Francesco Grisi, Maria e il Vecchio ed. Rusconi, s.i.p.
“Allora”: la congiunzione segna non di rado, nel romanzo, l’inizio di un capitolo, di un periodo, introduce l’argomento piuttosto che avviarne la conclusione. È un modo confidenziale di narrare, o meglio, di comunicare, quasi la ripresa di un discorso appena interrotto, la sua prosecuzione, un conversare senza fine, continuamente arricchito, sempre sorprendente, magico, che attrae e crea attesa. Il messaggio è affidato a un modello di scrittura caratterizzato da un periodare dal taglio rapido, da un’essenzialità spinta, a volte, all’estremo limite: una prosa che affascina anche chi è legato alle forme tradizionali. Una soluzione convincente sotto i profili artistico e storico, che interpreta, cioè, senza abdicare all’eleganza del dettato, esigenze pratiche connesse con i ritmi di vita del nostro tempo.
Digressioni, voli pindarici, ritorni, molti flash: è come una lunga corsa per non lasciare nulla di inespresso, nulla che provochi rimpianto per non essere divenuto parola, oggetto della creazione artistica. «L’antico è nel gesto – scrive Grisi – Il presente è nella parola.» Poesia dell’esistenza fissata nel suo fluire, prima del silenzio. Senza contare, poi, che la scrittura è, per gli eletti, salvezza, «È – dice il prof. Malaparte, protagonista del romanzo – una forma di preghiera nel rifugio ironico del mondo». Una prosa poetica, dunque, questa di Maria e il vecchio, nella quale spesso la proposizione secondaria esiste senza il puntello della reggente: un aggettivo, una congiunzione, un avverbio vengono isolati da una punteggiatura collocata con estrema libertà: una forma espressiva che non è puro gioco, ma risponde senza dubbio all’esigenza dello scrittore di sottolineatura, di volta in volta, di particolari stati d’animo e delle molteplici direzioni lungo le quali si snoda il pensiero (il lettore attento percorrerà a ritroso l’iter della creazione artistica).
È la lezione dei futuristi moderatamente accolta, personalmente rielaborata e profondamente sentita nella sua carica di vitalità.
«Il Futurismo è come un fiume carsico che tra le montagne si nasconde e all’improvviso appare» – scrive lo stesso Grisi (appassionato studioso del movimento, «allegro e ironico, terrorista e contestativa», e autore di un volume sull’argomento) su “Contenuti”, n o 1-1990. È in atto nel romanzo l’abbandono della «prigione rappresentata dalle forme tradizionali responsabili del “sacrificio della fantasia”, la quale, pertanto, può librarsi, esercitando la sua funzione di “provvidenza umana che ci libera dal male”» (sono tutte espressioni di Grisi, in “Contenuti”, n o 3 -1990).
Maria e il vecchio si legge tutto d’un fiato: dialoghi, soliloqui, poesia e affresco; si pensi alle bellissime pagine su Roma nella luce settembrina, su Roma di notte col concerto delle sue fontane (dove tratti ben più rapidi e incisivi evocano lo stesso fascino de «Le notti romane» di Giorgio Vigolo); si pensi a quelle su Venezia, «città di vecchi e di amori disperati”, su Messina (con l’incontro della donna calabrese in nero, per sempre segnata dalla tragedia rusticana, un nero «che dilaga fino ad occupare i giardini e le pietre» e disperde i colori dal diorama di piazza Duomo); su Todi (città di pigri eppure patria del passionale Jacopone) e su Barcellona col ((sole che fiorisce negli occhi delle donne». Immagini fugaci, particolari sbozzati, un dialogare essenziale, a volte delirante, illuminano il microcosmo dei protagonisti, proiettandolo nel macrocosmo, e sollecitano il lettore all’immediata riflessione sul centimetro di scrittura.
