Intellettuali e impegno politico
Il tema del rapporto tra intellettuali ed impegno politico è un tema antichissimo che riguarda aspetti importanti: il rapporto fra teoria e prassi, fra cultura e politica, fra il dominio delle idee e il puro dominio etc. Tutte le volte che viene in discussione quale sia il compito degli intellettuali nella società, con tutti i problemi connessi, fra i quali occupa un posto importante se essi costituiscano un ceto o una classe, se abbiano una loro funzione specifica e quale essa sia, molti introducono il discorso sulla divisione fra lavoro manuale e intellettuale, sulla progressiva estensione del secondo rispetto al primo, sulla disoccupazione intellettuale.
Ha fatto notare il filosofo Norberto Bobbio (Voce “intellettuali” in Enciclopedia del Novecento, Istituto dell’enciclopedia Treccani, Roma 1978), che ciò che caratterizza l’intellettuale non è tanto il tipo di lavoro quanto la funzione: un operaio che svolga anche opera di propaganda sindacale o politica può essere considerato un intellettuale , per lo meno i problemi etici e conoscitivi del suo impegno sindacale e politico sono quelli stessi che caratterizzano il ruolo dell’intellettuale: qual è l’incidenza delle idee sulle azioni? È lecito distorcere i fatti per raggiungere uno scopo pratico? Come si colloca la sua attività nell’ambito del potere costituito o costituendo?
È necessario, dunque, definire la categoria in modo non tanto larga da comprendere tutti i lavoratori non manuali, non tanto stretta da comprendere soltanto i protagonisti (Platone,Cicerone, Erasmo, Machiavelli, Kant, Kierkegaard o Nietzsche, Lenin o Gramsci.) Su questa base si possono operare delle distinzioni. La distinzione più ovvia è quella che si rifa al criterio delle “due culture”: da un lato gli umanisti, i letterati, gli storici, dall’ altra gli scienziati. Ricorre frequentemente anche la distinzione fra intellettuali creativi o innovativi e quelli ricettivi o ripetitivi. Altra opportuna distinzione è quella tra “ideologi” ed “esperti” che corrisponde alla distinzione tra intellettuali-filosofi e intellettuali-tecnici. “Ideologi” sono da intendere coloro che forniscono idee-guida, per “esperti” coloro che forniscono conoscenze mezzo. Gli ideologi sono coloro che elaborano principi in base ai quali un’azione si dice razionale; gli esperti sono coloro che suggerendo le conoscenze più adatte per raggiungere un determinato fine fanno sì che l’azione vi si conforma possa essere razionale secondo lo scopo.
Ogni società in ogni epoca, come vedremo pur rapidamente più avanti, ha avuto i suoi intellettuali, o più precisamente un gruppo più o meno esteso di individui che esercitano il potere spirituale o ideologico contrapposto al potere temporale o politico, un gruppo cioè di individui che corrispondono per la funzione che svolgono a coloro che oggi chiamiamo intellettuali. Ma per quanto ogni società in ogni epoca abbia nel suo seno i rappresentanti di quel potere che a differenza del potere economico si esercita con la parola, e più in generale attraverso segni e simboli, oggi, quando si parla di intellettuali, ci si riferisce a un fenomeno caratteristico del mondo moderno.
Non si può dissociare il significato di “intellettuale” dal significato di “intelletto” e “intelligenza”, e quindi dall’uso prevalente di operazioni mentali e di strumenti di ricerca che hanno un qualche rapporto con lo sviluppo della scienza.
Il precedente più convincente degli intellettuali di oggi sono i philosophes del Settecento, ma occorre aggiungere che l’aumento di coloro che vivono non soltanto per le idee ma anche di idee, è dovuto alla stampa e alla facilità con cui i messaggi trasmissibili attraverso la parola possono essere moltiplicati e diffusi.
La Riforma, le guerre religiose, la rivoluzione inglese, quella americana e francese, scatenano la produzione e la diffusione di una miriade di scritti che nelle età precedenti sarebbe stato impossibile immaginare. Nelle città greche la forza delle idee si rivelava attraverso la parola: la figura tipica dell’ intellettuale era l’oratore, il retore, in senso spregiativo il demagogo. Dopo l’invenzione della stampa la figura tipica del l’ intellettuale è lo scrittore, l’autore di libri, libelli, e poi di articoli su riviste e giornali.
