Recenti considerazioni sul Giovane in tunica
Poiché è risaputo che tutte le opere d’arte, sia le figurative che le letterarie (architettura, scultura, pittura, arti minori, letteratura, teatro, spettacolo, etc.), fanno parte dell’attività politico-sociale-religiosa di un popolo, vissuto in un delimitato arco di tempo e spazio, è chiaro che l’arte riflette, come in uno specchio, le caratteristiche materiali e spirituali, e quindi anche estetiche, dei componenti etnici di quel popolo stesso in un certo periodo della sua esistenza, mentre è impopolare nei regimi assoluti, dittatoriali.
Naturalmente ogni popolo (o regime), portatore di un suo ideale politico-sociale-religioso, coerentemente vissuto, resta eternato nelle opere d’arte figurative o letterarie superstiti, in cui esiste – com’è chiaro – una scala di valori: quelle fatte dai geni più grandi, e le altre fatte dagli artisti via via meno eccellenti, ma che riescono a rimanere vivi lungo i secoli. È poi compito della storia universale registrare tutto al punto giusto per i posteri.
L’arte di un popolo è quindi espressione di una civiltà storica particolare, di una società particolare, vissuta nel suo tempo particolare. Essa è squisitamente sociale: non può non esserlo! Più importante della patria, della politica, della gloria di azioni eccezionali, del denaro, della scienza, della potenza personale o collettiva, della famiglia, più importante di tutto, è, per la persona singola o per un intero popolo, lo spirito religioso che alimenta il culto dell’eternità di enti divini, superiori al comune destino della morte certa per ogni vivente.
Nella religione è posta la facoltà di un uomo o di un popolo, che con l’arte esprime l’essenza meravigliosa della sua anima immortale, capace di ben distinguere il sacro dal profano. la facoltà di «captare» la vita oltre l’effimero tempo della permanenza terrena, come era per i Greci nei «misteri» orfici.
L’arte così diventa espressione del divino, forma non moritura degna della divinità, all’insegna della più sublime bellezza. Così i Greci ebbero i loro Numi immortali, scolpiti in forma antropomorfica ideale adorati in case ideali, i templi, protagonisti nella poesia, di mille miti fantastici.
L’arte greca ha lasciato nelle sue opere originali (non certo nelle copie) le reliquie di questa fede incrollabile nell’immortalità dell’anima, sfuggendo alla falce fatale del nulla. Reliquie che sono opere sublimi, capaci di nutrire egregiamente i sentimenti di tutti gli spiriti umani di ogni tempo, sia con le opere figurative che con quelle di pensiero.
Anche i Greci Ionici di Mozia vollero i loro templi policromi, le loro statue di numi torreggianti nel vano semioscuro del megaron (cella del tempio), come in una magica teofania. Alludiamo alla statua marmorea, nota come il Giovane in tunica. che noi crediamo il – nume – tutelare dei Greci di Mozia, scolpita in stile – severo -, nella prima metà del V secolo a.C.
Vediamo come la statua ionica del Giovane in tunica possa far parte dell’attività politico-sociale-religiosa degli Ioni, di cui una minoranza, certamente marinara, si trovava a Mozia, con le altre minoranze èlime, sicane, puniche, presenti anche a Segesta con i Focei. È noto che i Greci erano divisi in tre stirpi, Dori, Ioni, Eoli. Naturalmente più chiara ne verrà fuori l’indagine se la paragoniamo al diverso modo di vivere e operare dei Dori. I Dori erano montanari, gli Ioni marinari, alle origini della loro apparizione in Grecia.
I primi erano piuttosto rudi e forti, piantati sulla terra avara del Peloponneso che rendeva ben poco; i secondi erano più evoluti, liberi sui mari sconfinati, dediti al commercio che rendeva fior di quattrini e quindi ricchi anche del superfluo, da Atene fino alle loro 12 città dell’Asia Minore, fiorentissime, e, in occidente, fino alla Magna Grecia, Etruria, Gallia, Spagna. etc. Erano belli, come giovani Apollini, delle cui statue riempivano tutti i luoghi di culto in cui approdavano, essendo Apollo il loro dio, capostipite ionio, l’Apollo padre, nascente dal mare col suo carro del sole, dio della vita e della morte, dio della salute, delle 9 Muse leggiadre, dei coloni di tutte le nuove patrie lontane che sorgevano numerosissime lungo le rive del Mediterraneo, l’Apollo padre, adorato come e più dello stesso Zeus!
