Una prosa d’impegno 

I. Marusso. Un uomo per una folle speranza Mafia e droga nella Sicilia occidentale viste da vicino, Ed. Bastagi. Foggia. 1990. pagg. 100. 

Con questo libro Irene Marusso ha mantenuto la promessa. La “Trilogia del malessere”. già annunciata qualche anno fa, ora è completa, ed anche felicemente perché il libro che la conclude ha diversi motivi di validità, come cercherò di dimostrare. 

Quali sono questi motivi? Prima di ogni altro, il modo di mantenere e integrare la coerenza e la organicità del disegno. Sono volumi legati fra di loro da quella che potrebbe dirsi una struttura profonda, cioè, un motivo di base che li percorre tutti e che si identifica con la sensibilità per certi problemi umani che nella sostanza sono problemi di sempre, ma che oggi, per il duplice motivo che, purtroppo, li conosciamo direttamente nella vastità del loro manifestarsi, li viviamo quasi quotidianamente. ci sembrano esclusivi del nostro tempo. 

È così che, dopo averci presentato con “Una moglie frigida” le complicazioni di un esistenziale rapporto coniugale reso difficile dalla routine e dall’intrecciarsi di situazioni scabrose, e dopo averci fatto riflettere con “Umanità alla sbarra” sul rifiuto che questa nostra società oppone ad esseri umani segnati, contro la loro volontà, da passioni amorose sconvolgenti, Irene Marusso ora, con questo “Un uomo per una folle speranza” sollecita le nostre considerazioni sulla problematicità di un riscatto morale e sociale che, pure perseguito ad alta voce da tanti programmi e dichiarazioni ufficiali, tarda, purtroppo, ad arrivare a soluzione. ed anzi pare allontanarsene ogni giorno di più. 

Sotto la spinta dell’interesse per i problemi umani. che è alla base di tutte le opere, non soltanto di narrativa, ma anche nelle liriche e negli scritti giornalistici. Irene Marusso si è soffermata sulla vicenda di un uomo che lotta per dare realtà a una speranza veramente bella. ma che alla fine si rivela solo “folle”. Ma il titolo non deve fuorviare. 

Un libro come questo va considerato sotto due aspetti: quello letterario e quello storico-sociale. Sono due aspetti che sembrano abbastanza distinti, ma se si guarda più a fondo nel caso specifico si scopre che l’ambientamento spazio-temporale è parte integrante del racconto, e gli fa da imprescindibile base. Tale ruolo è svolto, per un lato, da una Sicilia tratteggiata nei suoi elementi più tipici, essenziali e realistici, in un modo che si evidenzia l’amore di Irene Marusso per la sua terra. dall’altro dal richiamo di taluni eventi caratterizzanti la storia più recente. In questo quadro le due vicende di amore vissute dai protagonisti. sia quella brevissima ma intensa con la dolcissima Cincin. la giovane vietnamita conosciuta nella giungla sconvolta dalla guerra, sia quella più durevole e determinante intrattenuta con Caterina, costituiscono l’ordito su cui vengono a interessarsi le trame sottili di un messaggio che consiste non nella rivelazione di un sistema risolutorio. ma nella indicazione di un problema di vasta portata sociale animata dall’intento di richiamare su di esso la necessaria attenzione da parte di tutti. 

Io non credo che Irene Marusso abbia raccontato solo per il gusto di raccontare. Ha raccontato certo perché ne ha l’attitudine e nello scrivere si realizza, ma il suo racconto ha dato. secondo me, consapevolmente, il valore di un invito ad aprire gli occhi sull’epoca in cui viviamo, sì da andare a capire com’è che essa è quella 

che è. attraverso quali eventi e per quali eventi e per quali più o meno palesi ragioni essa sia arrivata ad essere tale, invogliandoci, quindi a vivere con utile consapevolezza e adeguata maturità. Se così non fosse, avrebbe dato al suo romanzo quel sottotitolo che campeggia così ben circostanziato sulla copertina: “Mafia e droga nella Sicilia occidentale viste da vicino”. Così il triste fenomeno risulta documentato negli accadimenti e nella crudezza dei suoi effetti, constatato nella disumanizzazione di cui è causa, accusato in tutta la sua perfida potenza di disgregazione e di annientamento. Ed è proprio per assicurare la chiara percezione di questa base storico-sociale che qua e là il racconto cede spazio a sintetici ma lucidi richiami di eventi storici che, se pur coevi a molti di noi, noi stessi abbiamo quasi dimenticato sotto l’urgere degli obblighi quotidiani. il progressivo rinchiudersi nel privato e l’incalzare di nuove esperienze. 

Sono passi che hanno l’impronta di excursus storici e il pregio della sobrietà e della chiarezza, nonché quello dell’oggettività, in quanto da essi non traspare, tantomeno emerge. alcuna presa di posizione preconcetta contro chicchessia. Quel che invece balza fuori ben chiaro. attraverso l’evidenza assicurata a certi dati raccapriccianti, è la denuncia degli errori in cui gli uomini incorrono a dei danni di vario genere che tali errori inevitabilmente producono. Si vedano, per esempio, i flashs sulla guerra del Vietnam: narrazioni e descrizioni soltanto, ma tanto efficaci quasi quanto le insistite sequenze che una recente cospicua filmografia di produzione americana ha mandato in giro per il mondo quasi a confessare un sanguinoso reato contro l’umanità innocente, e a recitare il mea culpa. E si leggano tra le righe anche le notizie dei delitti di mafia, scarne ed essenziali, annotate come in un rapporto di cronaca, eppure così funzionali a produrre avversione contro un così triste e discreditante fenomeno. Per contro, non mancano parole di plauso, e quasi di gratitudine, per chi offre attiva collaborazione e aiuti concreti a iniziative animate dal serio proposito di togliere di mezzo ogni motivo di malessere. 

Comunque, il contributo migliore al trionfo della causa giusta viene dall’andamento della vicenda che fa da nucleo sostanziale a tutta l’opera. 

Questo giovane mutilato che sopperisce con la fede nei suoi giusti principi, con la vivacità della sua intelligenza. con la fermezza del carattere e la tenacia dei sentimenti alla quasi impossibilità di muoversi. e che, nonostante l’immobilità fisica cui è condannato. riesce a muovere tante di quelle persone che l’avvicinano, e che egli arriva ad avvicinare, e a dare ad esse tanta fiducia nella vita, è un tipo umano che si propone come esempio a una società che sempre più spesso va perdendo la nozione e il senso di quel che significa veramente impegno civile ed umano. Purtroppo, alla fine egli soccombe, e così pare che il male sia invincibile o, che è lo stesso, che le sue forze siano superiori a quelle del bene. Visto che il successo che arrideva agli onesti propositi di questo benefattore viene meno, pare legittimo che il pessimismo tomi ad avere il sopravvento. Per altro, se sospendiamo la lettura del libro e poniamo mente alla cronaca di tutti i giorni, e alle brutte esperienze che spesso ci tocca fare per strada, negli uffici, e persino dentro le stesse pareti domestiche, dobbiamo, se pure a malincuore, riconoscere che il pessimismo sul nostro presente e, ahimè, sul nostro futuro, ha maggiore fondatezza dell’ottimismo. Ne è rimasta condizionata pure Irene Marusso, che certo sarebbe rimasta fuori della realtà se avesse concluso trionfalmente la sua storia. Anche perché chi conosce le sue opere sa bene che da esse è bandito sistematicamente il lieto fine, forse anche per adesione a quel principio cui diede massima notorietà, in epoca di neorealismo, un critico cinematografico quale Giuseppe Chiarini, quando scrisse: “il lieto fine è immorale”. 

