Garibaldi e…«il governo di spoliazione»
Gli studi di storia patria, che in questi anni vedono una fioritura un po’ dappertutto, hanno spesso una peculiarità: quella di dire in tutta buona fede e con coraggio ciò che altri studi storici di ben più ampio respiro non dicono e, anzi, fanno di tutto per affossare la verità. Basta dare uno sguardo ai libri di testo per rendersi conto che il capitolo dell’unità d’Italia, per esempio, è trattato con molta enfasi adulatoria dei vincitori, e Garibaldi è l’eroe venuto a dare libertà e giustizia, non il mezzo di cui i nuovi padroni si servirono per impinguare e ingrandire il Piemonte.
Garibaldi a Marineo (con il Diario di Antonino Salerno, 1848-1882), edito da ISSPE di Palermo nel 2011, di Ciro Spataro ha il merito di rievocare persone che ebbero un ruolo di primo piano nell’impresa, e fatti successivi allo sbarco e alla conquista di Garibaldi avvenuti a Marineo e dintorni, teatro di scontri e di battaglie decisivi per le sorti future. E, ancora, il libro riporta qualcosa in più: la delusione, che trapela forte dallo scritto di Antonino Salerno, di quanti avevano sperato di vivere in un futuro migliore. Sulle prime, il libro non lo dà a vedere, e l’impressione è quella di una semplice rievocazione.
A parte i liberali più noti (Giuseppe, Calderone, Rosolino Pilo, Giuseppe La Masa, G. Cesare Abba), sono tanti i popolani ricordati che agirono dietro la spinta di promesse mai mantenute, e tanti quelli che sperarono di veder realizzato il sogno secolare dei Siciliani di avere una Sicilia autonoma, così come ci furono anche quelli che si fecero garibaldini perché non poterono farne a meno, spinti dai proprietari terrieri per i quali valeva la norma del cambiare per non cambiare niente.
“Documenti e testimonianze” corredano la narrazione che tiene conto degli invasori e dei loro sostenitori; gli altri non c’è motivo per essere ricordati: sono nemici da combattere o, tutt’al più, briganti che vanno stanati e uccisi in modo esemplare. Ci volle un bel po’ per capire che si trattava di protesta sociale e non di brigantaggio. Ma ai Piemontesi non interessò la differenza, l’una valeva l’altro, e furono combattuti non con una legislazione adeguata ma con le armi, seminando sangue e terrore. Nel vuoto che si era creato nel passaggio dal Borbone al Savoia, ci furono i profittatori che agivano per tornaconto, come Santo Mele citato, che non vanno confusi con i protestatari si- lenziosi delle vessazioni, delle esosità delle tasse, delle famiglie penalizzate dalla coscrizione obbligatoria introdotta dal Savoia.
Altro aspetto molto indicativo, ri- portato nel libro di Ciro Spataro, è dato dal prospetto dei risultati plebiscitari del 21 ottobre del 1860. I comuni del palermitano, ad eccezione di Palermo con 20 votanti No, risultarono favore- voli al 100% all’annessione.
Evidente, ed è risaputo, che si trattò di un plebiscito-falsa, voluto per giu- stificare l’invasione del Regno delle Due Sicilie, da parte di Vittorio Ema- nuele II. Si votò senza alcuna garanzia per Francesco II e, tanto meno, per la libertà di voto. I votanti erano guardati a vista e tante furono le minacce e le bastonate per coloro che avrebbero vo- luto votare o votarono No. Moltissimi i non votanti le cui schede furono re- golarmente utilizzate per il Si. Eppure, di questo non se ne parla e si fa finta di niente; si preferisce la retorica, come se tutto fosse stato rose e fiori, voluto dal popolo osannante, quando invece esso aveva ben altro a cui pensare!
La realtà fu più palese qualche anno dopo, quando, spenti i fumi della con- quista, ci si rese conto che il nuovo governo «era andato avanti a colpi di decreti scontentando non solo gli auto- nomisti ma anche i veterani reduci del- le spedizioni del 1848 e del 1860». Qui Spataro cita Salvatore Costanza: «Alle promesse non erano seguiti i fatti: né terra per i contadini né benessere per i ceti produttivi delle città; né libertà ed autonomia per la Sicilia come ave- va reclamato l’intellettualità isolana, schierata quasi tutta sul terreno auto- nomistico. Anzi erano arrivati i funzionari piemontesi a uniformare le leggi, a imporre più tasse, a reclutare la leva».
Il “diario” di Antonino Salerno offre uno spaccato della realtà dei fatti vissuti da vicino, da liberale convinto e votato alla causa del re piemontese, seguace di Garibaldi che aveva interesse a coinvol- gere persone leali come lui per raggiun- gere il suo scopo senza riguardo per le sorti delle popolazioni. Lo denuncia Salerno nel suo scritto che riporta fe- delmente lo stato d’animo degli uomini del tempo nel passaggio da un governo ad un altro, dal sogno delle aspettazioni alla cruda realtà in cui essi nel giro di pochi anni vennero a trovarsi.
Antonino Salerno è il cronista della sua vicenda personale che, però, riflet- te quella collettiva delle popolazioni del Sud. Egli si aspettava chissà che cosa e, invece, non fu integrato nel co- stituente esercito e non fu risarcito dei suoi beni andati a malora. Il rifiuto del
1862 a Garibaldi nasce da questo scon- tento non tanto da un ripensamento della scelta a suo tempo fatta. Scrive:
«… io era alquanto scannaliato di avere fatto parte dell’armata e spedizione per la Calabria al ‘48 e al ‘60, che ben mi ho ravveduto essere ingannata la Sicilia; come tali, non intendo in nessun conto per fare parte a questa armata,sino an- che mo alzassero al grado di Generale, perché sembrami che l’inganno siegue più dippiù del passato».
C’è, nel “diario” dell’ex combattente la delusione che fu propria delle popo- lazioni che si trovarono soggiogate da un altro governo e disagiate ancora di più nella loro quotidianità. Ed esse che non avevano mai conosciuto l’emigra- zione («Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale») diedero inizio alla diaspora, prima nel Nord, poi nelle Americhe. Maltrattate e derubate, mentre i loro beni rubati e confiscati andavano ad impinguire le casse del nuovo Stato che li investiva ad uso e consumo dei nordici.
Con quale spudoratezza Bossi e la Lega dicono male del Sud, quando tuttora i Meridionali la ricchezza del Nord?
Ugo Carruba
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