Marcello Veneziani, Processo all’Occidente, Sugarco Ed., Milano, 1990, pagg. 284
Hegel scrisse, nella poco decifrabile Fenomenologia dello Spirito, che la Storia si era definitivamente arrestata nel 1806 a Jena. La vittoria delle armi napoleoniche sulle truppe prussiane, secondo il grande pensatore tedesco, aveva dato un irreversibile assetto al mondo. Pure nove anni dopo la battaglia di Waterloo rimetteva in movimento la Storia, smentendo l’affrettata profezia.
Ora, quasi duecento anni dopo, un articolo pubblicato sul «National Interest» ha rimesso in auge l’idea che la Storia possa subire (anzi, che abbia già subito) un brusco, e questa volta definitivo, stop. Autore dell’articolo è Francis Fukuyama, già prestigioso ricercatore alla Rand Corporation, e adesso cervello pensante dell’amministrazione Bush.
Naturalmente, il dottor Fukuyama non sostiene che tutti i conflitti sono scomparsi dalla faccia della terra: semplicemente osserva che con la caduta dei regimi dell’Est è sparita l’ultima antitesi ideologica «nell’ambito delle idee e delle coscienze» al liberalismo occidentale.
A questa previsione si oppone il denso saggio di Marcello Veneziani che denuncia l’intima angoscia che gli suscita la prospettiva di assistere alla planetarizzazione dell’american way of life. E il verdetto a cui perviene il suo Processo all’Occidente è duro (e persino scontato): «…la società occidentale è caratterizzata da un gigantesco processo di alienazione. Alienazione come perdita della propria identità, alienazione come estraniazione dell’ambiente in cui vive e come degradazione dell!ecosistema in cui è inserito, alienazione come disintegrazione comunitaria e come spaesamento nel senso heideggeriano dell’espressione, alienazione come sfruttamento e dunque espropriazione del proprio lavoro, alienazione come mercificazione dell’uomo e in definitiva come riduzione dell’uomo da fine a mezzo».
Per Veneziani «L’Occidente finisce di essere una terra, per divenire un tempo (la sottolineatura è dell’Autore, N.d.r.) senza confini spaziali, smisurato, consacrato solo al tempo e alle sue categorie: il processo, l’usura, l’obsolescenza, il potere temporale». Con Mircea Eliade, il giovane autore osserva che «l’uomo secolarizzato, si crede o si vuole ateo, areligioso, o almeno indifferente. Ma si sbaglia. Non è ancora riuscito ad abolire l’homo religiosus che è in lui: egli ha soppresso (se mai lo è stato) il christianus. / … / egli è rimasto ‘pagano’ senza saperlo». La perdita della comprensione dei valori religiosi «ha portato», come dice il compianto professor Del Noce nella prefazione, «alla conseguenza estrema il processo di alienazione. La scomparsa della religione con la reificazione dell’uomo. / … / l’eclissi della religione non ha prodotto la fine dell’alienazione, ma la sua estensione». La cacciata di Dio dal mondo ha dunque prodotto l’irruzione d’infiniti dèi gelosi. Secondo Veneziani: «Noi tributiamo sacrifici quotidiani di sangue ai nuovi dèi del Progresso, della Velocità, della Tecnica, del Godimento, della Vacanza, della Droga, degli Affari» (Le maiscuole sono dell’Autore, N.d.r.). Quindi, «l’Occidente», sostiene Veneziani, «vive nella dimensione ludica e angosciante di massa quel che Nietzsche visse nella dimensione tragica ed ebbra di una solitudine inelusa».
La penna del giovane intellettuale pugliese non si limita a tratteggiare le cupe prospettive di un futuro/presente, ma delinea anche in un intenso capitolo lo strano fascino la sconfitta e i vinti esercitano, da Omero a Canetti, su alcuni tipi umani. L’ «insana» passione per la parte perdente non è solo l’inseguimento della «Giustizia, questa-, come scrisse Simone Weil, «eterna fuggitiva dal campo dei vincitori». È anche un modo per imprimere un moto ascendente alla realtà: «si fa la storia contraddicendola (la sottolineatura è ancora dell’Autore, N.d.r.) rimettendo in gioco ciò che pare acquisito, restituendo relatività e provvisorietà a ciò che pare definitivamente raggiunto e stabilito».
Proprio in questo importante e intenso capitolo si contano alcune banali sviste: come attribuire a Epaminonda il sacrificio e la gloria delle Termopili, o armare il mitico Longino di una spada anziché di una lancia. Già che siamo in tema di errori: non si comprende perché Juan Donoso Cortés venga privato del legittimo accento acuto. L’errore risulta ancor più assurdo perché quando si tratta di Hernàn Cortés – il conquistatore dell’impero azteco, per intenderci – si ristabilisce l’esatta grafia.
Ma, refusi a parte, quello che risulta meno convincente di tutto il documentato volume si palesa proprio quando Veneziani si decide a offrire delle alternative all’americanizzazione forzata. Le soluzioni (socialismo tri o multicolore, movimenti ambientalisti, reviviscenza dei localismi, ecc.) paiono proposte più per non sbarrare la porta alla speranza che per un’autentica convinzione. E, a confermarci che lo stesso Veneziani è ben consapevole di questo, possono bastarci alcune sue parole: «il risveglio delle etnie e delle appartenenze culturali-religiose non avviene con uno spontaneo rifiorire di sentimenti, pulsioni e valori originari, ma si presenta mediato culturalmente e in molti casi anche ideologicamente: così come, del resto, l’ecologismo non è tanto un’esplosione genuina, elementare, del bisogno di vivere secondo natura, ma esso stesso è il frutto di mediazioni e di sollecitazioni per analogia e per reazione, di tipo culturale, intellettuale e ideologico che nascono in seno della modernità».
Concordiamo pienamente con Venezioni nel ritenere il «socialismo individualistico / .. ./ una contraddizione di termini», ma l’idea di «un socialismo spiritualistico e religioso» ci fa tornare alla mente le manie, non del tutto innocenti, dei sansimoniani Enfantin e Bazard.
La parte che ci pare più coerente e costruttiva è quindi l’ultimo capitolo, interamente dedicato all’analisi dell’indubbio risveglio religioso degli ultimi anni. Veneziani pensa, anzi, che «ci sono fenomeni di persistenza (la sottolineatura è dell’Autore, N.d.r.) religiosa che non sono definibili sotto l’etichetta del risveglio perché in realtà non si sono mai assopiti». Si può quindi sperare di tornare da «una civiltà [che] si misura dalla capacità di attuare il dolore, agevolare il tempo, consentire l’autosufficiente solitudine e ritardare la morte [a] una civiltà alla luce del sacro [che] si misura dalla capacità di addomesticare la morte, il tempo, la solitudine e il dolore».
Gaetano Radice
Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 49-51.
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