C’è, però, una precisazione da fare: la fine tragica del protagonista non deve assolutamente significare sconfitta e invito alla resa. Vale, invece, come testimonianza e come avvertimento. Vorrei che ci riportasse fuori dal gretto materialismo imperante ai nostri giorni verso quei bei tempi di realismo romantico di cui gli eroi, anche se soccombenti, deliberatamente votatisi al sacrificio, erano in realtà i veri vincitori: primo, perché a differenza dei loro nemici potevano agire fuori dalle tenebre e dall’ombra ed, anzi, alla piena luce del sole, poi, perché la loro fine, quando si verificava, era il principio della riscossa, di una lotta più coraggiosa e sagace per l’affermazione dei propri ideali. Penso specificatamente, in letteratura, agli eroi alfieriani e, nella storia di tutti i tempi, anche i più recenti, e di tutti i luoghi, alla folta schiera di martiri che presto o tardi riescono a prevalere e ad ottenere il riconoscimento del giusto diritto dei propri ideali e del grande valore delle azioni da essi ispirati. 

In questa ottica credo che Irene Marusso chieda si legga la conclusione della “trilogia» di cui è autrice, e in particolare quella del suo terzo momento. Rifiuto decisamente l’idea di una Irene Marusso che presta la sua voce a certo pessimismo progrediente. Che se poi qualcuno dei lettori gradisce solo racconti di vicende di singoli, narrazioni di fatti di amore con tutta la vasta e varia gamma dei loro momenti, può trovare pure questi nel libro di cui parliamo; e sono fatti raccontati con buona perizia letteraria nell’impostazione e conduzione dei dialoghi e nella caratterizzazione dei personaggi; tanto gli uni che gli altri hanno quasi tutti i requisiti necessari per interessare e piacere. Si tratta infatti di una storia d’amore raccontata con garbo, con discrezione, con misura, senza nessuna concessione a quell’erotismo che oggi è tanto di moda, neanche in quei passi in cui pur ce ne sarebbe stata l’occasione. Una storia che bada ai sentimenti, più che ai sensi, e li pone in primo piano, e li esprime con mezzi semplici, con il parlare di tutti i giorni, con rapidi tocchi e accenni fugaci, battute essenziali, lasciando che emergano di per sé, e di per sé si impongano all’attenzione di chi legge, e di per sé si imprimano nella sua memoria. Una tecnica narrativa, insomma, di tutto rispetto, e che mi pare anche si presti bene ad una sceneggiatura cinematografica, e quasi la prepari. Ma chi si ferma a leggere questa storia solo come fatto sappia che, in realtà, viene a sottrarre al libro il valore che gli deriva da quell’impegno morale e quindi civile che lo anima pacatamente e che il breve giudizio stampato sull’ultima pagina di copertina pone in opportuna evidenza. 

In altri termini, chi limita la sua attenzione alla vicenda, godrà certo i pregi letterari del racconto ma perderà di vista, colpevolmente e con suo danno, la presenza di quell’impegno di cui dicevo sopra, e che, seppure non enfatizzato, certo è elemento integrante del libro, e quindi merita e richiede di essere adeguatamente valorizzato. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 45-49




V. Monforte, Il padrino di mio padre.

È un libro che merita attenzione. Per vari motivi, ma anzitutto per la sua originalità, che emerge già dalla qualifica di .romanzo amaristico. dichiarata in sottotitolo e che, seppure perseguita programmaticamente, non perde mai l’importante requisito della naturalezza. 

Occorre allora, a intendere correttamente l’opera, cercare una definizione di questa novità che è l’.amarismo•. È definizione non facile. anche se l’autore ci fornisce. nell’avanti-testo, a mo’ di sussidio critico. le caratterizzazioni essenziali di alcune varietà di umorismo letterario con cui l’amarismo ha qualche relazione. Ma sono cenni. appunto. essenziali, riguardano forme poco note, fors’anche perché straniere. e ne indicano. sostanzialmente, l’alterità rispetto all’amarismo. in quanto limitano l’elemento comune a una certa misura di assurdo o di paradossale. Insomma, aiutano poco. Se ne può sapere di più, sull’amarismo, solo prendendo contatto col libro e per esso, in questa sede, con la sua trama. La sintetizzo subito e rimando a dopo l’esame della sua funzione. 

Al protagonista, che è poi persona cui l’autore dà forma di io narrante, capita che, quando è in età di dodici anni, gli nasca il padre! Giacchè ogni neo-nato va battezzato e per battezzare ci vuole il padrino – e il neonato stesso lo reclama con i suoi strilli – il protagonista si assume il compito di trovarglielo. Ma sulla terra ciò è impossibile, perché essa è deserta di uomini (attenzione al doppio senso!), e allora egli, arrampicandosi sulle stelo di una zucca nata da un seme posato entro una buca da lui scavata in terra e arrivata, in appena mezz’ora, a toccare il cielo. lo va a cercare sulla luna. Qui l’amoroso pellegrino viene a conoscere un mondo nuovo, la vera terra, abitato da una comunità di esseri in cui una sorta di profeta, Equatore (nome da intendere in senso etimologico e non geografico), ha realizzato un certo numero di antiche aspirazioni sociali quali l’eguaglianza e la libertà, l’identificazione delle esigenze proprie di ciascuno con quelle dei propri simili, la possibilità di appagare tutte le esigenze proprie, anche quelle naturali, appagando le altrui. Qui, dopo una serie di esperienze soprendenti, il nostro cercatore trova il padrino desiderato, un certo Zero, cioè un non valore. È un tipo anch’esso strano, ora onesto ora corrotto, ora placido ora irascibile, che viene subito meno al suo compito, perché appena arrivato sulla terra scompare. La nuova ricerca il figlio tanto zelante la conduce nel paese di Sitrovantutte, una sorta di aldilà che accoglie uomini che vivono una vita assai strana, non da uomini ma neanche da bestie. Questo paese il protagonista visita guidato da un Vecchio che tutto gli spiega. Zero viene ritrovato e, dopo una lunga serie di contrasti col Vecchio e col giovane, battezza il padre, ma solo attuffandolo in una avvilente palude. 

Una simile trama è, chiaramente, soltanto un pretesto. Appena un canovaccio su cui ricamare un tessuto fittissimo di trovate, di battute, di sottigliezze, di paradossi, di assurdità – tali almeno appaiono di primo acchito – le più ardite e impensate. La qualità più spiccata del Monforte è proprio questa sua capacità inventiva, prima di tutto, formale. Egli inventa sia sul piano dei fatti sia, e più ancora, su quello del linguaggio. Non è un caso che il numero delle vicende sia ridotto entro termini minimi e che il racconto sia costruito quasi tutto attraverso il dialogo. Le didascalie apposte alle battute ed esprimenti, in maggioranza, lo stato d’animo del protagonista hanno sì la funzione di mandare avanti la vicenda ma soprattutto mirano a sottolineare l’eccezionalità di quanto viene detto. 

Fondamentalmente, l’ironia si esercita sulla ideologia che condiziona la vita di quella società. I lunari, ad esempio, nella loro ansia di eguaglianza, hanno abolito i nomi propri e per chiamarsi hanno scoperto che bastano i numeri. 

Costante è il gusto del paradosso. Basti dire che al protagonista la fame passa perchè i lunari hanno mangiato per lui. Il che è ancora un effetto della teoria e della pratica dell’uguaglianza. Tra eguali, infatti. è sempre possibile che ci sia qualcuno che mangi la razione propria e, per gli altri, quella di altri. Anche il lavoro del resto, e come il lavoro il riposo, non sono tutti a farlo: i lunari sono o lavoratori o riposati: ognuno svolge una mansione, ma la svolge anche per gli altri, sia essa il lavoro o il riposo, e fino al punto che i lavoratori morirebbero di stanchezza se non ci fossero i riposati a riposare. Ormai l’intenzione di Monforte è chiara. Egli ha voluto fare oggetto di pungente satira teorie sociali da lui non condivise. Il loro crollo storico, posteriore allibro, gli avrà dato certo una bella soddisfazione. 

