Marcello Veneziani, Amor fati – La vita tra caso e destino, Milano, Mondadori, 2010.

Amare il destino

L’ultimo libro di Marcello Veneziani è intitolato Amor fati. L’autore, editorialista del “Giornale”, con al suo attivo diverse opere di filosofia, storia e cultura politica, afferma scherzosamente che si tratta di un saggio da leggere a piccole dosi, perché una lettura tutta d’un fiato potrebbe causare effetti collaterali da sovraddosaggio.

Già a partire dal titolo, il libro invita ad amare il destino, che vuol dire accoglierlo e accettarlo con tutti i suoi limiti e le sue responsabilità.

Invece, «nel senso corrente il destino è pensato come un crudele gendarme che strappa alla vita e inchioda a una sorte». Secondo l’autore, è proprio questa mancata accettazione del destino da parte degli uomini contemporanei che ha tolto il senso alla loro esistenza, svuotandola della sacralità di un piano escatologico e consegnandola alla cieca inconseguenza del caso, che li disconnette irrimediabilmente da passato e futuro, risucchiandoli nel vortice del presente.

«Oggi molti vivono una vita priva di senso, ma gremita di accessori». Da ciò la perdita d’identità e persino uno sradicamento dal proprio humus, che alla lunga induce paradossalmente a cercare rifugio nella superstizione degli oroscopi, dello zodiaco e della scaramanzia, misero residuo dell’ormai perduto spirito religioso.

«In realtà il destino radica l’essere nell’avvenire, dà senso all’accadere, connette l’esistenza a un disegno e a una persistenza. Essere è avere un destino ». Infatti, nell’ottica di un disegno di ampio respiro che ci rende tutti interdipendenti, pur nell’autodeterminazione del libero arbitrio, nulla accade per caso e il più piccolo evento può essere letto come segno di una grande volontà progettuale.

Brigida Fagone

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 59-60.




 Il racconto del sole di Patrick Grainville* 

Faccio il professore in un liceo di periferia. Un anno fa mi è accaduto un fatto irrimediabile. Il sogno di ogni insegnante di lettere. Addirittura l’incubo, la sua maledizione. 

Mi chiedo, come si fa a essere all’altezza del genio? Figuratevi il professor Izambard che un bel giorno, al collegio di Charleville, scoprì nella sua classe Arthur Rimbaud! Uno shock incredibile: frasi dettate da Lucifero, in un’alchimia degli Inferi. Una pioggia di ukasi stellari. Proprio lì davanti a te, nel tuo angolo sperduto in capo al mondo, la catastrofe della bellezza. Un sisma verbale inedito. 

È settembre a Sartrouville; un rientro dalle vacanze come tanti altri. Non noto nulla di particolare nel ventaglio di alunni che mi si squaderna davanti… Lei, non la vedo neppure! La ignoro per ben due settimane. Lei, il mostro! Potremmo battezzarla Arturina, in ricordo di suo fratello Rimbaud! 

Lei, tiene nascosta la sua essenza coriacea. 

Per valutarli, decido di assegnare loro un primo tema piuttosto libero, invitandoli a una galoppata di prova. 

Le regole del gioco, quelle dell’esame di maturità verranno a suo tempo. Si torna dalle vacanze estive: l’argomento è il sole. Cosa rappresenta per voi il sole? 

Comincio a leggere gli elaborati a casa, senza eccessiva curiosità Sono meno entusiasta di una volta. Qualsiasi vocazione finisce con l’attenuarsi, prima o poi. All’improvviso, il fuoco mi investe in pieno volto. Un dardo di fuoco. Parole che mordono, possenti, di una bellezza inesplicabile. Non frasi, ma parole carnivore. Senza una costruzione compiuta, ma ruvide e incastrate in associazioni audaci e calcolate. Un susseguirsi di corto-circuiti, lampi, saette e meteoriti. Non ho parole per descrivere le sue trovate. Ma, attenzione! Nessuna anarchia adolescenziale in tutto questo. Nessun rigurgito surrealista. Solo espressioni compatte, allucinate, lucide. E poi, necessarie, solide, crude e magnetiche. E quelle massime infuocate si alternano ad assiomi gelidi. Il contrasto mi affascina, al pari della speculazioni sul sole e sul desiderio, e ancora sull’amore e sulla carnalità Un miscuglio di sottigliezza ed efferatezza che sconvolge in un’alunna così giovane. 