Per Kant l’illuminismo è strettamente connesso all’ “uso pubblico della ragione” sviluppato attraverso l’impegni degli intellettuali. Attraverso l’ uso della radio e della televisione si è allargato enormemente lo spazio e l’ influenza della parola e delle comunicazioni di massa.
La caratteristica fondamentale del moderno ceto degli intellettuali è stata la formazione di una sempre più vasta opinione pubblica. Con lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con l’affermarsi di quella che è stata definita, in modo piuttosto impreciso, “società dell’informazione” la stessa attività lavorativa diventa sempre più intellettuale.
Il contesto storico-politico ha da sempre condizionato la considerazione che del proprio ruolo avevano l’intellettuale e l’artista, indirizzandola di volta in volta nel senso dell’impegno o del disimpegno, più o meno marcati che fossero. ‘L’arte per 1’arte’ o ‘l’arte per la vita’ sono formule che riflettono due maniere antitetiche di considerare prerogative e finalità dell’ atto artistico, che, in ultima analisi, scaturiscono dalle effettive condizioni della società in cui vive l’intellettuale che se ne fa portatore.
La produzione ermetica di Quasimodo, ad esempio, non si può comprendere appieno se si prescinde dal clima culturale degli anni ’30, nel quale il poeta opera; allo stesso modo la valutazione della produzione letteraria e cinematografica neorealista non può non tenere in considerazione il tormentato clima della guerra partigiana, prima, dell’immediato dopoguerra, poi, che la alimenta e, se così si può dire, la provoca.
Da questo punto di vista, è altamente emblematica la variazione delle prerogative dell’ intellettuale nella Grecia antica, in ordine ai mutamenti politico-istituzionali intervenuti nel corso dei secoli all’interno della società ellenica, col passaggio dalle libere poleis ai regni ellenistici. Ad Atene, nel V secolo, dove la gestione dello Stato implicava la partecipazione del singolo cittadino alla cosa pubblica, rendendo ogni ateniese zoon politikon, la dimensione politica era connaturata all’attività dell’intellettuale. Il disimpegno, in tale contesto, è inconcepibile. Si pensi alla più grande creazione artistica della polis, il teatro, ed alla fondamentale valenza politica che il dramma aveva nel contesto comunitario, sintesi di performance, assemblea e rito.
Dopo la sconfitta ateniese nella guerra del Peloponneso e la fase ad essa seguita – con la dittatura, prima, dei cosiddetti ‘trenta tiranni’; poi, con l’ instaurazione di un regime democratico che condannò a morte l’uomo ‘più giusto’, Socrate – gli intellettuali iniziano ad interrogarsi sulle ragioni profonde della crisi della polis, cercando di proporne delle soluzioni etiche e politiche assieme. È indirizzata in tal senso la riflessione filosofica del più grande pensatore greco dell’antichità, Platone, il fondamento politico della cui speculazione filosofica è noto a tutti. Egli stesso ce ne parla nella famosa VII lettera, da lui scritta in età avanzata, nella quale, in ultima analisi, auspica l’avvento di una società di filosofi al potere.
Nato in una famiglia aristocratica, da giovane Platone pensa di darsi alla politica attiva, guardando con speranza al regime oligarchico dei Trenta Tiranni,
instauratosi nel 404 a. C., di cui fanno parte alcuni suoi parenti e conoscenti. Ma il futuro filosofo rimane fortemente deluso dagli eccessi di quel regime, come, in seguito, anche dall’ esperienza democratica di Trasibulo, ad esso seguita, che nel 339 condanna a morte il suo maestro, Socrate. È soprattutto tale drammatico evento ad indurre Platone a ritirarsi dalla politica attiva ed a convincerlo sempre di più della necessità di una riforma della politica a partire da una rifondazione del sapere.
Solo la filosofia può rappresentare il punto di riferimento fondamentale del filosofo. Solo in virtù della vera filosofia, infatti, è possibile vedere tutto ciò che è giusto sia nell’attività pubblica sia in quella privata. E perciò le generazioni umane non si sarebbero affrancate dai mali, prima che gli autentici e veri filosofi non fossero giunti ai vertici del potere politico, oppure i potenti non si fossero messi a filosofare veramente. Si può dunque dire che Platone considera il ruolo dell ‘ intellettuale come fondato sull’impegno.