Comunque l’opera va apprezzata indipendentemente dall’ideologia che sottintende. Notevole, ad esempio, la varietà dei moduli stilistici: la battuta a sorpresa, le antitesi, i neologismi. 

Ha un certo peso anche la cultura letteraria dell’autore. L’eccezionalità e il conseguente umorismo di certe situazioni hanno chiaro fondamento sul gusto ariostesco del meraviglioso e dello straordinario, così come l’orrido di certi paesaggi e l’imbestialimento di certe figure umane richiamano direttamente certi passi dell’inferno dantesco. Sono, però, elementi che qui hanno tratti più realistici e al tempo stesso altrimenti simbolici. Tutto concorre a creare un’atmosfera pienamente adeguata alla particolare stranezza e cupa novità del luogo, un’atmosfera da ‘visione’ medievale ricostruita dalla mente smaliziata di un uomo dei nostri tempi, un uomo che, impegnando a suo modo buone capacità, di pensare e di esprimersi, si è divertito, diverte, e al tempo stesso induce a qualche proficua meditazione sull’epoca in cui viviamo. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 53-55..




 Linguaggio pittorico di Emilio Guaschino 

Ispira i singoli dipinti di Emilio Guaschino una vasta tematica. È una singolarità che non esclude affinità categoriali valide come fondamenti di legittime aggregazioni e lo dimostrano due elementi che emergono fin dal primo approccio e rimangono costanti. Uno è di tipo contenutistico ed è costituito dall’uomo come soggetto; l’altro, di tipo affettivo, ed è il sentimento con cui l’artista ne osserva la vita, la considera e la rappresenta. È un sentimento di solidarietà, che anima quell’osservazione attenta e si traduce nel dare evidenza non solo alle tante forme di impegno cui il quotidiano problema dell’ esistenza obbliga l’uomo, ma anche agli effetti che ne conseguono e che sono spesso sintomo di pena. Quasi a dimostrare che anche la pittura, come la poesia, sua «consorella» nel molteplice manifestarsi dell’ Arte, ha la sua Musa, il suo motivo ispiratore predominante, nella sofferenza. Viene in mente il Leopardi di: «Ahi, dal dolore comincia e nasce l’italo canto!» 

Questa sofferenza, Guaschino la coglie nell’intimo e la esteriorizza nel suo vario attuarsi. Prevale la rappresentazione del peso della durezza del lavoro: nei campi, nelle miniere, per le strade, nelle occupazioni più umili e faticose, disumananti; la attestano con efficace chiarezza i segni marcati nel fisico e nella psiche. Intervengono, a volte, atti significativi di volontà di reazione a tanto patire, proteste intese ad acquisire condizioni di vita adeguate a dignità umana e si esplicano in tentativi drammatici fino al tragico, quali ad esempio l’eccidio di Portella della Ginestra. 

La sentita partecipazione ai disagi di tanta umanità muove la mano dell’artista che, avvalendosi di assoluta padronanza delle tecniche specifiche, incentrate sulla incisività assicurata dal contrasto fra bianco e nero, unisce realtà e fantasia e trasfigura quei documenti di vita in testimonianze invocanti un doveroso riscatto. Questo significano i lucidi e penetranti occhi aperti su tanti volti di anziani, so1cati da rughe profonde, con tipiche coppole, indicative della sicilianità di questa umanità che vive in una terra tanto amata da questo polentone con cuore di terrone, come si autodefinisce Guaschino, anche se questa Sicilia può ben definirsi una metafora di tanta umanità afflitta in eguale misura. 

Rientrano in questo gruppo di figure umane impegnate in umili occupazioni ragazzi soggetti a privazioni e rinunce fin dagli anni che dovrebbero essere quelli della spensieratezza, che pure viene luminosamente espressa, quasi a dare risalto al contrasto, nei dipinti che raffigurano ragazzi intenti ai giochi. Guaschino assicura inoltre significativo risalto a diverse figure di madri con teneri figli e le spalle avvolte in tipici scialli, che sembrano quasi in attesa di chi tomi dal lavoro; attestano un’esistenza dominata dall’ansia, ma anche una piena coscienza dei compiti inerenti al ruolo, appunto, di madre. Ma alla donna è dedicata una parte cospicua della sua produzione. Sono nudi di donna e sono carichi di sensualità, configurata quasi palpabilmente, per la costante presenza di seni in risalto insieme ad altre curve, e tutti turgidi, prominenti; sono segni di una volontà di significare l’amore nel suo oggi prevalente valore di senso e di sesso e di dare risalto al potere di seduzione che Natura assegna alla donna e che, se è impiegato in funzione di quello che è noto come «il mestiere più antico del mondo», anche perché sublimato dalle particolari pose, riporta tali donne nell’ambito di quel lavoro cui l’Artista ha attinto la dimensione privilegiata della sua tematica, caratterizzandola tutta quanta nell’ambito storico del realismo ma al tempo stesso arricchendola di sentimenti che le assicurano vitalità di poesia.

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 51-52.




 La Sicilia nella letteratura d’oggi: Biagio Scrimizzi 

Quando un autore ha offerto al pubblico un numero anche non grande di opere attestanti personalità ed esse hanno meritato interesse e attenzione, allora è certo legittimo. ed anzi doveroso. tracciare un consuntivo che, sulla base degli elementi costitutivi dell’ispirazione e dell’espressione, aiuti a conoscere meglio, anche a fini valutativi. quella personalità. 

Davanti ad uno di questi casi ci troviamo ora che abbiamo letto gli scritti in versi e in prosa, in lingua e in dialetto, pubblicati uno all’anno negli ultimi quattro anni da Biagio Scrimizzi, siciliano di Naso ma palermitano di adozione, già noto per esser stato, per lungo tempo, redattore di alcune riuscite e seguite rubriche culturali della RAI di Palermo. 

Sono scritti che, sia per la materia sia per la forma, hanno più di un nesso con quei servizi radiofonici. Infatti, come questi svolgevano tematiche relative alla vita e alla cultura del popolo siciliano e al suo ambiente naturale e storico, assicurando a luoghi, usanze, feste, personaggi e istituzioni della nostra terra una divulgazione tanto seria, e quindi utile, perché documentata anche attraverso ricerche sul campo, quanto garbata nella conduzione e gradevole all’ascolto anche per il bel timbro della voce, così anche ora S. si ispira alla cultura (in senso lato) isolana. Più precisamente, nei primi due di questi agili volumetti – Giufà per il verso giusto (1990) e Filastrocche da fiabe e leggende siciliane (1991) – egli ha dedicato attenzione ad un particolare settore di quella vasta tematica, il settore che di solito si definisce folklorico. Lo ha fatto non da filologo o, più in generale, da studioso ma da lettore vivamente interessato e partecipe che quella materia trasforma in occasioni per integrazioni, interpretazioni, ri-creazioni, argute considerazioni sulla attualità perenne di certi aspetti del costume umano. Così, nelle ingenue, ma non tanto, battute di Giufà si viene a scoprire tanta e tanto valida umanità, mentre i miti del popolo siciliano si rimpolpano di una più sapida concretezza e acquistano sostanza più ricca e complessa, una risonanza nuova, che a primo acchito li rende quasi divertenti e poi li fa buoni a fornire spunti ed esperienze alla condizione spesso così distratta e poco riflessiva degli uomini del nostro tempo. Naturalmente, senza l’illusione di proclamare alcun ‘verbo’ ma, semmai, con la convinzione di chi sa che la spontaneità degli ingenui è, a saperla intendere, carica di vantaggi insospettati, uguali a quelli della presunta irrealtà di fiabe e leggende. 

Alla rivisitazione, con conseguente riplasmazione, di Giufà, di fiabe e leggende nostrane, S. fa seguire, nella quarta e, per ora, ultima delle sue opere – Palermo felix ovvero I sogni di Lindo – l’ideazione di un personaggio nuovo. Ha il nome “chiaramente significativo e rappresenta la parte migliore di ciascuno di noi: è onesto, scrupoloso, ligio a tutte le norme della civile convivenza, ingenuamente fiducioso nel senso di responsabilità e nella sostanza d’impegno degli altri” (G. Monaco nella Premessa). 