I Dori poveri e malvestiti di ruvide lane, gli Ioni coperti di lini fini ed eleganti. Le donne poi dimostravano maggiormente l’appartenenza alle due stirpi dal modo di abbigliarsi e dal tenore di vita: contadine le prime, ricche borghesi le altre.
L’arte aveva creato un tempio dorico (dopo l’umile megaron), grave e pesante, e un tempio ionico, svelto, dalle eleganti colonne: aveva creato statue di numi ed eroi dorici, massicci, nudi e violenti nelle metope quadrate staccate l’una dall’altra, e processioni di divinità ioniche nel fregio ininterrotto avvolte in elegantissime e diafane vesti svolazzanti al vento come vele sul mare; pitture doriche (forse molto modeste), e pitture ioniche, celebratissime, alte anche sei metri, al dire dei periegeti che ne parlarono entusiasti. E così ai canti corali dei Dori, gravi e solenni, si alternavano i canti epici dei poemi ionici che raccontavano le gesta degli dei e degli eroi dell’Iliade e dell’Odissea dello ionico Omero, il primo e il più grande poeta dell’umanità.
Chiaramente, dunque, gli scultori dorici preferirono scolpire gli dei, gli eroi, gli atleti, gli efebi, etc., nudi, o con vestiti sommari molto semplici, mentre gli artisti ionici preferirono coprirli di vesti leggiadre, velate, suggestivamente trasparenti, per ingentilire le asperità dei corpi nudi non sempre impeccabili in certe parti, per renderli più belli, più aerei, più fluttuanti fra cielo e terra, più eterei, lontani dalla caducità dei mortali.
Dopo il 480 a.C., nel periodo della prima metà del secolo V, detto dello stile severo, si scatenò per tutta la Grecia e le colonie qualcosa che raramente può avvenire nella vita di un popolo.
La piena coscienza di avere sbaragliato centinaia di migliaia di uomini che li volevano sterminare aveva acceso nell’anima dell’uomo greco dei fermenti straordinari di potenza, di spiritualità, di socialità, di religiosità. Da qui naturalmente un potente afflato artistico mirante ad eternare quel clima di gloria, in tutti gli aspetti, ma soprattutto in quello religioso, avendo gli dei – così tutti credevano fermamente! – deciso di rendere il popolo greco, il primo, il più degno, il più forte, eterno nella storia del mondo.
Templi e simulacri di divinità diventarono le cose più importanti da erigere in onore degli dei. Poeti e artisti ne decantavano, pieni di gratitudine, le lodi, per tanto magnifico dono.
Ogni città, anche piccola, nella madre patria o nelle colonie, sentì così il bisogno di mettersi sotto la protezione eterna degli dei, così buoni, così apertamente protettori invincibili della stirpe ellenica! Tutti, quindi, si davano da fare per accaparrarsi gli artisti più universalmente noti per erigere statue che volevano collocare nei loro templi, fondati nelle città a dozzine.
Ma chi erano gli artisti preferiti, più inequivocabilmente grandi? Non potevano essere altri se non quelli che, animati da fervore religioso, riuscivano a far emergere dalle pietre e dai bronzi i sentimenti più nobili, degni degli dei e degli uomini che li adoravano. Così coloro che ci tenevano veramente ricorrevano ad artisti ben noti, rifuggendo dalle opere degli artigiani, dozzinali e spesso insignificanti.
Nel periodo dell’arte «severa» l’artista cercava di dare il meglio di sé, in maniera egregia e originale. Ma possiamo veramente dire che nelle opere «severe» non ci fosse qualcosa di comune come stava accadendo via via nel campo politico-sociale e religioso del «dopoguerra antipersiano, antibarbarico in genere» in tutte le città della Grecia?
La guerra aveva unificato, la vittoria aveva glorificato, l’arte ora puntava all’esaltazione degli dei, protettori e salvatori di tutti i Greci della madrepatria e di quelli che vivevano in terre lontane, in Asia e in Italia! Gli artisti, i poeti, i filosofi viaggiavano in un clima di euforia universale, si ritrovavano poi alle olimpiadi, nei santuari panellenici, alle corti dei principi. Tutto ciò doveva sfociare via via nella grandezza del «secolo d’oro», degnamente rappresentato e reso universale da una sola città greca, Atene, capitale e guida della grande nazione ellenica in patria e nelle terre d’oltremare. Le «scuole d’arte» pullulavano, dirette da insigni maestri per rispondere alle richieste dei committenti. Prima fra tutte la scuola di Fidia.