Tale impegno viene decisamente meno in età ellenistica con il mutare delle condizioni politiche. Le poleis elleniche perdono l’indipendenza ed entrano a far parte, prima, del regno macedone di Filippo, poi, dell’ impero universale di Alessandro, infine, dei regni ellenistici dei diadochi. In un contesto politico in cui le decisioni sono appannaggio esclusivo del monarca, all’individuo non è più data la possibilità di condividere le scelte comuni: il cittadino si è trasformato in suddito. Conseguentemente, anche l’opzione obbligata dell’ intellettuale diventa quella del disimpegno.
Esemplare in tal senso la figura di Callimaco, il poeta ufficiale di corte della dinastia dei Tolomei ad Alessandria – città diventata, fra l’altro, il centro culturale più importante del mondo ellenistico – dapprima sotto il Filadelfo, poi sotto l’Evergete. Callimaco non si rivolge più alla collettività, ma ad una cerchia ristretta di individui che condividono con il poeta conoscenze ed interessi. E, del resto, in tal senso va anche la diffusione della fruizione scritta dell’ atto letterario a scapito di quella orale. Bruno Snell definisce Callimaco e gli altri poeti suoi contemporanei, ‘post-filosofici’, poiché “non credono più nella possibilità di dominare teoricamente il mondo” e, allontanandosi dall’universale, “si rivolgono con amore al particolare”. Nel prologo alla seconda edizione degli Aitia così esorta il lettore: “Giudica la mia sapienza secondo l’arte e non col metro persiano”. Risultano ancora illuminanti le parole di Snell: “(Callimaco) non cerca altra misura dell’arte che non sia l’arte stessa. Tutte le composizioni poetiche precedenti avevano un significato che trascendeva la poesia, e anche quando la poesia perdette col tempo la sua funzione sociale i poeti si preoccuparono di cogliere significati nuovi e oggetti vi, […] mentre Callimaco giudica l’arte soltanto secondo il suo valore artistico. Con ciò egli si rivolge a un nuovo e particolare pubblico. La tragedia attica parlava ancora all’intero popolo, ora invece una ristretta cerchia di persone colte era chiamata a esprimere il suo giudizio.”
Anche a Roma, come in Grecia, i mutamenti politico-istituzionali condizionano
fortemente prerogative, ruoli e funzioni della figura dell’intellettuale, sui quali, però, influisce anche lo status sociale di appartenenza. Infatti in questa sede non facciamo riferimento certamente ai primi scrittori in lingua latina, che non erano non soltanto espressione della classe dominante, ma neppure cittadini romani, e non partecipavano dunque alla res publica, ma a quegli intellettuali che appartenevano alla classe di cives che detenevano il potere politico all’interno dello Stato. Si pensi a Cicerone o a Sallustio, fra gli altri.
Per tutta l’età repubblicana la personalità del civis viene giudicata sulla base
dell’ impegno politico e l’ otium è concepito soltanto come tempo libero dal negotium. Cicerone è uomo politico, prima di essere scrittore, anche se soprattutto
scrittore di cose politiche. L’evento che più d’ogni altro contribuisce a modificare l’impegno dell’intellettuale è, senz’altro, il passaggio istituzionale dalla Repubblica al Principato. Con il regime inaugurato da Augusto, infatti, lo spazio di azione politica che al civis viene lasciato è senz’altro poco rilevante rispetto a quello gestito dalla corte imperiale. L’azione dell’intellettuale non può più essere propositiva, ma solo consultiva. Il suo luogo d’azione non è più il foro, ma la corte. Il suo più grande merito politico può essere, tutt’ al più, la formazione di un princeps illuminato.
Sull’importanza decisiva di questo cambiamento istituzionale si sofferma Tacito nel prologo delle Historiae, quando afferma che dopo la battaglia di Azio, e dunque quando il potere si concentrò nelle mani di uno solo, magna ingenia cessere. In questo passo Tacito si riferisce, in particolare, alla crisi della storiografia, che sfocia nella corruzione, nell’adulazione, nell’invidia e nel servilismo di chi, persa definitivamente la possibilità di incidere nella gestione della cosa pubblica, diventa un vero e proprio suddito, che riceve ordini dall ‘alto e sconosce i reali problemi dello Stato. Ma identica è la causa della crisi della retorica, secondo Materno, portavoce del pensiero tacitiano nel Dialogus de oratoribus. Per attecchire, l’eloquenza ha bisogno di un clima politico arroventato, in cui ci sia spazio per le sedizioni, per la sfrenatezza popolare, per i conflitti fra i partiti. Essa è, cioè, alumna licentiae, quam stulti libertatem vocant. Per questo, secondo Materno-Tacito, l’eloquenza ha avuto un enorme successo durante l’età delle guerre civili, mentre il principato, eliminando tutto ciò, ne ha indirettamente impedito lo sviluppo. A conti fatti, secondo lo storico, tutto ciò non è un gran male, in quanto il principato, negando l’abuso della libertas, ha assicurato la pace sociale.