Innamorato della sua città, ne offre pateticamente il degrado. L’unico sollievo lo trova nel credere realtà i suoi sogni, sicché solo in questa dimensione Palermo gli appare con le vie ben pulite e liberate dal caos del traffico e con uffici, negozi e mezzi di trasporto efficienti e affidabili. Dai sogni, però, lo risveglia una voce (dell’autore?) e Lindo perde tutte le speranze. Egli, allora, è metafora dei palermitani delusi dalla insipienza a non dire d’altro – dei loro “reggitori” ma anche da una propria dose di scarsezza di senso civico. Ed è metafora per un verso gradevole, perché spesso condita da ironia sorridente, esercitata in modo che ricorda l’oraziano castigare ridendo mores, ma alla fine, purtroppo, amara, perché Lindo, dopo una lunga serie di sconfitte della sua disponibilità alla fiducia, vola via da Palermo, verso Paesi d’Oltreoceano creduti più vivibili che, però, poi si rivelano anch’essi tanto disumani. Sicché a Lindo non resta che compiere un’altra fuga, questa volta verso le “incontaminate” montagne del Tibet, dove continuerà a sognare, poeticamente, la “felice” Palermo d’una volta. 

Parrebbe doversi concludere che l’unico rimedio al pessimismo sia la fuga dalla realtà. E sarà anche una conclusione non peregrina, ma nella sostanza significa un fallimento totale della speranza, un’abiura, una resa, e quindi non ci trova consenzienti. È più produttivo continuare a sperare contando sulle risorse che certo non mancano e su un loro responsabile impiego. 

Ed è certo questo che, in definitiva, S. è venuto a dirci col metterei innanzi quell’evasione senza frutto, almeno sul piano pratico. Per suo merito, lo ha fatto senza assumere né i toni arcigni e severi del moralista né quelli, minacciosi, dei profeti di sciagure. Piuttosto, ha impiegato, gustosamente anche per lui, quella sua capacità di sorridere e di far sorridere – che già di per sé è, come più d’uno ha detto, non piccolo merito – e ne ha fatto la qualità peculiare, propiziatrice di simpatie, di una prosa chiara e fluida in tutte le sue strutture, di uno stile che mentre diverte fa pensare. anche perché sotto quella esteriore levità c’è buona gravitas, cioè “peso” di impegno umano e di corredo culturale. 

Le doti di chiarezza e di fluidità della prosa, unite a un più sobrio gusto dell’umorismo. emergono anche in un altro scritto di S., che per altro con più diritto le richiede. essendo d’impianto narrativo. È la terza delle sue opere e qui la si pospone alla quarta per non interrompere la trama che intimamente lega le altre tre. Parve infatti libro “connotato dai segni di una svolta dello scrittore verso nuovi temi e modi di ispirazione e rappresentazione” già al suo prefatore (A.M. D’Asdia). Ha per titolo L’accelerato delle sei (1992) e nasce dall’idea che “i ricordi, essendo memoria della vita, sono pure significato della vita”. È così. una sorta di autobiografia articolata in racconti di esperienze vissute, in vivaci caratterizzazioni di tipi umani compresi, i più, nelle loro debolezze, in coloriti versi cui il dialetto dona un alto grado di espressività, e tenuta insieme dal tenace filo di una umanità aperta, sensibile, cordiale, che prova una dolce emozione nell’evocare e fissare per sempre i momenti più cari della propria esistenza e arriva pure a comunicarla, specie a chi sente pure lui, anche se non la esterna, tenerezza per il suo passato. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 38-40.




 Il nostro tempo tra storia e mito 

Maria Pina Natale, Epopea Rog, Marzorati Editore, Milano 1989, pp. 432. 

Libro in certo senso inquietante questo Epopea Rog di M. Pina Natale: quanto agevole è la sua lettura altrettanto impegnativa è la sua interpretazione, dato che è senz’altro da escludere una semplice presa d’atto. La fluidità del linguaggio e la linearità della vicenda, per altro convenientemente dotata dell’opportuna imprevedibilità parziale e complessiva, conquistano presto e tengono sempre desta l’attenzione del lettore, aiutandolo a superare qualche iniziale disagio causato da un’articolazione in episodi alquanto autonomi che nella prima parte è piuttosto frequente. 

Siccome, poi, le pagine, diciamo così, prevalentemente meditative hanno buona capacità di attrarre, oltre che di stimolare, la lettura procede spedita, nonostante l’alto numero di pagine del volume, e al punto che c’è il pericolo di perdere di vista tanti dei suoi valori, specie a livello di pensiero. E questo è pericolo che il libro non merita affatto di correre. 

Costituisce, poi, altro motivo di impegno la ricerca della sua collocazione in uno dei settori canonici della narrativa. Verò è che la poetica dei generi ha ormai fatto il suo tempo, ma, se non si pecca di schematismo, una qualificazione di questo tipo è sempre opportuno farla, se non altro perché aiuta a capire, e quindi a valutare. Proviamoci anche con Epopea Rog. 

Articolato in tre parti – che l’Autrice chiama “libri” alla maniera degli antichi poemi epici – e con un “Intermezzo” tra la prima e la seconda, questo testo possiede, come mettono in evidenza segni così espliciti, tutti i numeri per potere stare entro i confini non di un genere soltanto bensì di almeno due: l’epica mitica e il romanzo realistico. Poi, però, ci si accorge che dentro tali confini esso ci sta stretto per il fatto che altre tematiche che tratta e altri elementi che lo qualificano gli conferiscono una personalità tutta propria, per tanti aspetti nuova, e lo portano quindi a sconfinare. 

Prendiamo la prima parte. Tutta materiata com’è di racconti di vicende connesse con la lotta partigiana, parrebbe direttamente appartenere al filone della cosiddetta letteratura della Resistenza. Ma se ricordiamo che questa letteratura visse e operò sotto le insegne di una precisa ideologia politica, al tempo stesso sua matrice e suo programma, dobbiamo immediatamente cancellare un simile inserimento, perché Epopea Rog non si alimenta di ideologia politica né a sua volta la alimenta. Certo, si avverte qua e là qualche “condanna” dell’agire e del carattere dei Tedeschi – per altro detti “nazisti” molto raramente – ma questo è un dato ormai sancito dalla storia e come tale, quindi, acquisito pacificamente da quella letteratura. Sarebbe stato un impegno troppo gravoso per M. Pina Natale mettersi contro di esso, cioè, in definitiva, contro corrente; e poi, non rientrava neanche nei suoi programmi. I quali, fondamentalmente sono etici, in senso largamente umano e mai in forma ossessiva. Lo si vede dal fatto che la nostra Autrice inserisce in questa condizione anti-tedesca del suo protagonista certi spiriti umanitari che lo inducono a escludere sentimenti di odio dai moventi della sua condotta e a ispirarla, per contro, e quasi istintivamente, ad un proposito, sentito quasi come un innato bisogno, di “lavorare per tutti coloro che hanno bisogno, senza distinzione di campo, buoni o cattivi che siano.” (p. 359). Lo dichiara proprio in questi termini un suo interlocutore che per lunga frequenza ha avuto modo di conoscerlo assai bene. La Resistenza, insomma, non è altro che il momento cronologico e umano che fa da substrato, da tessuto connettivo, da area storico-geografica in cui e su cui il protagonista compie tutte le sue magnifiche gesta. Senza quei Tedeschi da spiare e da neutralizzare, ma anche da comprendere in certe esigenze individuali, senza quei partigiani da soccorrere e da sostenere, senza quelle montagne da valicare e quelle vallate da percorrere al fine di dare piena attuazione a precisi piani operativi, tanta parte delle ragioni d’essere del protagonista verrebbero a mancare. Vien fatto di pensare che, stando alla natura degli eventi, il protagonista opera sì a favore della Resistenza, ma nella realtà letteraria dell’opera la Resistenza serve solo a dare a lui possibilità di estrinsecare il suo io e quindi di essere. Pare, allora, scontata la conclusione che la Resistenza non è il fine ma il mezzo. Il vero fine è Rog. Un personaggio esuberante, ricco di vitalità. estremamente attivo; un personaggio che ha incontrato nel suo momento storico una copiosa fonte di stimoli, un forte elemento reattivo. un banco di prova delle sue straordinarie capacità operative. È questo aggancio storico che gli dà una certa misura di connotazioni realistiche. Senza di esso, sarebbe un personaggio tutto fantastico, ed ancora più sorprendente perché non si tratta di un uomo bensì di una donna. Rog, infatti, è una giovane che dall’evento della morte in guerra dell’amato marito prende le mosse per la conquista di una personalità tipicamente virile e che della sua femminilità, per altro piacente, si ricorda solo per metterla al servizio della buona riuscita del suo incontenibile e prepotente bisogno di agire. Privata del suo amore, Agata, questo il nome di battesimo del protagonista, perde ogni capacità di amare (“anzi non ha mai amato”, arriva a dire l’interlocutore che ho citato prima) e acquisisce un carattere freddo, pronto, risoluto, che la porta a guardare con distacco, con superiore indifferenza uomini e cose e a dominare, col sostegno di un fisico estremamente agile e robusto e tuttavia non privo di grazie, persino il dolore, un dolore causato da piaghe da tortura sparse in tutto il corpo e restie a cicatrizzare, sì che esso non ferma affatto i suoi voli attraverso i cieli e le sue corse attraverso le boscaglie, anzi neppure li rallenta e neanche li ostacola. 