In genere si parla, da parte degli studiosi, della scuola di Fidia, operante solo nella seconda metà del V secolo a.C., periodo dello stile classico e della creazione del Partenone in Atene, eretto da una quantità di scultori, diretti da Fidia. Ma è lungo la prima metà del secolo che il grande Maestro crea il colosso crisoelefantino dello Zeus di Olimpia, 454/448 a.C., mentre è nella seconda metà che crea l’Athena Parthenos, 447/438 a. C., sull’Acropoli di Atene.
È chiaro che l’acme di Fidia, 448/438 a.C., e dei suoi discepoli-collaboratori, venne raggiunta a seguito di tutta un’attività artistica svolta nella prima metà del secolo, in cui era in voga lo stile severo. In particolare, se fissiamo la data di nascita di Fidia nel primo decennio del secolo (495 a.C.), e quella dei suoi discepoli-collaboratori nel secondo decennio (490/485 a.C.), si ricava che il Maestro e i discepoli Alcamene, Peonio, Agoracrito, Colote, etc., si siano formati nella prima parte del secolo. I maestri di Fidia, Hegias e Hageladas, scultori, Polignoto, pittore, dovettero nascere nell’ultimo ventennio del VI sec. a.C., sicché, a metà del V, dovevano avere un’età fra i 60-70 anni. Potremmo allora fissare l’epoca degli studi di Fidia fino al 470, (a 25 anni d’età), anno in cui, tenendo conto dell’innata genialità, il grande artista dovette formare la propria scuola di stile severo, dal 470 al 450.
L’affiatamento fra il Maestro e i suoi discepoli, presto passati al rango di collaboratori ad altissimo livello, diventa così elevato che le opere in marmo, in bronzo, in tecnica crisoelefantina, in toreutica, negli avori, nelle oreficerie, etc., acquistano un alto grado di perfezione e di eccellenza, tanto che potevano essere firmate indifferentemente da tutti, maestro e collaboratori, senza far torto a nessuno.
Il Tempio di Zeus di Olimpia (Prima metà del V sec. a.C.)
Essendo quello d’Olimpia il primo di tutti i santuari panellenici, sede delle Olimpiadi, non poteva essere trascurato da Pericle, che aveva in mente idee imperialistiche da realizzare con prudenza, però. Nel 454, volendo trasformare la Lega marittima Delio-Attica in impero, egli fece trasportare i tesori della Lega da Delo in Atene, che, secondo lui, doveva diventare la capitale. A questo punto diamo spazio a una nostra idea.
Riteniamo che intorno al 454 a.C. Pericle dovette proporre al suo coetaneo e amico Fidia – il Maestro doveva essere quarantenne, mentre i suoi collaboratori fra i 35/30 anni d’età – di adornare il tempio di Zeus d’Olimpia, costruito dal 471 al 455 dall’architetto Libone oltre che delle opere marmoree, anche di una statua crisoelefantina colossale, mai vista al mondo, che doveva essere il simbolo imperiale della Grecia.
Il tutto senza badare a spese: marmi, oro, avorio, pietre preziose, etc., e soprattutto con l’opera eccelsa dei più grandi artisti dell’epoca, scelti da Fidia, e solo da lui, scultori, toreuti, cesellatori, pittori, bronzisti, etc. Il lavoro doveva essere portato a termine nel più breve tempo possibile, ma egregiamente, in modo da ingrandire il suo prestigio e dare la massima soddisfazione a tutti i Greci della madrepatria e delle colonie.
Fidia dovette accettare il lavoro delle opere d’arte per il tempio di Zeus di Olimpia, e ne studiò la divisione fra i suoi aiuti così: la grande statua crisoelefantina di Zeus l’avrebbe fatta lui stesso con gli artisti competenti nella tecnica specifica; i marmi del frontone orientale li avrebbe affidati a Peonio; quelli del frontone occidentale ad Alcamene; le mètope agli altri; ma il tutto sempre sui propri «cartoni», in stile severo, o meglio in uno stile severo-fidiaco, che possiamo chiamare di transizione. Anche per la Nike di Peonio.
A conforto di questa nostra impostazione ci sono le fonti storiche di Pausania che citano Peonio e Alcamene espressamente come autori delle statue dei rispettivi frontoni. Ma i critici moderni non sono d’accordo con Pausania e attribuiscono queste opere ad un ignoto maestro di Olimpia. Come si può ribattere a queste affermazioni?
È risaputo che certi critici si divertano un mondo a denigrare gli storici, per imporre se stessi, magari basandosi su cervellotiche attribuzioni di copie romane, che naturalmente lasciano il tempo che trovano dal punto di vista stilistico, estraneo al copista. Si potrebbe rispondere che l’unificazione dello stile severo-fidiaco, dovuto ai «cartoni» di Fidia di quel primo periodo della prima metà del V secolo, potrebbe superare facilmente le critiche degli studiosi.
