Un povero siciliano

Nato da genitori siciliani Mario non conosceva la Sicilia. Il viaggio verso l’isola pertanto gli aveva messo in corpo una trepidazione mista di paura e di speranza. A pari di un animale smarrito, che cerchi di riconoscere il suo branco dal colore della pelle, Mario era dominata dal terrore di non riconoscersi nei suoi conterranei. D’altra parte lo incitava la speranza: quasi che risalendo il corso di fiumi a lui sconosciuti potesse risalire parimenti le vene della sua anima; scoprendo l’isola, scoprire se stesso. Giaccché egli si illudeva di poter ora trovare la ragione dei suoi difetti, delle sue inibizioni, che il tempo della prigionia in Germania aveva fatto affiorare lentamente come fiori acquatici, fissandone l’origine nel colore della sua terra, del mare; nella luce del cielo, nel suono delle voci dei siciliani. La vita avrebbe potuto proseguire intera, pensava, più libera. Forse sarebbe cessata quella sorta di umana solitudine in cui a Mario sembrava di procedere nel mondo.

Man mano che il treno avanzava nell’interno egli guardava tuttavia diffidente il profilarsi delle colline. Le colline erano a forma di dune, e i campi di grano pieni di sole; coltivati sino allaa sommità rotonda, con per sfondo il cielo. L’azzurro di questo si trovava unito dappertutto con il giallo biondo del grano. E il poco verde, che tentava in ordinati filari di arrampicarsi sui costoni, come non ci fosse altra terra, era sommerso da quei campi di messi. Il cielo invece, mancando gli alberi alti quali i cipressi e gli olmi che lo innalzassero e lo animassero, era lì, avvicinato, reso piatto dalla terra liscia e umile, custodito da esso come in una cappa amorosa. A volte la terra aveva una cre pa; e allora affiorava prepotente, scagliosa, al pari delle case che si incastravano tra il mare invadente delle spighe.

Mario scese in una cittadina della costa. Si sentiva la presenza della povertà ovunque. Una povertà tradizionale, disperata e orgogliosa. Pure, osservando meglio, poreva di poter dire che non è vero che i siciliani fossero poveri; o almeno dei poveri autentici. Mario guardava qua e là, stupito. Quasi avrebbe detto paradossalmente che essi facevano lusso della propria povertà.

Ne ostentavano gli oggetti e i simboli. Le camere da letto al primo piano erano aperte come vetrine sulla strada, e sempre qualche oggetto, una sedia, una macchina da cucire, sorpassando il limite, rimaneva lì fermo, di modo che la strada assumeva un carattere privato: diventava il corridoio di un appartamento qualunque solo chiuso, in alto, da una striscia di cielo di cui dispiaceva a Mario violare camminando l’intimità.

Ma poi in tutto questo sciorinamento di vestiti laceri, di studiata sporcizia, di studiata trasandatezza, frammisto all’inaspettato apparire di cose di valore quali mobili e servizi di bicchieri finissimi, affiorava un sospetto: che ci fosse in Sicilia una ricchezza nascosta, trafugata, la cui presenza permettesse ai proprietari quella ingiustificata esibizione di povertà. Che fosse sotto terra; che fosse nel mare. E una volta sulla scia di questo sospetto, a lui pareva già di vedere i siciliani tradirsi in un gesto, ammiccare al cielo, lasciarsi trasportare di colpo e senza ragione, al pari di ricchi camuffati pei quali l’abbondanza è abitudine, da una contentezza esagerata, da una generosità eccessiva. Quasi che le case basse e gessose che il mare nel ritirarsi aveva lasciato sulla terra come sassi e conghiglie, non fossero le loro, ma piuttosto le barche e le vele; e al di sotto di questa mobile città, la vera, ci fossero altre miniere più redditizie e favolose delle grigie zolfatare. 

Una volta del resto aveva letto: 

«Quella maschera di indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano: pareva che istintivamente si trincerasse nella sua ignoranza come fosse la forza della sua povertà».

Mario vedeva ora che proprio in questa coscienza delle proprie inibizioni, della propria povertà era l’intransigenza e il coraggio dei siciliani. Conoscere i propri difetti e sbandierarli, invece che nasconderli e cercare di superarli. I loro difetti divenivano la loro forza, in una contrapposizione continua, che confinava con una dialettica dell’assurdo. In realtà, se per altri era ingiusto generalizzare nella inutile ricerca di un tipo, quei contadini e pescatori, artigiani e commercianti di nulla, avevano in comune non solo nasi e orecchi neri, e coloriti bruni e pallidi; ma anche eguale modo di gestire, di vivere, di pensare. L’educazione, cioè tutto ciò che di tradizionale e di passato veniva loro insegnato, gli pareva fosse essa a guidare i loro atti e pensieri quotidiani in un rigorosa catechismo. La stessa lingua, più che un mezzo di espressione, gli sembrava fosse un costume, una regola di vita; un severo e fantasioso galateo dell’anima.

Davanti alle case di gesso i mantelli neri delle donne annunciavano a tutti la povertà. Ma in Mario ora cresceva il disappunto, direi quasi il rancore, di fronte a questa antica e enimmatica fierezza.

Nello Saito

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 41-42.

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