La sua è una pratica di vita che, seppure legata ad un preciso momento storico, originalmente lo trascende per farsi estrinsecazione, come ho detto, di un incoercibile bisogno di agire, esercizio di un’idea, positivamente costruttiva, di nobile altruismo. Quel che conta è l’azione, e non l’azione “contro” ma l’azione “a favore”, anche, eventualmente, di potenziali nemici. 

Ad uomini, o donne, siffatti si dà di solito il nome di ‘eroi’, e le loro gesta si qualificano come ‘epiche’, tenuto anche conto della loro eccezionalità. Mettere allora il nostro Rog, considerata anche la cultura della sua ideatrice, in compagnia di Achille, Aiace, Orlando, Ruggero e simili e visto che la sua parte di ‘storicità’ non gli toglie certo ‘leggendarietà’, non mi parrebbe proprio fuori luogo, ma lo sconsiglia senz’altro la sua ostilità verso ogni sanguinarietà, cui invece quegli antichi erano assai propensi. Lo accosterei quindi, più attendibilmente, a quella categoria di eroi che sono più famosi per intraprendenza e mobilità, a figure quali Ulisse, l’uomo dall’ingegno pronto e astuto, e soprattutto ad Astolfo, l’eroe antonomastico della mobilità, arditamente in groppa al suo cavallo alato. Con essi il nostro Rog ha in comune molto di più che qualche semplice nota. Col primo soprattutto la pronte7..za dell’intuito e l’immediatezza della parola, con l’altro, una quasi sovrumana speditezza di movimenti che non solo è capacità di spostarsi velocissimamente da un luogo ad un altro avendo per ippogrifo – “il mio ippogrifo!” (p. 385) – un docilissimo aeroplano e un morbido paracadute, ma anche l’attitudine ad apparire e disparire in un battibaleno. Ovviamente, dotato di così eccezionali qualità, il nostro eroe può compiere felicemente tutte le sue missioni e al tempo stesso legittima nei suoi lettori il pensiero che qualche elemento utile alla sua costruzione lo abbiano fornito pure i Masters e altri simili eroi di quei cartoni animati e di quei fumetti che sono l’inguaribile passione di tanti ragazzi dei nostri tempi. 

Fin qui le pagine di M. Pina Natale cl hanno offerto come dato più qualificante una nutrita serie di episodi movimentati e un personaggio freneticamente e positivamente attivo. Finita la guerra. la situazione cambia. E così Agata, adattando ai nuovi tempi la sua operosità ma contraendo di molto la sua sfera di azione, si tramuta in imprenditrice sociale e dIviene “fondatrice-proprietaria-animatrice” (p. 262) di un colossale complesso assistenziale in cui diecine e diecine di bambini, molti dei quali nati nel reparto Maternità dello stesso Istituto. vengono seguiti capillarmente dai primi gradi scolastici fino al compimento degli studi medi o universitari e al loro ingresso nella vita di lavoro. A tale imponente complesso la sua realizzatrice, dà il nome di Città Rog e con l’aiuto di collaboratori fidati idonei anche a sostituirla riesce a farne un’istituzione altamente benemerita. Ma la malafede di alcuni profittatori viene a mettere In crisi tutta l’organizzazione. Agata subisce un processo per maltrattamenti a minorenne e alcuni malintenzionati, per distruggerla, non esitano a gettare una luce sinistra sul suo passato. Alla fine, però, la sua innocenza trionfa e l’ammirevole donna riprenderebbe con nuova lena la sua encomiabile attività se il suo fisico, che pur aveva superato sofferenze. materiali delle più terribili, non cedesse alle estenuanti prove cui la vicenda giudiziaria l’ha sottoposta, soprattutto a livello psichico. 

Questa seconda parte, senza dubbio più serrata e compatta rispetto alla prima, ci presenta un’Agata notevolmente diversa anche se sostanzialmente coerente con la precedente. Tutto il suo frenetico agire si è contratto nell’organizzazione del complesso che ho detto e nel controllo da lontano, ma sempre in modo partecipe, della sua attività. Convogliata in questa direzione la sua filantropia. la Nostra ha cercato giustamente il riposo e il ritiro dall’attività febbrile. appagandosi di contemplare l’attuazione del suo antico programma di riscatto umano. Ma in questo mondo non c’è pace per i buoni. Agata deve tornare a scendere in campo. E vi scende infatti. Sorretta dalla sua antica tempra di persona votata all’azione, reagisce con fermezza alle dense minacce che facevano temere il crollo e impiegando, questa volta, più che le energie fisiche le risorse dell’intelligenza e le altre doti del carattere, organizza sagacemente una difesa efficace, concretatasi nell’impianto di trame indovinate e nell’impiego di straordinarie capacità dialettiche. La qualità degli argomenti e la varietà di trovate e di toni con cui essa sconfigge l’ispettore ministeriale venuto a inquisire sull’amministrazione di Città Rog con l’evidente. anche se non dichiarato. proposito di mettervi i sigilli. si segnalano per la loro non comune efficacia. sì che le pagine che riferiscono il colloquio hanno più di un motivo per essere ammirate. A parte le proporzioni e le qualità dei personaggi e dei fatti, esse mi hanno richiamato alla memoria un celebrato colloquio di manzoniana memoria: quello del conte zio con il padre provinciale, così come, del resto, non può non venire in mente la famosa notte insonne dell’Innominato, sempre di manzoniana memoria. quando si legge il turbamento notturno del Commissario Palmi. l’inquisitore, sconvolto da sentimenti e pensieri i più disparati. L’originalità di M. P. Natale in ogni caso è salva e merita riconoscimento, così come lo meritano altre qualità positive di tutto 

il libro e in particolare della sua seconda parte. Intendo l’evidenza assicurata al ritmo incalzante ma ordinato degli accadimenti; la resa piena, pur nella sua sobrietà. della condizione della società nel secondo dopoguerra; la caratterizzazione dei personaggi comprimari chiamati a svolgere ciascuno il proprio ruolo contro o a favore di Rog-Agata; la serie delle riflessioni suggerite dalla varietà delle situazioni e presentate con la massima naturalezza senza pose predicatorie, quasi una germinazione spontanea nel fluire stesso della vita e un pungente stimolo a viverla più avvedutamente. meno irresponsabilmente. 