Alcamene e Peonio scolpiscono come comandano i «cartoni» di Fidia, ma con accenti personali lirici, che non possono essere paragonati alle copie romane di presunti originali dei due artisti, mai trovati! Non resta allora che ribaltare il metodo delle indagini, e veramente attribuire a Peonio ed Alcamene le statue dei due frontoni.
Pausania (IX, 11, 6) riporta che dopo il 403 a.C. – la data è ricavata dal fatto storico – Trasibulo consacrò un .gruppo scultoreo di Athena ed Eracle nel tempio dell’eroe tebano, in Tebe, gruppo attribuito sempre da Pausania ad Alcamene. Questo è impossibile perché Alcamene non poteva esistere, o creare, alla fine del secolo! Forse era un omonimo. Ma un’opera destinata al culto non è né poteva essere stata fatta molti anni prima della sua consacrazione, specialmente se c’era stata nel mezzo una guerra, per esempio, come quella del Peloponneso (durata circa 28 anni, 431-404).
L’argomento si presta a tanti ricordi storici. Migliaia di statue bronzee, rapite, come bottino di guerra, dagli eserciti invasori, collocate nei propri templi come trofei, venivano restituite ai legittimi proprietari dai nuovi conquistatori, come avvenne nel 146 a.C., dopo la presa di Cartagine, i cui templi furono spogliati dei trofei rubati nei secoli passati ai Sicelioti, i quali neanche a dirlo, li riconsacrarono, ringraziando i Romani di tanto prestigioso evento. C’erano statue di Fidia nel tempio della «Fortuna huiusce diei» del Palatino, in Roma, al dire di Plinio (34, 54), fra cui un’Athena, riconsacrata dal console Paolo Emilio Lucio Macedonico, dopo il trionfo della fine del 167 a.C.
La «cerchia fidiaca» e il Giovane in tunica di Mozia del periodo severo
Il Giovane in tunica di Mozia è ispirato all’Apollo del frontone occidentale del tempio di Zeus in Olimpia, opera, come abbiamo visto, di Alcamene, su «cartone» di Fidia, liberamente interpretato dall’Autore.
La posa, con un braccio al fianco e la lancia nell’altro braccio, si riscontra nella figura del frontone orientale, riconosciuta come il personaggio di Enomao, frontone scolpito da Peonio. Ambedue artisti della «cerchia fidiaca» del «severo» e del «classico». A questo punto diventa suggestiva l’idea di accostare il Giovane in tunica all’Apollo di Alcamene, i cui volti, ambedue nobilissimi, si richiamano fra loro nei tratti fisionomici e artistici, mentre le vesti aderenti sono trattate in modo raffinato, le fluttuanti più scioltamente. Infatti sarebbe grave negare ad Alcamene, o ad altro artista di pari merito, la perizia di avvolgere la statua con una tunica aderente e trasparente (secondo ben noti schemi fidiaci), la capacità di creare un’opera d’arte di gran classe, dietro espressa richiesta dei committenti, ché forse pretesero, per il loro dio, un «cartone fidiaco».
L’accostamento estetico fra l’Apollo d’Olimpia e il Giovane in tunica ci suggerisce l’idea della decisione, presa dai Greci lonici di Mozia, di affidare a una scuola famosa ellenica la realizzazione della statua del loro «dio» tutelare. Secondo lo scrivente, ad una di esse, a quella di Fidia, attiva in Olimpia, proprio dentro il recinto del Tempio di Zeus, dove sorgeva l’officina del Maestro, un giorno vennero i Moziesi per risolvere il problema che li assillava. Volevano un simulacro del loro dio protettore, per un tempio della loro terra, Mozia, in cui costituivano una minoranza di Greci lonici, entro i domini dell’eparchia cartaginese della Sicilia occidentale. Volevano un’opera d’arte, di prim’ordine, dalla migliore scuola del tempo, da artisti ionici, come loro, una statua di Apollo Patroo.
Ai Moziesi, espressamente venuti a trovarlo nella sua officina, Fidia dovette additare l’Apollo di Alcamene sul frontone dirimpetto l’officina stessa, alla presenza dello stesso Autore, finendo per accordarsi su tutti i particolari.
Così diciamo che potrebbe essere stato Alcamene l’artista a cui Fidia affidò l’incarico di esaudire la richiesta dei Moziesi (greco-ionici, come erano appunto Fidia e i suoi seguaci), dell’Apollo Patroo di Mozia, dio capostipite della stirpe ionica, venerato anche in un tempio dell’agorà di Atene. I committenti vollero il dio completamente vestito dato che dovevano trasportarlo in un paese di «barbari», ostili al nudo figurativo.