Allora, mi precipito sulla sua scheda personale. Appartiene a una famiglia modesta e ha 17 anni. Giustamente, la stessa età di quell’Altro, il suo gemello fulminante: Arthur. Ed è nata ad agosto. 

Mi piace che il suo mese sia quello dei parossismi, degli eccessi anche del tempo, delle sue parentesi nude e roventi. 

Ho un solo desiderio: conoscere il volto dell’autrice. L’indomani mi fiondo al liceo. Come sempre, restituisco gli elaborati nell’ordine in cui si presentano. Quando arriva il suo turno, pronuncio il suo nome. Lei alza il dito e io mi dirigo verso Arturina, finalmente rivelata. Eccola! È bella, di una bellezza dissimulata. Da lontano la si crederebbe un po’ slavata o insignificante. Da vicino, sotto il mio naso, mi si offre un viso d’acciaio, di un freddo polare. È alta e slanciata, con occhi di un grigio purissimo. Dà l’impressione di uno spessore e di una concentrazione offuscata, ma studiata. C’è qualcosa di agguerrito in lei, come l’attesa di un’imminenza. Di colpo, me ne sento minacciato, ma ignoro il pericolo che potrebbe piombarmi addosso. 

Lei, non sorride. Quando le poso davanti il suo compito, sento che è necessario tacere e che non posso esprimere il mio entusiasmo, lì davanti agli altri. Sento che mi giudicherà in base alla mia capacità di tacere. Io, taccio; mentre i suoi occhi mi spiano, sondandomi lentamente. Poi, fuggo verso la cattedra. 

Finita la lezione, mentre lei si accinge a uscire dalla classe, le faccio un segno e aspetto che gli altri si dileguino. Allora, le svelo la mia sorpresa e le chiedo se è consapevole di avere scritto delle pagine… straordinarie. Lei risponde con calma: 

– Sì penso di sì… Lo credo bene. 

– Ne hai scritte delle altre? 

– Sì tante. 

È talmente fiera che mi squadra dall’alto in basso. Sembra una spada. Fanciulla bellicosa dallo sguardo sagace, di un grigio come il Mare del Nord, senza pietà Mi sta piantando negli occhi quel pugnale grigio del Nord. 

Due giorni dopo, mi lascia un manoscritto sulla cattedra. Sono un centinaio di pagine e di un vigore che mi pietrifica. Le parole cadono come mannaie, e corrono come kriss kamikaze, facendomi sentire come crivellato dai colpi. Sì mi sento come il bersaglio di quei segni a cui è affidata una confessione in codice, esplosiva, da cui traspare un segreto terribile, attraverso l’associazione di una vitalità cieca a una lucidità atroce. 

Durante la notte, leggo e rileggo il testo di un’adolescente satura di odio solare, a tal punto che in lei l’astro stesso sembra esplodere, incendiando le nostre fatiche e le nostre certezze, e inghiottire tutto nella sua fiamma cosmica, lasciando sussistere solo due tracce di elio grigio in quegli occhi di fanciulla. 

All’ultima pagina mi ordina di non parlare mai con nessuno di ciò che ho letto, di mantenere il segreto assoluto, visto che non sarà mai pubblicato: “È un divieto categorico, senza appello!”. 

Quando le restituisco il testo, le chiedo perché me lo ha fatto leggere, se non ne devo parlare con nessuno. 

– Avevo bisogno di un testimone. Uno solo e basta. In fin dei conti, non sono talmente forte da poterne fare ancora a meno. 

