Il Matrimonio di d’Annunzio

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 49-50.




Dal poemetto inedito

«Panormus» di David Andrew Carrigan IL «GENIO» DI PALERMO in oblivionem Patriae Saintly eyes cast towards heaven, crown askew and beard tangled your faithful dog not here to save you only the benediction of water (the water that saves me too). O once beheaded Genius your pain so evident with that fat, coiled serpent clutched close to your breast biting deep; another Laocoon venom coursing in your now marbled blood all in full view of a sympathetic but disinterested public. Gli occhi ascetici rivolti al cielo, la corona storta e la barba aggrovigliata il tuo cane fedele non è qui a salvarti soltanto la benedizione dell ‘ acqua (l’acqua che salva anche me). O Genio dalla testa un giorno violata il tuo dolore così acceso con quel grosso serpente che si avvolge e ti si avvinghia al petto in un morso profondo; un altro Laocoonte nel tuo sangue ora di marmo sta scorrendo veleno per lo spettacolo di un indulgente ma disattento pubblico. Il wash my transgressions, not only my face The sacrifice you make in a city full of martyrs; wrong prices, domestic injustices, defiling corruption mother, brother, sorella, padre, zio blind justice is the sister to blind fortune. Each and everyone has paid before some never finishing, others only beginning a cycle without an end. By this means they are combined here is labor, and there is rest. lo lavo le mie trasgressioni, non solo la faccia Il tuo sacrificio in una città di martiri; prezzi sbagliati, ingiustizie domestiche, corruzione profanatrice madre, fratello, sorella, padre, zio giustizia cieca è sorella di cieca fortuna. Uno e tutti abbiamo pagato prima alcuni mai finendo, altri soltanto cominciando un ciclo senza una fine . In questo modo si combinano qui il lavoro, là il riposo. Pubblichiamo due «stanze» del poemetto inedito Panormus di David Andrew Carrigan, articolato in venti stanze e ispirato alla città da cui prende il titolo, città che il poeta ha scelto come tappa metaforica e, insieme, viva e mediterranea di un esilio volontario dalla sua terra d’origine, la Nuova Zelanda. La prima stanza è dedicata alla fontana del «Genio di Palermo», sita nella storica piazza Rivoluzione. (M.P.A.) NIψON ANOMHMATA MH MONAN OψIN Traduzione italiana di Maria Paola Altese da “Spiragli”, 2008, n. 2 – Antologia 




Il senso di una genuina identità 

F. Costa, Minello ovvero la lotta per la sopravvivenza. Roma, Ellemme, 1990, pagg. 93. 

Vasto bozzetto di vita familiare e sociale di non comune efficacia descrittiva e psicologica. Lungo racconto incentrato sulle vicende di un fanciullo (Minello), la cui anima «in formazione» è il metro di valutazione di ogni cosa. 

È intorno a lui che ruota la famiglia, l’ambiente, la comunità sociale in cui è inserito, non viceversa. È il protagonista, gli altri mere comparse, alle quali sembra assegnato il solo ruolo di mettere maggiormente in risalto la «sua realtà». 

Gli stati d’animo, le paure, l’ansia di scoprire e di conoscere, i rapporti con gli altri, le illusioni, le speranze i sogni, il desiderio di superare, le varie difficoltà frapposte da un’esistenza primordiale, sono, tutti rappresi con delicatezza e rispetto dall’Autore. il quale, attraverso il fanciullo (lo si avverte dappertutto) rivive un periodo particolare della sua vita in un piccolo centro contadino del Sud. ancora «incontaminato», immune, cioè, dalle influenze negative di una civiltà «manipolata» dagli uomini per fini egoistici. 

Non so se le vicende narrate contengano qualcosa o molto di strettamente autobiografico, ma certo è che la partecipazione popolare intensa dell’Autore alle piccole e grandi «cose» di Minello, tradisce, per lo meno, il suo sincero rimpianto per il mondo, lontano nello spazio e nel tempo, ma che ha lasciato uno spazio profondo nella sua anima. 

La storia di Minello, inoltre, offre all’Autore il pretesto di allargare la sua indagine e le sue valutazioni da adulto, su un periodo drammatico e complesso della storia nazionale che si conclude con la 2a guerra mondiale, momento culminante di travaglio e di crisi di valori che cambiano radicalmente la mentalità e il costume degli uomini. 

A condanna di un clima di menzogne e miserie morali, è posto un forte accento sulla innocenza, sulla semplicità, sulle reazioni spontanee e naturali di un ragazzo, che assurge a simbolo di certe virtù e di certi valori, molto più interessanti dell’illusorio progresso di una società sofisticata che ha perduto il senso della sua più genuina identità. 