In conclusione, Epopea Rog è un’opera in cui la maturità letteraria della scrittrice dà le sue prove più chiare, al tempo stesso in cui si fa documento di una intensa e gradevole pensosità sul nostro più spesso dolente che lieto destino di uomini. 

Antonino De Rosalia

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 67-72




 Dante e l’arte del preludio: il canto I del Purgatorio (*) 

Il c. I del Purgatorio è, quasi per antonomasia, il preludio della cantica. E da tempo. Già nel lontano 1906 il D’Ovidio lo designava come tale fin nel titolo di un grosso volume in ·cui raccoglieva solo due saggi: uno, sul primo canto del Purgatorio, l’altro, su tutta la cantica. Il titolo era infatti: Il Purgatorio e il suo preludio e, se nella sua prima parte, Il Purgatorio, intendeva il secondo dei due saggi, nella seconda, il suo preludio, intendeva invece il c. I. Di conseguenza, diveniva Il primo canto del Purgatorio all’interno del volume, là dove serviva a titolare il primo dei due saggi suddetti. Si esplicitò in Il preludio del Purgatorio nell’edizione del 1932. Nonostante il titolo, però, il saggio stesso è solo una discussione, sia pure puntuale documentata e precisa, di tutta la problematica posta dai vari elementi del canto, una rassegna delle varie proposte interpretative analitica e minuziosa, in perfetta sintonia con la scuola del “metodo storico” allora dominante, che tuttavia tralascia ogni operazione di sintesi e di confronto con il resto della cantica, sicché ci lascia nell’attesa di conoscere i motivi per i quali quel 

canto è stato definito preludio. Studi posteriori, più propensi a definire valori poetici e non a discutere dati eruditi, hanno dedicato buona attenzione a questo valore proemiale del canto, ma senza fame oggetto di uno studio specifico e assoluto. 

Questo è invece quanto io, modestamente, intendo fare in questa sede, giovandomi certo delle indagini precedenti, ma mirando a comporle, con le opportune aggiunte, in una organica unità, che valga anche a fornire un altro dato dell’altissimo valore dell’arte del nostro Sommo Poeta. 

Desidero, insomma, dimostrare quanto sia appropriata la definizione di “preludio” data al canto, ove per preludio si intenda una scrittura che svolga il compito di introdurre ad un’opera non ponendo premesse o narrando antefatti – contenuti che si addicono meglio a un prologo o ad un proemio – ma anticipandone e sintetizzandone le sue caratteristiche, i suoi valori ed i suoi significati, persino le sue tonalità, insomma i suoi elementi essenziali e distintivi. Così come ‘accade, là dove ci sono, ai preludi di certi melodrammi lirici, spesso vere sintesi dei motivi dominanti nell’opera che introducono. Rispetto ad essi il preludio dantesco ha questo di diverso, che non è una parte a sé, nel qual caso avrei preferito dire “preludio al” e non “preludio del”, ma, come quelli, prepara i lettori ad entrare nell’atmosfera della cantica, ad avvertirli delle sue proprie qualità e condizioni. 

Il primo ‘movimento’ di questo preludio è già nell’esordio. Dante vuole predisporre quanti si accingono alla lettura della cantica a intendere, che essi si avviano a compiere con lui un viaggio singolarmente foriero di conoscenze utilissime a propiziare un’alta elevazione morale. Appunto perciò nel paesaggio che egli descrive occupa una parte prevalente il cielo •e i colori sono di una delicatezza e di una trasparenza davvero singolari. Anche il linguaggio si adegua: se, nella sua concretezza, insiste su termini espressivi di evasione e di elevazione: correr, surga, alza, salire, resurga”” poi, acquistando in levità, si fa notevolmente musicale e, in particolare, melodico. Anche per questo la dizione “preludio” è 

* Il presente articolo ha alla sua base il testo di una Lectura Dantis dallo stesso titolo da me letto nell’aprile del ’91 nell’ambito di un ciclo organizzato dal Comitato di Palermo della Società Nazionale “Dante Alighieri”.

quanto mai appropriata. Essa richiama quella virtù propria della musica che è la sua straordinaria capacità di astrarre e di attrarre, astrarre dalla logorante invadenza del quotidiano e del reale e attrarre verso un mondo rarefatto e sublime, tanto più affascinante quanto più i suoni sono pacati, coinvolgenti, stimolanti verso l’immaginazione. 

Si accentua, intanto, la differenza dal c. I dell’Inferno, che svolge anch’esso una funzione introduttiva ma al quale si addice meglio la qualifica di proemio o di prologo. In esso, infatti, ha luogo una presentazione piuttosto analitica sia della struttura del primo dei tre regni dell’oltretomba (vedi la corrispondenza fra le tre fiere e le parti in cui sono distribuite le tre specie di peccato) sia di tutto il viaggio da compiere (vedi le indicazioni delle sue fasi date da Virgilio). Di conseguenza, il canto risulta eminentemente informativo, quasi didascalico, un complesso in cui le stesse figure allegoriche hanno un che di rigido e di oggettivamente definito, che solo il criticismo dei commentatori – a questo punto della loro opera ancora freschi di energie – ha potuto sinistramente complicare, mentre la poesia, per parte sua, fiorisce solo quando l’apparizione di Virgilio suscita sentimenti di commozione, di ammirazione, di gratitudine unita alla coscienza di avere, per effetto della frequentazione delle opere di quel maestro e di quell’autore, rinnovato il miracolo di un’arte di ben altra tempra che non quella di certa farraginosa e goffamente ornata arte medievale. Giusta, dunque, la qualificazione di canto proemiale a tutta l’opera, che del resto corrisponde a una precisa intenzione del poeta, chiaramente comprovata da numerosi elementi di fatto. 

Nel c. I del Purgatorio, invece, il procedimento è un altro: più scorrevole e al tempo stesso più organico. Gli stessi simboli sono parte del paesaggio – lo ripeto in termini più espliciti -, elementi coloriti e luminosi o inseriti in esso o strettamente connessi con l’agire e il parlare delle figure, chiari prefazi di una bella e ambita catarsi. È per queste ragioni che, mentre il 1° dell’Inferno è un ‘a parte’, un canto tenuto al di fuori del numero mitico dei 99, il 1° del Purgatorio non è distaccato dagli altri. Si direbbe che il dolce “licor” “nato” dalla stupenda visione di quel regno si compendia in quel canto e da essa poi “si distilla” nei singoli episodi e nelle singole. figure. Il risultato è una superba omogeneità delle tematiche, delle figurazioni e dei toni che conferisce al Purgatorio, rispetto alle altre cantiche, una maggiore unità, anche esteriore. 