– Ma il tuo scritto mi tormenta, dal momento in cui l’ho letto. 

– Lei vuole alleviare il suo peso, insomma. Certo! 

– Ma io non perdonerò la più piccola deroga. Al primo passo falso, sarò spietata… 

– Ma io non potrò dimenticare la crudeltà infinita di ciò che ho letto. Tu non hai il diritto di farmi condividere 

l’inenarrabile. 

– Le sarà necessario trovare la giusta distanza per non esserne divorato. Anch’io mi sentivo divorata dai miei 

racconti. Allora, ho trovato la distanza, grazie a lei! 

– Alla fine sorride e mi appoggia una mano sulla spalla. È come un gesto che sancisce un patto, ma anche il dono di una grazia misteriosa. Da quel momento mi possiede con la promessa del silenzio riguardo al suo racconto mostruoso e segreto. Non so se mi odia o se, invece, mi ama un po’. 

P. G. 

(trad. it. di Brigida Fagone) 

* Patrick Grainville è uno scrittore francese (oltre che critico letterario del “Figaro”), nato il I giugno 1947 a Villers-sur-Mer (Calvados). Ha trascorso l’infanzia a Villerville, piccolo centro situato ad est di Deauville. Professore di lettere, riceve a solo 29 anni il prix Goncourt 1976 per il suo quarto romanzo, Les Flamboyants (I fiammeggiatori). 

Altri suoi romanzi: Le paradis des orages (1986), L’rgie, la Neige, prix Guillaume le Conquéant (1990), Le Jour de la fin du monde 

une femme me cache (2001), La Main blessé (2005), Lumièe du rat (2008), Le baiser de la pieuvre (2010).




Il profumo del gelsomino

Faceva un caldo soffocante quella notte in cui uccisi la mia piccola Aldonza. Il profumo del gelsomino era denso e dolciastro. Il silenzio della notte era squarciato dal latrato di un cane.

 Non ricordo se ci fosse la luna nel cielo; ma se ci fosse stata, non avrebbe potuto impedirsi di velare il suo volto per la vergogna e il dolore, mentre la vecchia pianta di gelsomino si contorceva, salendo su per gli spalti del castello a riempire l’aria con l’essenza inebriante dei suoi mille fiori bianchi, così piccoli e così impertinenti.

Quella notte di agosto, io, Antonio Piero Barresi, principe di Militello e signore della terra, consumai il delitto più odioso: mi vendicai dell’innocenza e della purezza. In preda all’ira e alla gelosia, strangolai mia moglie, dopo averla tormentata per ore con domande crudeli e meschine, mentre lei mi guardava sempre fisso negli occhi, negando fieramente ogni colpa.

Spezzai il suo corpo, così fragile e così pervicace come i fiorellini del gelsomino, finché non si afflosciò fra le mie mani, senza opporre più alcuna resistenza. Ma non riuscii a spegnere la luce dei suoi occhi verdi, che mi fissavano ancora dal bel volto senza vita e che continuano a fissarmi tuttora, ovunque io vada.

Se sono sfuggito alla giustizia umana, per via del mio rango, giacché nessuna Corte Criminale ha osato condannarmi, non posso certo sfuggire alla mia coscienza, che è implacabile. Da anni digiuno spesso e mi privo di tutte le comodità. Dormo sul pavimento, ai piedi del letto che ci accolse entrambi, Aldonza e io, ai tempi felici della nostra unione, a contatto con la pietra dura e fredda, come dura e fredda è la pietra che pesa sul suo corpo.

Avevo incontrato Aldonza per la prima volta nel castello di suo padre, Raimondo Santapau, marchese di Licodia. Avevo desiderato possedere i suoi pensieri, prima ancora che il suo corpo. Esile e slanciato, esso non aveva certo la forza di seduzione prepotente delle contadine dalle forme morbide che avevano frequentato il mio letto. I suoi capelli castani erano raccolti in una lunga treccia dai riflessi colore del rame e gli occhi erano di un verde caldo e profondo come l’Oriente, con pagliuzze dorate disseminate in mezzo all’iride e concentrate intorno alla pupilla. Avevano una bellezza ammaliante, luciferina.