«E quando gli anni passarono, egli [Minello] crebbe, come ogni essere vivente, e si trovò nella dolorosa necessità di abbandonare i suoi affetti, la sua terra, e di andare lontano, rivivendo spesso in sogno la sua piccola fetta di lotta sostenuta, per sopravvivere». 

Anche la lotta per l’esistenza è rivissuta in termini di poesia e di lirismo che permea come nota dominante non soltanto la fine, ma ogni brano del libro e che sembra rappresentare per l’Autore, come uno sfogo personale, una liberazione, quasi un tributo emotivo ad una parte di vita alla quale è legato da una sottile e struggente nostalgia. È tale la suggestione della magia di certi ricordi che la commozione diventa elegia proprio nel momento in cui sparisce Minello e al suo posto compaiono tanti esseri (non escluso, forse, lo scrittore Costa) protesi come lui, ad andare lontano per rivedere nel sogno quella realtà diventata mito. 

G. Campo

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 56-57




PER EMANUELE LA STRETTA DELLA MANO

La tua stretta della mano
è dolciura di paradiso, è festa
e riso. Nel mio animo
nascono margherite (-ite
-ite a raccoglierle) e sfumare
di sole e
di viole.
Da te a me passano centinaia
per non dire migliaia
di piccolissime Deità,
le quali mi riempiono tutto il corpo
che scintilla e brilla
in un vero
arcobaleno lunare
che in sé agglomera antichissime memorie
e il cuore ne gode
in una sconfinata infinità.
Giuseppe Bonaviri

(L’arcobaleno lunare, Palermo, Thule, 2009)

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 16.




Dopo la notte 

di Araujo

Albeggia. È intenso il luccichìo del sole. 

Respirare, vedere 

e nel rimescolìo dei sentimenti 

si risvegliano i dubbi tumultuosi. 

È forse questa l’ora cui si addice 

rimescolare il fondo delle notti 

bianche? 

La nostalgia, se intensa, è dolorosa 

sànguina ed ora 

che la mia età s’è fatta più matura, 

la sensibilità e i desideri 

dell’impossibile 

mi lasciano affogare con un nodo 

di lacrime. 

Forse mi sono immersa in acque fonde 

sin dalle prime luci? 

Rita de Cássia Fernandes Araújo* 

(vers. it. di Renzo Mazzone) 

da Por detrá das gavetas (2008) 

* Rita de Cássia Fernandes Araújo, poetessa brasiliana del Ceará del secondo Novecento, è autrice delle raccolte liriche: Cores (1984), Essêcia (1987), Sementes (1990), Unguentos (1991), Cartas ao Anjo da Guarda (1997), Mulher e terra (2000), Manga Madura (2004), Por detrá das gavetas (2008). 

da “Spiragli”, 2010, n. 1 – Antologia 




Pervigilium Veneris

Scritto presumibilmente tra il II e il III sec. d. C. da un Anonimo siciliano, pubblichiamo il «Pervigilium Veneris» nella versione di Mauro Pisini, gentilmente concessaci. Il poemetto in versi tetrametri trocaici è uno splendido esempio di poesia novella in cui, pur confluendo diversi apporti (Lucrezio, Virgilio, Catullo), l’autore dimostra di possedere una non comune personalità poetica e una nobiltà di sentire difficili da riscontrare in altri poeti di quel periodo. C’è nel poemetto un forte senso della vita e della natura, e il bisogno di partecipare e non essere esclusi da Amore che tutto prende e a cui nessuno può restare indifferente. E questo bisogno è bellamente reso dalla capacità che l’Anonimo poeta ha di creare le immagini e di metterle in risalto attraverso gli abili giochi verbali e lo stesso ritornello che imprimono musicalità e leggerezza a tutto il componimento. 

LA VEGLIA DI VENERE 

È l’inizio di primavera, è già primavera di canto: a primavera è nato il mondo, a primavera concordano gli amori, a primavera si accoppiano gli uccelli e il bosco scioglie la sua chioma grazie alle piogge che lo fecondano. Domani, colei che tesse gli amori intreccerà, tra le ombre degli alberi, verdi capanne con ramoscelli di mirto; domani, Dione, assisa in trono, pronuncerà le sue leggi. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 
In quel tempo, il mare, con il sangue caduto dal cielo, creò da un pugno di spuma, tra le schiere azzurre degli dei e dei cavalli a due zampe, Dione nata dalle acque marine. 
Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