Il percorso intellettuale di Seneca dall’impegno al disimpegno è particolarmente indicativo dell’incidenza decisiva che la realtà effettuale ha sulle scelte del singolo. Posto che, per lui, l’impegno politico di un filosofo si può estrinsecare, solo indirettamente, nell’opera di educazione e formazione del princeps illuminato, vero ed unico garante dell ‘ordine e della concordia dello Stato – come viene sostenuto nel De clementia e messo in pratica nei primi cinque anni del principato neroniano – l’opzione per la vita attiva, fatta nel De tranquillitate animi, viene superata nel De otio in favore di quella contemplativa, solo nel momento in cui l’influenza di Seneca sulle scelte politiche di Nerone viene meno, mentre si accentuano gli aspetti di spotici ed autoritari del regime.
Con l’affermazione dell’intellettuale rivoluzionario contro il potere costituito in nome di una classe e per la instaurazione di una nuova società, e con l’affermazione dell’intellettuale puro che lotta contro il potere in quanto tale in none della verità e della giustizia, venivano proposti i due temi fondamentali del ruolo dell’intellettuale nella società che spesso saranno in contrasto fra loro e rappresenteranno i due poli del dibattito insoluto che giunge sino ai nostri tempi. Entrambi l’intellettuale rivoluzionario e l’intellettuale puro, hanno in comune la coscienza dell’importanza del proprio ruolo nella società e della propria missione nella storia onde si potrebbe parlare – e si parla spesso a ragion veduta dell’eterno illuminismo degli intellettuali: per il primo vale il principio che non si fa rivoluzione senza una teoria rivoluzionaria che di conseguenza la rivoluzione deve avvenire prima nelle idee prima che nei fatti; per il secondo, il principio che la ragion di Stato, la ragion di partito, di nazione o anche di classe, non deve mai
prevalere sulle ragioni imprescrittibili della verità e della giustizia.
Il sociologo tedesco Max Weber fu rigorosamente contrario alla contaminazione fra l’opera dello scienziato (Fine Ottocento-primi del Novecento) e quella del politico e del moralista. Per Weber l’unica impresa umana che doveva guidare la ragione era la scienza. Nel 1918 Weber in una celebre conferenza esaltava la scienza come professione e come vocazione, l’intima dedizione al lavoro dello scienziato e dell’insegnamento universitario che è certamente indicato per i profeti e i demagoghi.
Anche l’italiano Antonio Gramsci elabora una sociologia degli intellettuali nei Quaderni del carcere scritti durante la detenzione fascista. La tesi dell’intellettuale organico è la risposta critica alla tesi dell’intellettuale indipendente. Se ogni classe ha i suoi intellettuali organici, anche la nuova classe avrà o dovrà avere i suoi intellettuali organici, ma saranno diversi da quelli tradizionali: l’intellettuale tradizionale è l’umanista, illetterato, l’oratore, il cui modo d’essere essenziale è l’eloquenza; il nuovo intellettuale, invece sarà insieme specialista (o tecnico) e politico (Gramsci usa la formula specialista + politico = dirigente). Questi in quanto politico non può trovare altra sede per l’esercizio della sua specialità che il partito, cui incombe in primo luogo, come partito della classe operaia, il compito della riforma morale e intellettuale della società.
Che la rivoluzione dovesse essere guidata da uomini illuminati era un’idea che veniva da lontano.
Già Marx, in un articolo giovanile, aveva enunciato le sue celebri tesi che “la teoria diventa potenza materiale non appena si impadronisce delle masse”, che “la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali così come il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali”.
L’intellettuale politico e l’intellettuale puro rappresentano due modelli positivi, anche se spesso l’uno è negativo per l’altro. Esiste un contrasto che può essere di volta in volta composto, mai definitivamente superato. E sino a che il contrasto esisterà, si continuerà a discutere del problema degli intellettuali.
Salvatore Costantino