ancora. Sulla ridda di commenti a caldo e a freddo, sul corpo riportato dall’obitorio alla tragica camera per soddisfare i fotografi ansiosi di macabro sensazionalismo stendiamo un velo pietoso. C’è comunque da stupirsi che i numerosi poliziotti lì convenuti fossero così impegnati a esaudire le richieste dei giornalisti e discografici da non osservare che “il foro d’entrata era posto non ‘nella tempia’ ma dietro il mastoide destro, leggermente sopra il padiglione auricolare, e quello d’uscita nella regione frontale sinistra; una posizione anomala per un suicida, come asserisce più di un criminologo.” (Aldo Fegatelli, Luigi Tenco, Lato Side Editori, Roma 1982).
A onta del cinismo mostrato nell’occasione e poi ampiamente ribadito dagli addetti ai lavori, le canzoni di Tenco restano una scoperta rigorosamente privata, un momento di crescita, a volte un’autentica rivelazione, per ogni generazione che si affaccia nel mondo della musica.
Nonostante la fretta con cui le sinistre si impossessarono del cadavere per farlo applaudire al suono di Bella, ciao eppure è ben noto come avesse usato le sue mani (da musicista, ma non proprio diafane), con la feroce dignità che possono esibire solo i timidi che hanno troppa paura di avere paura, per difendere un giornalista di destra sopraffatto dal coraggio del numero -, per la gente semplice – gli infiniti samaritani che non hanno il tempo per lacerarsi il frac sulla “Gazzetta di Gerico” e “Il corriere di Gerusalemme”, magari perché impegnati a lenire le ferite inferte da chi ha preso troppo sul serio certe indignazioni – Tenco è rimasto come la figura dolente di un figliuol prodigo che ha speso a piene marti i numerosi talenti affidatigli: e che poi ha scelto di tornare al Padre, prima che i porci che aveva sfamato lo divorassero.
Una tale considerazione agiografica pare quasi inspiegabile se rivolta a un pur bravo cantautore che ha prodotto solo alcune notevolissime canzoni d’amore e alcune (in genere mediocri) canzoni impegnate. Pure in questa visione frementemente affettuosa si inserisce la toccante canzone, Preghiera in gennaio, di Fabrizio De André; il quale sembra addirittura volgarizzare poeticamente (” … non c’è l’inferno / nel mondo del buon Dio”) le tesi esposte con rigore teologico da Hans Urs von Balthasar.
Un fatto è comunque certo: Tenco resta austeramente fuori dal novero dei musici caduti lungo la strada del successo. I pur mitici, angosciati e angoscianti Jimy Hendrix e Janis Joplin paiono soprattutto vittime dei loro vizi e del distruttivo american way of life. Il tragico gesto che ha spento la vita del nostro cantautore sembra invece motivato dall’incommensurabile disperazione di bambino bocciato agli esami; ed è per questo che continua a suscitare compassione (nel senso etimologico del termine). Nel contempo non si riesce a non accomunare quella dolente figura con quelle ben più grandi di autentici poeti come André Chénier e Robert Brasillach, figure di giovani che si sono trovati tragicamente in contrasto con le idee correnti dei loro anni.
Proprio perché il paragone con i due poeti francesi appare azzardato, è invalso anche l’uso di stabilire un parallelo, anche per le comuni origini piemontesi, tra il cantautore di Cassine (Alessandria) e Cesare Pavese. A noi pare più calzante invece confrontarlo con un altro grande scrittore piemontese: Beppe Fenoglio. Le affinità sono quasi sconvolgenti: i famigliari di Luigi Tenco commerciavano vini all’ingrosso, e presso una ditta di virti aveva trovato stabile impiego il “solitario di Alba”. Identico è il fallimento negli studi universitari dopo una brillantissima carriera liceale. E per frequentare l’università Fenoglio era sceso a Genova. la città che adottò bambino Tenco. “La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti….. si lamentava l’autore del Partigiano Johnny, e allo stesso lavoro di lima Tenco sottoponeva le sue canzoni; Ciao amore ciao, cantata quel tragico ventisette gennaio, ha avuto certamente tre versioni prima dell’ultimo rifacimento. Il tema di questa canzone, che narra l’abbandono dei campi per la tentacolare città, ha un’affinità straordinaria con l’unico soggetto cinematografico (mai realizzato e pubblicato postumo) di Beppe Fenoglio. Anche Tenco teneva nel cassetto una sceneggiatura e alcuni racconti. Ma, oltre a queste somiglianze esteriori, quello che accomuna veramente i due piemontesi ci sembra l’identico sentire morale, la stessa etica austera – da pastore valdese -,la stessa tensione partecipativa, quel desiderio pungente di essere presenti alle vicende storiche della loro patria; e poi quel sarcasmo amaro (che denuncia un autentico disagio fisico) contro il perbenismo, la boriosa atteggiata mezzasapienza.
Anche alla luce di quanto appena detto, Luigi Tenco rimane ancora, con le sue contraddizioni e le sue utopie, un dramma irrisolto nel profondo delle nostre coscienze, una continua domanda a cui non è possibile (e neppure sarebbe onesto) opporre delle risposte prefabbricate. Una sola speranza: che sia il silenzio a cullarne la memoria, perché, come lui cantava, ” … nel mondo c’è già tanta gente / che parla, parla, parla sempre / che pretende di farsi sentire / e non ha niente da dire.”
Gaetano Radice
Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 73-75.