È lei che veste la stagione più luminosa di gemme scintillanti e preme perché diventino nodi turgidi, i bocci aperti al soffio del Favonio, è lei che sparge acque vive di lucida rugiada, lasciate cadere dall’aria della notte. Quelle lacrime brillano e tremano per il peso che le spinge a terra: ogni goccia, con la sua perla, tende in basso, ma trattiene la caduta. Ecco, la porpora dei fiori ha svelato il suo pudore: quell’umore che le stelle disperdono nelle notti serene, all’ alba, ha scoperto i seni virginei da sotto il peplo, umido di brina. È lei che ha ordinato alle rose, ancora vergini, di andare, al mattino, incontro al loro sposo, lei creata dal sangue di Cipride e dai baci di Amore, dalle gemme, dalle fiamme, dalle porpore del sole, non si vergognerà, domani, di sciogliere il suo rossore, nascosto sotto la veste di fuoco, sposa in virtù di un’unica promessa. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

La dea, in persona, ha comandato alle Ninfe di andare nel bosco di mirto, il fanciullo accompagna le vergini, tuttavia, non si può credere che Amore resti in ozio, se avrà portato con sé le frecce. Comunque, andate, o Ninfe, Amore ha deposto le armi, ora, non può colpire. Ha l’ordine di andare inerme, ha l’ordine di andare nudo, per non recare danno né con l’arco né con le frecce e neppure con il fuoco. Però attente, o Ninfe, perché Cupido è bello: Amore è tutto in armi, proprio quando è nudo. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

«Venere, con uguale rispetto, manda a te noi vergini. Di una sola cosa ti preghiamo: concedi, o vergine Delia, che il bosco sacro non sia macchiato dal sangue delle fiere uccise. Lei stessa vorrebbe chiederti questo, se potesse piegare il tuo pudore, e vorrebbe che tu venissi, se ciò fosse permesso a una vergine. Allora, per tre notti di festa, vedresti danzare nelle tue valli, tra corone di fiori e capanne di mirti, i loro cori uniti ai capi di un unico gregge. Non mancherà né Cerere né Bacco né il dio dei poeti. La notte non deve essere sprecata, ma vissuta come una lunga veglia di canti: nel bosco regni Dione, tu, Delia, ritìrati.» 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

La dea ha dato ordine di innalzare un palco con i fiori di Ibla: da lì, detterà le sue leggi, intorno siederanno le Grazie. Tu, Ibla, mostra tutti i fiori e ciò che la primavera ha donato, tu, Ibla, indossa il tuo abito di gemme, tanto grande, quanto la pianura dell’Etna. Saranno qui le vergini dei campi, le vergini dei monti e quelle che abitano i boschi, le sacre radure, le sorgenti. A tutte la madre del fanciullo alato ha ordinato di prendere il proprio posto e diffidare di Amore, ora che è nudo. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 
«… Conceda le ombre più verdi ai fiori appena nati … » 

Domani, sarà il giorno in cui Etere celebrò per primo le sue nozze e, affinché Giove potesse creare i raccolti con le piogge di primavera, l’acqua della vita penetrò il seno della nobile sposa, perché, unita al suo corpo potente, nutrisse ogni seme. Così, con il respiro che tutto penetra e con la forza che nasconde in sé, ella governa, poiché è madre, il sangue e il cuore delle cose tanto da infondere la sua potenza in ogni luogo, attraverso i canali per cui passano i semi. Questo ordinò, perché il mondo conoscesse la via della vita. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

È Venere che ha portato i discendenti dei Troiani tra i Latini, è Venere che ha dato in sposa al figlio la vergine di Laurento e, ora, dà a Marte la vergine pudica sottratta all’ ara. È Venere che ha propiziato le nozze tra Romulei e Sabini, da cui generò Ramni e Quiriti e, per la prole dei posteri di Romolo, Cesare, padre e nipote. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Il piacere feconda la campagna, la campagna sente Venere: Amore stesso, figlio di Dione, si dice sia nato in campagna. Mentre la terra lo dava alla luce, lei lo strinse al seno e lo fece crescere tra i baci delicati dei fiori. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Ecco, sotto le ginestre, i tori già adagiano il fianco, tutti sono protetti dai loro patti d’amore. Ecco capri e pecore insieme, ecco gli uccelli canori, cui la dea ha imposto di non tacere. Anche i cigni loquaci mormorano negli stagni, con canto rauco, cui fa eco, all’ombra di un pioppo, la fanciulla di Tereo, tanto che i sentimenti d’amore sembrano essere cantati da un suono dolce, melodioso e diresti che perfino sua sorella non si debba lamentare del marito barbaro. Quella canta, noi restiamo in silenzio. Quando verrà la mia primavera? Quando farò come la rondine e potrò smettere di tacere? A causa del silenzio ho perso la mia Musa e Febo non mi guarda più. Così, anche Amicla, poiché taceva, fu uccisa dal silenzio. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Mauro Pisini

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 27-29.