I primi mesi dopo il matrimonio furono i più felici. Aldonza era innamorata e l’amore la rendeva bella e florida come una rosa nel suo pieno splendore. Ma c’erano momenti in cui la sorprendevo assente e distaccata, come se i suoi pensieri fossero volati via, chissà dove, inaccessibili al mio possesso. Alle mie domande non sapeva dare una risposta e talvolta aveva una tale difficoltà a tornare in sé che decisi di non farci caso; faceva parte del suo carattere e io l’amavo troppo, per farla soffrire con la mia curiosità. Del resto, la cosa succedeva più di rado, se l’assillavo con domande.

L’inverno molto freddo e una grave carestia colpì il territorio di Militello. A valle la neve imbiancava i tetti delle case che si stringevano come un gregge impaurito intorno alla chiesa di Santa Maria. Le piante di gelsomino dormivano sotto la coltre gelata, mentre i ramoscelli più sottili si arrampicavano disperati verso l’alto, ma ormai ridotti a un ammasso di arbusti secchi da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Antologia che scricchiolavano al solo sfiorarli.

Aldonza mi aveva chiesto il permesso di ospitare i poveri del paese nei locali adiacenti al cortile del castello, per sfamarli e dar loro un riparo dal freddo. Il suo entusiasmo era insolito e imprevisto, più forte della mia riluttanza. E così decisi di dargliela vinta, come si fa a volte con i capricci delle donne, soprattutto quando non costa quasi nulla accontentarle.

Per settimane il cortile fu occupato da una folla di presenze silenziose che si animava soltanto all’ora della distribuzione del cibo, quando la stessa Aldonza compariva in cima allo scalone per sorvegliare che tutto procedesse con ordine. I miei fratelli mi avevano raccontato che in mia assenza Aldonza scendeva in mezzo a quella gentaglia e si soffermava ad accarezzare i bambini. Quando ero presente, lei non osava mai farlo, né feci mai nulla per incoraggiarla.

Prima che finisse l’inverno dovetti lasciarla, per correre in Spagna al fianco di re Giovanni. Quando giunse il momento di separarci, solo i suoi occhi pieni di lacrime tradivano l’angoscia. Il suo corpo rimaneva immobile, senza un gesto, nella penombra di una fredda mattinata invernale. I suoi pensieri mi erano già preclusi. Nell’istante in cui l’abbracciavo, sentivo che per lei era come se già fossi andato via.

Mi allontanavo in groppa al mio cavallo, seguito dagi uomini più fidati, mentre un vento gelido tagliava la faccia ed entrava nelle ossa. Pensavo ad Aldonza e alla tristezza dei suoi occhi. Mi chiedevo come mai una donna intelligente e colta come lei, che spesso mi aveva affrontato in certe discussioni, dandomi prova della loquacità e delle sue conoscenze in vari campi dello scibile, potesse invece, nei momenti in cui erano in gioco le sue emozioni più forti, restare muta e impassibile, incapace di reagire a qualsiasi stimolo, quasi privata improvvisamente dello spirito. Forse era un suo modo speciale per difendersi dalle aggressioni del mondo: opporre sempre una superficie dura e impenetrabile, come la pietra che non conosce il dolore.

Avevo affidato l’amministrazione dei beni al fedele segretario Pietro Caruso. Ci tenevo che vegliasse sui miei fratelli Luigi e Cola, più volte incoscienti e buoni a nulla. Per questa ragione chiesi a Pietro di essere duro con loro e di non soddisfare sempre le loro continue richieste di denaro. Magari avessi potuto immaginare che ciò sarebbe stato causa di tanto odio!

i dalla Spagna in piena estate e mi fermai per pochi giorni a Palermo per risolvere alcune questioni. Fu qui che mi raggiunse un messo che i miei fratelli avevano inviato per portarmi la notizia che Aldonza e Pietro erano diventati amanti e se la spassavano fra feste e ricevimenti.