Di fronte a questa tonalità poetica complessiva della cantica, di cui il c. I vuole partecipare, al tempo stesso in cui vuole preannunciarla, perdono diversi gradi di importanza le discussioni intese ad accertare il valore logico di certe espressioni o l’esattezza scientifica di certi dati. Fa parte di queste discussioni, per esempio, la ricerca dell’esatto, significato di “primo giro” Cv. 45) o della corretta grafia di “adorezza”, così come serve solo ad appagare l’orgoglio degli eruditi la scoperta – davvero straordinaria! – che nel 1300, l’anno dell’immaginario viaggio di Dante nell’aldilà, la stella di Venere era vespertina e non mattutina come la vede Dante ai ‘0’. 19-21. Di conseguenza, o Dante è incorso in un errore astronomico o bisogna spostare in avanti di un anno il suo viaggio. Risponderò con U. Bosco1, che l’accusa è immeritata e lo spostamento non necessario. In verità, a Dante, qui, la stella di Venere serve per aggiungere un tocco di luminosità ad un paesaggio che deve, prima di tutto, ristorare il pellegrino dal lungo e deprimente tribolare nelle tenebre e tra le pene dell’inferno e a far coincidere felicemente l’inizio di una fase nuova del viaggio con l’inizio di una nuova giornata, nonché a improntare a sentimenti di amore nel senso più lato la vita delle anime e i rapporti tra loro e con Dante. Quale elemento più e meglio dell’astro di Venere – “Lo bel pianeta che d’amar conforta/faceva tutto rider l’oriente”, (vv. 19-20) raduna in sé tutti questi motivi di idoneità a soddisfare le esigenze poetiche di Dante? Venere, dunque, anche se ciò comporta una inesattezza scientifica – che poi è una delle pochissime – Venere, perché un tale astro rende tanto copiosamente sul piano dei valori pittorici e poetici. Così come le quattro stelle che Dante vede splendere subito dopo, quando si volge verso il polo antartico. L’erudizione di taluni commentatori vi ha ravvisato la Croce del Sud, postulando a sostegno di tale tesi mezzi piuttosto inverosimili attraverso i quali Dante poté conoscerne l’esistenza. Ma è tesi che cade sconfitta da questa acuta osservazione del Porena2: “Se Dante avesse avuto notizia della Croce del Sud… come avrebbe potuto dire che quelle stelle erano state viste solo dalla prima gente?” (Avrebbero infatti dovuto veqerle anche questi ipotetici informatori di Dante). Invero, non si vede che necessità ci sia di dare un nome a queste stelle. Il loro valore è soltanto simbolico e funzionale. Infondono, assieme a Venere, la gioia della luce al cielo e quindi al paesaggio, concorrendo con esso a procurare altra distensione all’animo aduggiato del pellegrino: preparano una perfetta corrispondenza con le tre altre che le sostituiranno verso l’ora del tramonto, quando Dante si troverà nella valletta dei principi, e che verranno a completare il quadro etico-dottrinario delle virtù – cardinali le prime, teologali le altre -; illuminano di una luminosità quasi solare il volto di un venerabile vegliardo, Catone l’Uticense, che verrà subito a stagliarsi con la maestosità della sua figura sullo sfondo di quello splendido scenario naturale. Al tempo stesso esse forniscono la prima esplicita affermazione del possesso, da parte dell’insigne vagliardo, di quelle doti morali per cui Dante lo ha scelto a ricoprire il prestigioso ruolo di signore del Purgatorio. 

Dico signore, e non guardiano o custode, come comunemente si dice, giacché il potere di cui Catone è investito è quello di balio o baiulo, e balio o baiulo (dal fr. balif o baiili, a sua volta dal lat. baiulus) era infatti nel Medio Evo, fin dai tempi di Filippo Augusto (1180), il funzionario regio dotato di ampi poteri giurisdizionali oltre che amministrativi, quasi un rappresentante del re. Molto esattamente il Sapegno3 spiega “balia” (v. 66) con “governo”. 

Questa presenza di Catone nel Purgatorio è stata da tempo oggetto di alcuni stupiti interrogativi. Catone infatti, razionalisticamente interpretato, avrebbe tanti motivi per restare escluso da ogni ‘salvezza’ cristiana. Fu infatti un pagano, un anticesariano, un suicida. Tuttavia, per Dante, tali qualifiche non sono affatto proibitive. Catone è uno di quei pagani che, in forza dell’eccezionalità di certe loro doti intellettuali e morali, hanno meritato di essere considerati da Dante, e non solo da Dante, come uomini, appunto, eccezionali e quindi assumono nelle pagine del Poeta valore di simboli. A parte Virgilio, la cui valutabilità di cristiano ante liiteram era un dato acquisito dalla cultura medievale e che quindi basterebbe da solo a dar peso a questo giudizio di Dante su certi pagani. si pensi a Enea, accostato all’apostolo Paolo, si pensi a Rifeo e a Traiano, già assurti all’eccelsa dignità del Paradiso, e si pensi pure ai tanti altri personaggi celebri del mondo antico, anche musulmano, che vissuti da buoni anche se estranei alla fede di Cristo, Dante, spinto da un giusto sentimento di simpatia umana, .colloca fuori dell’Inferno, nel Limbo, arditamente contraddicendo la sentenza di S. Tommaso che dal Limbo appunto esclude gli adulti non battezzati, in quanto non accetta che vi siano adulti ancora macchiati dalla colpa originale che non siano anche rei di peccati attuali (Summa I, Il, 89,6). Rispetto ad essi, Catone è in una condizione ancora migliore. Ha l’alto vantaggio di essere stato chiamato da Cristo fuori dal Limbo assieme ai Patriarchi e di essersi quindi assicurata la beatitudine celeste da fruire in uno con il corpo quando questo risorgerà nel giorno del giudizio universale: “la vesta che al gran dì sarà sì chiara” (v. 75). Pagano sì, dunque, ma pagano d’eccezione, tanto che già alcuni scrittori pagani avevano visto in lui dignità quasi divine. Seneca il retore, ad esempio, aveva a1Termato (nel proemio alle Controversiae): “Quale soprintendente alle cose sante potrebbe trovarsi la divinità se non Catone?” E Lucano (Phars. 9,554 s.; 601 s.) faceva eco: “Gli dèi non avrebbero potuto dare gli arcani e dire la verità a uomo più degno del santo Catone, che era degnissimo di esser posto sulle ,are di Roma”. Riprendendo questi giudizi, accettati per altro anche da autori cristiani, Dante già nel Convivio (IV, 5 12 e 17) e poi nel De monarchia (2, 5, 15) , elogiando l’inenarrabile sacrificio di Catone e illustrandone il valore di atto inteso ad accendere l’amore per la libertà, conclude con il nome di Catone un elenco di romani segnalatisi per le loro eroiche cirtù e li chiama non “umani” cittadini ma “divini”. Dichiara inoltre di ritenere che essi poterono compiere le loro “mirabili azioni non senza alcuna luce della divina bontade aggiunta sopra la loro buona natura” (Conv. IV, 5, 17). Sicché, quando poi interpreta allegoricamente il racconto di Lucano sul ritorno di Marzia a Catone dopo la morte di Ortensio suo secondo marito, vi vede il ritorno dell’anima a Dio e arriva a esclamare: “E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio che Catone? Certo nullo”. (Conv. N, 28, 15]; Su queste qualità divine di Catone tornerò più avanti. Qui mi limito a notare che la rilevata eccezionalità di Catone è significata anche figurativamente dal suo stato di maestosa e statuaria solitudine sulla solitaria e singolare spiaggia del sacro monte della salvezza. 

La paganità di Catone non ha dunque costituito ostacolo per il conferimento dell’alto ufficio cui l’hanno preposto la fantasia poetica e la fede cristiana di Dante. Ma non ha costituito ostacolo neanche il suo anticesarismo che pure, nella sostanza poteva significare opposizione ai disegni della Divina Provvidenza, coadiutrice manifesta, almeno secondo l’interpretazione cristiana, dell’unificazione territoriale operata da Cesare quale struttura propizia alla diffusione del Cristianesimo. In realtà, il fatto per Dante non ha rilevanza, tant’è che ad esso neanche accenna. Né so quanto sarebbe colpa imputabile a Catone, mancando certamente a lui, tra le sue pur numerose virtù, quelle profetiche. Che se poi ha in sé una parte di errore, da esso lo riscatta, oltre alla sua involontarietà. il suicidio, gesto a cui così si aggiunge altro valore positivo oltre a quello che gli era stato riconosciuto da alcuni, tra i quali pure Cicerone (de off. 1,31, 111), che lo aveva esaltato come atto dovuto nella particolare situazione in cui Catone si era venuto a trovare, quel Cicerone che pure nel famoso passo del Somnium Scipionis (de rep. 6, 15) condanna fermamente il suicidio. Lo giustificava, invece, in linea di principio, la morale stoica, di cui Catone era seguace e che Dante stesso ammirava – perché riteneva coincidesse in più punti con la cristiana -. poco curando che Agostino e Tommaso l’avevano respinta proprio nelle sue tesi sul suicidio e che il secondo. anzi. aveva esplicitamente condannato quello di Catone. Tuttavia: precisa il Bosco4, Dante trovava in entrambi eccezioni alla condanna. Rientrava fra queste il caso in cui il suicidio viene ispirato proprio da Dio perché sia di esempio agli uomini. Proprio di tal tipo pareva a Dante il gesto dell’Uticense che si diede la morte – dirò con U. Bosco5 – “non per motivi personali ed egoistici (lo sdegno per la sconfitta di Tapso o il timore di dover sottostare al tiranno) ma per sancire con il rifiuto di vivere il valore della libertà e insegnare l’amore”. Il suicidio di Catone vale quindi come esempio ed anzi, sulla base di quanto detto – e qui sopra riferito – nel Convivio e nel De monarchia, a Dante esso appare come il supremo degli atti eroici. un atto che gli uomini non possono compiere se non ispirati dalla luce divina: esso vale anche come attestazione di capacità di vincere il più forte degli istinti umani, quello di conservazione. Dante autore, allora, ha dato altra prova di coerenza logica ricordando il valore di tale gesto proprio nel momento in cui Dante personaggio si accinge a quella salita del monte che doveva appunto dargli, prima di tutto, la libertà dagli istinti. 