Ci fu nella statua del Giovane in tunica qualche intervento di mano dello stesso Fidia? A volte il Maestro interveniva, altre volte no. Non resta che ammirarla in tutta la sua bellezza.
Analisi estetica della statua del Giovane in tunica
C’è molto di «severo fidiaco» nel Giovane in tunica di Mozia, da noi proposto come simulacro di Apollo Patroo. Che cosa in particolare? Il volto, i capelli a chioccioline, la forte ossatura del volto, mostrano ancora l’aspetto severo della composizione. Ma il movimento dinamico del corpo insieme alle vesti trasparenti, «bagnate», increspate, sottili ed elegantissime, non sono ignote allo stile velificato fidiaco che esploderà nelle opere classiche del periodo seguente, della seconda metà del V secolo a. C.
D’altro canto, se paragoniamo la staticità degli Apollini (Pamopios, del Tevere) di Fidia, e la cattura degli spazi somatici vibranti e profondi da parte dello scultore del Giovane in tunica, ci accorgiamo della formidabile personalità di quest’ultimo che mette al servizio della «teofania» del suo personaggio la nobiltà dell’espressione, la potenza fisica calma e sicura, invincibile, l’eleganza delle vesti, la bellezza straordinaria delle forme, le proporzioni ideali delle masse muscolari avvolte flessuosamente dai lini che fasciano un floridissimo campione umano-divino della stirpe ionica, fattori tutti di rara perfezione, che si possono scoprire soltanto negli originali purissimi dei grandi artisti.
Nel Giovane in tunica lo scultore è riuscito a rendere palpitante perfino il respiro del torace, gonfio per un’inspirazione profonda, la quale «svela», pur sotto la tunica, l’anatomia fino al basso ventre infossato, traendone spunti estetici raffinatissimi. A tal fine l’artista usa le piegoline sottili, fluenti, spezzandole ogni momento in corrispondenza d’ogni minimo avvallamento del corpo, di cui egli si serve per mettere in evidenza l’anatomia del bellissimo modello, non permettendo mai alla luce di oscurare, con macchie nere e profonde, la fluidità della composizione, resa diafana, sfumata, dolcissima, per raggiungere la teofania nel simulacro, sentita come mediata da una luce interna, d’origine soprannaturale, nullificatrice della materia. Meraviglioso artifizio di membra umane chiamate alla vita dal marmo luminoso, che, in questo caso, si prestava meglio del bronzo al fantasma poetico dell’artista, per il più bello e giovane iddio dell’Olimpo greco!
Questo spiega anche il «motivo alto della fascia pettorale», che avrebbe annientato, se fissato alla vita, l’armoniosa fluidità e imponenza «dell’apparizione». E spiega anche il «motivo» della tunica talare, che rendeva superfluo qualsiasi puntello alla base delle gambe, necessario invece nelle statue marmoree. Le statue degli atleti erano in bronzo e bastavano di solito due tenoni sotto i talloni per ancorarli alla base (come i bronzi di Riace), per svettare liberi nello spazio. Portata in patria dai Greci di Mozia, la bellissima statua dovette adornare un tempio della città per oltre mezzo secolo (450-397 a.C.). Durante l’assedio famoso, abbattuta, rimase sepolta fino al 1979, data della scoperta.
Noi diciamo che il simulacro di Mozia è uno dei tanti simulacri degli dei del periodo «severo» (480-448 a.C.), nobilissimo, come lo furono tutti gli altri di quel tempo felice. Un tempo veramente felice e straordinario che venne completato con la più bella immagine del «dio» per eccellenza. Zeus olimpico, di Fidia, l’opera più viva della stirpe ellenica.
«Ciascuno di voi consideri una infelicità la morte, senza aver
visto lo Zeus di Fidia»; tali sono le parole di Epitteto, filosofo
(Arriano, Epitteto, 1, 6, 23).
Certamente la più eccelsa delle sette meraviglie del mondo!
Così si chiuse il periodo «severo» dell’arte greca, il Periodo degli Dei, e degli uomini vittoriosi contro le più immani avversità che la storia ricordi, uno dei periodi più belli di tutti i tempi, presente anche nell’isoletta di Mozia, col suo bellissimo Giovane in tunica, il più splendido «dio» della mitologia greca!
Quante altre statue fidiache sono nascoste fra le rovine di Mozia?
Giuseppe Agosta
Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 41-50.