Non potrei dire con assoluta certezza, se davvero credetti a quell’infamia. Ma essa, per il solo fatto di essere stata pronunziata, mi fece perdere il lume della ragione, e da quel momento diventò impossibile per me discernere la verità dall’inganno. Ecco il motivo dei silenzi e delle stranezze! Ecco spiegato tutto! Adesso mi era tutto chiaro come la luce del sole.

Come furia scatenata lasciai la città e mi lanciai al galoppo in direzione di Militello. Mille pensieri assalivano la mia mente e opprimevano il mio cuore. E se davvero Aldonza mi avesse tradito? Pietro Caruso era un uomo molto galante e di bell’aspetto, talmente da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Antologia abile nella danza, che lo chiamavano “Bieddupedi”. Mi sembrava di vederli, mentre danzavano, e magari ridevano, mentre si abbandonava a gesti e parole che un tempo erano stati solo per me.

A dire il vero, non riuscivo a credere che la mia piccola Aldonza avesse potuto farmi questo. Ma c’era un’idea che mi torturava ed era che, seppure innocente, Aldonza era ugualmente colpevole, per aver fatto sì che una tale infamia andasse per il mondo a macchiare il mio nome.

Giunsi a Militello sul calar della notte, in uno stato di sovreccitazione indicibile. Mi precipitai da Pietro e lo torturai per farlo parlare, ma non riuscii ad ottenere alcuna ammissione di colpa. Lo trascinai sugli spalti del castello e tornai alla carica con le domande, minacciando di buttarlo di sotto.

Non so, forse avrebbe ancora potuto salvarsi, se avesse continuato a negare. Ma all’ultimo momento Pietro non seppe rinunciare a prendersi una rivincita sulla mia caparbietà e insinuò: “Signore, io non ho mai fatto simile peccato, nè mai mi è venuto in mente di farlo, ma, ad ogni modo, se l’avessi fatto, tornerei a farlo”.

Persi il controllo. Il profumo del gelsomino era troppo forte. L’afa era davvero insopportabile. Ero come una furia scatenata, mentre spingevo giù quel disgraziato e in un baleno lo raggiungevo sulla piazza sottostante. Era ancora vivo. Ma non avevo saziato la mia sete di vendetta. Lo legai alla coda del cavallo e lo trascinai per le strade del paese, fino alla casa di sua madre.

A quella vista, la vecchia rimase impietrita dal dolore. Non potevo tollerare l’atteggiamento fiero e le imposi di cantare e suonare con il tamburello davanti al corpo straziato del figlio.

Poi, fu la volta di Aldonza. Ritornato al castello, ordinai che me la conducessero davanti e cominciai a tempestarla di domande crudeli e incalzanti che non sortivano altro effetto, se non quello di farla irrigidire, fiera e dignitosa com’era. Afferrai il suo collo esile e strinsi con rabbia, fino a sentire il respiro smorzarsi in un rantolo leggero.

Calda era quella notte in cui uccisi la mja Aldonza, e denso e dolciastro il profumo del gelsomino. Si sentiva solo il latrato di un cane.

Non so quanto tempo la strinsi ancora e non so se ci fosse la luna alta nel cielo. Quando tornai in me e mi resi conto che era morta, chiamai le guardie e ordinai di appenderla con una corda alla cisterna del baglio.

Fu l’ultima volta che la vidi, la piccola Aldonza! Rimase appesa per tutta la notte, finché qualcuno la tirò giù e la depose in una fossa accanto alla chiesa di Santa Maria. Ma il suo spirito torna spesso a trovarmi per rimanere a guardarmi muto e silenzioso.