Catone, dunque, in Purgatorio nonostante suicida: direi anzi, proprio perché suicida. Per le ragioni che ho esposte e per altre. che ora esporrò, e che spero diano conto della sua collocazione in questo preludio e del risalto che in esso ha. 

Iniziamo col dedicare altra attenzione a ciò che Dante ha ripetutamente detto della “divinità” di Catone. Subito dopo ricordiamo la funzione di “baiulo” che gli è affidata e che egli puntualmente svolge in questo canto e nel successivo; ricordiamo anche l’atteggiamento di massima riverenza che Dante tiene nei suoi confronti, sollecitato da Virgilio che “con parole e con mani e con cenni” (v. 501) cioè con somma premura, lo ha fatto inginocchiare, e inginocchiato e col capo chino lo ha tenuto per tutta la durata dell’incontro. Tutto questo significa che Catone è per Dante uno dei più alti ministri di Dio, forse più degli stessi angeli, quasi una figurazione sensibile dell’Altissimo. Al tempo stesso, egli è primo testimone e maestro – con la forza del suo valore simbolico e delle indicazioni operative che dà e che più di lunghi discorsi dottrinari gli conservano tutti i tratti di romano autentico – di ciò che significhi esattamente la libertà che Dante va cercando. Che non è, semplicisticamente, la liberazione dal peccato, perché questa è solo il mezzo per giungere, incontro dopo incontro nel corso del viaggio, alla conquista di quella condizione dello spirito umano. veramente nobile ed eccelsa, che consiste nella piena e consapevole capacità di operare in perfetta serenità le rinunzie, tutte le rinunzie dalle quotidiane alle estreme, imposte dall’obbligo dell’ossequio ai doveri connessi con le cariche e le ideologie 

responsabilmente accettate. Questa è la vera libertà. e se la lezione, resa più valida dal suo essere più pratica che teorica – vedi il rifiuto delle “lusinghe” avanzate da Virgilio – viene impartita da un uomo politico, contiene un implicito ma chiaro anche se finora poco evidenziato monito a quegli uomini politici che con tanta e tanto colpevole disinvoltura violano la moralità. Anche perché, se è vero che politica e morale appartengono a due categorie ontologiche diverse, tanto che si saluta con plauso in Machiavelli “il fondatore di una nuova scienza, lo scopritore della politica come forma della vita spirituale, distinta dalla moralità, con fini e metodi suoi propri”6, è pure vero che Dante, che tra l’altro non poteva aver letto Machiavelli, parlava, anzi poetava, sotto la spinta di una sofferta esigenza di una profonda moralizzazione della vita politica. Proprio come la soffriamo ai nostri giorni noi, allibiti spettatori di tanti loschi abusi. 

In Catone dunque si celebrano lo spirito di rinunzia e la pratica del dovere. Sono altri elementi della funzione che egli svolge nell’ambito di questo preludio, perché le anime poste “sotto la sua balia” (v. 66) compiono proprio mediante l’esercizio di queste virtù la propedeutica alla beatitudine celeste, che è soprattutto distacco progressivo dalla terra e dalle sue lusinghe e totale adeguamento della propria volontà a quella di Dio, come splendidamente enuncerà Piccarda: “… è formale a esto beato esse / tenersi dentro a la divina voglia, / per ch’una fansi nostre voglie stesse”. (Par. 3, 79-81). In definitiva, la libertà che Dante va cercando è anche la sublime misteriosa consonanza della libera volontà con la Prima Volontà e quel Catone di cui egli ha compiuto, dice il Sapegno7, “l’esaltazione e quasi la deificazione” ne è chiarissimo preannunzio e stimolante modello. 

Assieme alla rinunzia e al dovere si richiama e si celebra in questo preludio un’altra norma di vita da osservare da parte di chi è ammesso a soggiornare nel sacro monte ed essenziale per il conseguimento della redenzione: l’umiltà. L’ingresso in questa condizione di spirito si compie nella forma propria di un vero atto liturgico: la cinzione del giunco attorno alle tempie dell’espiante. È il primo dei numerosi atti religiosi cui assisteremo con Dante nel corso del suo progressivo ascendere verso le coreografie e i canti dei beati del Paradiso e che nel Purgatorio culmineranno nella trionfale processione che si snoda solenne tra i corsi d’acqua, i fiori e le rigogliose piante del Paradiso Terrestre, popolata di figure e di simboli, densa di effetti visivi e di significati profetici. Il tutto, in questo episodio come negli altri, sullo sfondo di un paesaggio perfettamente consono alle esigenze di anime che fanno quasi tutt’uno con esso, luminoso in rapporto con le ore del tempo, dimensione ormai recuperata dopo la notte incessante dell’Inferno per essere poi annullata dall’eternità della luce nel Paradiso. 

 

Il rapporto fra scena ed azione è curato anche in occasione del rito propiziatorio dell’umiltà. Il paesaggio, con la dominante “dolcezza” dei colori dei suoi elementi, mira a infondere serenità e ad essa è improntato. Lo stesso moto delle onde di un mare altre volte crudele – si ricordi che è quello stesso che ha inghiottito Ulisse e i suoi compagni – è ridotto a un poeticisimo tremolare (che non a caso ritornerà in uno dei più pittorici versi di G. D’Annunzio) sfavillante in un incantevole brillio. È anche questo un significativo prodromo di quella pacatezza e medietà di toni che sarà la nota dominante, anzi la caratteristica tonale di tutta la cantica al tempo stesso in cui contrassegnerà la condizione sentimentale delle anime, garantendo loro di compiere in serenità, oltre che in fiducia, la dovuta attesa, più o meno lunga che sia. 

Un vero dono, questa serenità, un magnifico dono di cui noi uomini d’oggi avvertiamo un desiderio struggente e per di più vano perché, dominati come siamo dall’attrattiva dei beni materiali, non riusciamo mai ad aver pace o quiete e la serenità dello spirito resta, ahimé, una realtà solo vagheggiata, quasi addirittura negata. 

Gustiamola almeno nella poesia di Dante. 

Antonino De Rosalia

(l) DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia a cura di U. BOSCO e G. REGGIO, Purgatorio, Firenze (198510) (=19791), p. 15.
(2) cit., da G. REGGIO, comm. cit., p. 15. 
(3) DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia a cura di N. SAPEGNO, Purgatorio, Firenze 19853, p. 10.
(4) op. cit., p. 12. 
(5) ibidem
(6) N. SAPEGNO, Compendio di storia della letteratura italiana, II, Firenze 1959, p. 68. 
(7) op. cit. pp. 7-8.

Da “Spiragli”, anno VI, n.6, 1994, pagg. 19-27.