La meditazione è guidata e si allarga a ventaglio sulla vita, sull’amore, sulla morte, al di là di ogni logica comune, si concentra sulla “provvidenziale”pazzia, una pazzia attraente, coinvolgente, quella che dà sapore alla vita e apportafelicità all’uomo. Ed ecco l’elogio: «I pazzi inventano la vita», «I pazzi sono liberati». Così il protagonista afferma che Maria è una pazza con “la nonna-girasole”e “il padre-topo” e aggiunge con passione: «Bisognerebbe amare solo le pazze». «Anche io, professore Malaparte, cavaliere della Repubblica, non sono normale».
Questo “vecchio” di cinquant’anni non si crogiuola nei rimpianti, ma ritrova gli slanci giovanili ed ora ha capito tutto della vita (e non era possibile capirlo prima), vuole gustarla nella sua essenza che è amore («Bisognerebbe vivere alla rovescia. Cominciare a novanta e finire a zero») e, come un fanciullo («L’amore è anche diventare infanzia»), vuole vivere ogni emozione nella sua intensità. La condizione di “vecchio” del protagonista è, fin qui, considerata nell’accezione positiva, quale momento di recupero dell’incanto dopo il disincanto, di acquisizione della coscienza del male di vivere ” normale” e piatto, di riflessione sull’ineluttabililità della morte e di approdo alla pienezza dell”‘amore fatto con l’anima”. È un recupero che muove dalla «disperata volontà di chiedere ancora dalla stagione stanca i frutti d’oro della giovinezza».
“È l’autunno la stagione più bella della vita” – pare dica il prof. Malaparte, che riesce a sconfiggere la sua solitudine (che non vuol dire – precisa altrove lo stesso Grisi – “stare-solo”) tra le braccia della terrorista Maria, la quale ha nell’animo un misticismo che la redime ed una fede nell’utopia attraverso cui approdare alla libertà.
Per lei esce dalla schiera dei “vivi già morti” che «all’apparenza si muovono. Piantano alberi e fanno affari. Ma sono in solitudine. Non hanno speranza… Sono nel sistema e vivono nell’ingranaggio». E ancora, «Maria è un fantasma per lottare contro la morte che viene». È l’illusione al di là dei confini del bene e del male, al di là di qualsiasi logica, come dicevamo. Approdo di un’inconsapevole ricerca, l’illusione si configura come amore-dolcezza-consolatoria del tarlo (il presentimento della morte) che è nel cuore dell’uomo, la morte che rende vana ogni lotta e “vince il toro e il torero” e che nel romanzo è presenza ossessiva, tenuta viva dalla figura del padre gravemente malato. «Anch’io – dice il prof. Malaparte – sarò come lui. E forse tra qualche anno mi porteranno in questo letto. E sarò in attesa, e allora, perché non vivere?»
Ma l’illusione è polvere d’oro. Scivola tra le dita. Le intinge di luce. È sorriso. Impalpabile. E, poi, struggente memoria. Lo stile di Grisi ha un fascino contagioso. E l’esperienza irripetibile va ad arricchire quello che l’Autore chiama “sentimento del tempo”.
Era già scontato, “ogni cosa doveva essere”. All’addio di Maria, l’amore-provvidenza, riappare lo spettro della morte, torna l’immagine sopita del padre e la sua visione del «carro di tenebre con il cavallo frustato» ed è il padre che, nell’immaginazione del prof. Malaparte, recita nell’aldilà Ezra Pound: «Come su fiori penduli la luce sfiorisce quando un vento li solleva. Se ne andava da me. Qualunque cosa avvenga un’ora fu piena di sole…».
Un nuovo atteggiamento nei confronti della vita si accompagna, così, nel protagonista al desiderio del ritorno «nell’ombra degli uliveti. Una fetta di pane. L’acqua nel pozzo. L’alba negli occhi. E vivere così». (È questa una tra le molte pagine di intenso lirismo).
Ora egli non può che autodefinirsi “savio” nell’accezione negativa del consenso, dell’accettazione della vita e della morte cosiddette “normali”, del “consumare il giorno”, l’uomo del “si”, che rientra nella schiera dei “vivi già morti”, un savio-morto appunto, che dinanzi al dramma dell’esistenza si fa schermo dell’ironia.
Anna Maria Crisafulli Sartori
Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 47-50.