Allora il profumo del gelsomino invase l’aria con i suoi effluvi nauseanti, e da lontano si udì un canto triste. Una voce sommessa che ripete all’infinito le parole con cui una vecchia madre, ballando sul cadavere del figlio, mi ha maledetto per sempre: Autu signuri ccu ssa biunna testa mi fai cantari ccu la dogghia in cori a ogni santu veni la so festa e a tia, signuri, viniri ti voli Brigida Fagone.

Brigida Fagone

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 51-53.




Una rilettura in chiave poetica di uno sport a due ruote

Una rilettura in chiave poetica di uno sport a due ruote 

I soliloqui del passista. Breve storia del ciclismo in versi di Antonino Cangemi è una raccolta di poesie corredata di brevi note biografiche dedicate ai grandi campioni dello sport su due ruote. L’autore, a cui non manca una buona dose di autoironia, invoca in apertura l’intervento della musa, come un cantastorie dell’antichità classica, affinché lo assista nell’impresa che si accinge a compiere: «Cantami o diva / lo stridore dei tubolari / sull’asfalto / la leggenda popolare / di storie vecchie e nuove». 

Cangemi affida alla sublimazione letteraria uno sport che inaspettatamente si rivela permeabile a una profonda rilettura in chiave poetica e leggendaria. E questo in virtù soprattutto della particolare natura della disciplina che, nata povera e lontana dai fasti degli sport più alla moda, conserva tuttora un fascino impagabile derivante non solo dalla fatica smisurata che mette a nudo l’umanità dei suoi novelli eroi, ma anche dal contatto con lo scenario naturale che le fa da sfondo, di cui essa mette in risalto la bellezza suggestiva, spesso ancora selvaggia e incontaminata. 

Le note biografiche accompagnano di pari passo i ritratti poetici, completando e illuminando con rara arguzia situazioni e caratteri. Ampio spazio è dedicato alla figura di Coppi, alla sua rivalità con Bartali e all’amore travagliato con la «dama bianca», di cui furono piene le cronache rosa degli anni Cinquanta. Coppi incarnò il mito del ciclismo. Proprio nella poesia a lui intitolata, il personaggio reale sembra volutamente eclissarsi per cedere il passo al mito, felicemente reso dall’Autore nell’immagine dell’uomo che «si lasciava guardare negli occhi / nessuno osava a quel punto parlare / gli occhi che videro – gli ultimi occhi – / su quei tornanti Coppi arrivare». Gioco sottile di specchi che insinua atmosfere surreali di dialoghi muti fra anime. 

Cangemi non dimentica nessuno, neanche i gregari e i cronisti del Giro. E neppure la pioniera del ciclismo femminile, Alfonsina Strada, «paladina remota / di nobile causa / un giorno proclami / s’alzeranno nel cielo / uguali diritti / tra uomini e donne / stessi poteri / a chi porta le gonne». Eroica, perché vinse 36 corse contro ciclisti di sesso maschile e nel ’24, già in pieno fascismo, le fu consentito di partecipare al suo unico Giro d’Italia, figurando fra i 30 su 90 partecipanti che riuscirono a completarlo. 

Gli anni Sessanta vedono il trionfo di un altro eroe leggendario del ciclismo italiano, Felice Gimondi: «vanitoso e fiero / come una donna / sul viale di Sanremo / mentre la folla / che tanto l’ amava / lo inondava di fiori». Poi, nel decennio successivo, il fenomeno del doping giunge a gettare ombre inquietanti sul binomio ciclismo-poesia, contaminandolo e affliggendolo fino ai giorni nostri con i suoi risvolti tutt’altro che sublimi ed eroici. 

Riuscirà il ciclismo a vincere il confronto con le tentazioni sempre più invadenti di una gloria effimera e di basso profilo? È questa la domanda che si pone il poeta, lasciando però spazio, nell’ultima lirica (quella dedicata a Damiano Cunego) alla luce della speranza: «chiediamo di più / la vittoria senza inganno / siringhe o pastiglie / il volto pulito / sporco di sudore / d’eterno ragazzo». 

Brigida Fagone 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 58-59.