Michele Falci, Luna sikana, Caltanissetta, Paruzzo Editore, 2010.

Un romanzo concentrato sulla dimensione della realtà

L’autore di Luna sikana, Michele Falci, insegnante di materie tecniche in una scuola media di Palermo, quando è andato in pensione, tornato nella sua città natale Caltanissetta, dove ha pubblicato il suo primo romanzo, nel 2001, dal titolo Pane e zolfo, sulle zolfare siciliane. Nel 2009 ristampa il libro, sempre con lo stesso editore Paruzzo, a cui aggiunge una seconda parte, in modo da rappresentare, complessivamente, sessant’anni di storia romanzata siciliana, che va dal 1879 al 1940. Ora esce questo ultimo libro, che ha, come sottotitolo, «Completa la trilogia di Pane e zolfo»

Si tratta però, di un’opera abbastanza diversa, in quanto il primo libro ha una sua struttura oggettiva e si avvale di approfondite ricerche e di fatti storici intrecciati a personaggi, quasi sicuramente esistiti, ma romanzati, nel secondo si ha una maggiore soggettività e una stesura sicuramente autobiografica, che arriva ai nostri giorni.

Luna sikana rappresenta la realtà di una Sicilia, impegnandosi con attenzione verso grandi temi etici e politici, segnati dall’approfondimento di questi temi, in sintonia con le grandi trasformazioni della società. È la storia di circa settant’anni di provincia italiana vista attraverso lo specchio di varie vicende intime e umane dell’autore, con un procedimento veristico tradizionale, in modo che il nesso connettivo non vada perduto, anzi ne esca sviluppato come il concorso di un coro. Vengono codificati nuclei contenutistici e canoni stilistici, senza che venga perduto di vista il necessario contatto con le consuetudinarie quotidianità. Gli eventi hanno un taglio naturalistico in una storia che bada ai sentimenti e li esprime con mezzi semplici, con discrezione e con misura, dove la comunicazione diventa esposizione asciutta ed efficace.

Nella prefazione Francesco Luly scrive: «La ricerca e la riflessione della “identità siciliana“ da recuperare come bagaglio al seguito, porta a soffermarsi e innestare un processo di frammentazione della memoria a guisa di un’analisi dicotomica e semantica nella scelta di coltivare e proteggere il valore della propria memoria storica… Si intravede nello scritto il progetto del recupero di un’operazione culturale-politica dell’intera dimensione storica impron tata di distacco fisico dal territorio nazionale, da una cultura “multietnica”, da un differente assetto sociale, di tradizioni popolari, di sentimenti ancorati all’ideologizzazione della condizione siciliana dipendente da una reale condizione della propria storia antica costruita con tessere di vita sofferta e sofferente, di un forte rigore morale…»

Protagonista del romanzo è l’io narrante, uomo impegnato sul piano politico, etico e sociale, mentre è ricorrente la metafora naturalistico-filologica, vale a dire un grumo esistenziale di materie che consistono nella sostanziale realtà dell’uomo. La scrittura è austera ed essenziale in una struttura narrativa di stampo tradizionale mentre lo stile risulta scorrevole e senza alcun tipo di narcisismo.

Emanuele Schembari

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 56-57.




Domenico Cara, Le diagonali della psiche, Borgomanero (No), 2010.

Parola fluida e dilatata

Scrittore prolifico e autore di numerosi libri, sia in versi che di critica, a partire dal 1959, il calabrese Domenico Cara, abitante da molti anni a Milano e fondatore delle Edizioni Laboratorio delle Arti, continua a pubblicare con cadenza quasi annuale e sempre ad alto livello. Il suo ultimo libro di versi, Le diagonali della psiche contiene testi dal 1995 al 2006 dove emerge un’inquieta ricerca linguistica di strutturale avanguardia, che Cara ha, da sempre tenuto presente. Emerge dal silenzio della pagina essenziale la valorizzazione della forma, in modo che si realizza un’attenta ricerca, fino alla pura sequenza nominale, sin dall’inizio, che sta oltre la parola stessa, rifrangendola in parecchie direzioni, aprendo una nube di significati.

Andrea Rompianesi, nella sua postfazione, scrive, tra l’altro: «Simboli, complicità, lacerazioni coniugano il dettato tematico di Cara che giunge a tale riva attraverso viandanze che hanno conosciuto febbri, rigenerazioni, utopie, macerie, un dilagare anche corale e drammatico nel quale un approccio ermeneutico non soccombe all’incedere forzato dei relitti… Ma la poesia è qui conoscenza, incisione grafica connessa a ritmica definizione, enjambement filosoficamente rivolto all’accidentato percorso dei sensi… Energico, a questo punto, l’impegno intellettuale di Domenico Cara, il suo condividere epidermico passioni, ricerche, quesiti di senso, oltre le contaminazioni dei dettati stilistici, tale da costruire lo stile stesso in un attento edificare demiurgico.»

L’uomo e lo spazio, sia fisico, che spirituale, sono i capisaldi intorno ai quali ruotano molteplici significati di molti testi. Tutto è realizzato da un impasto linguistico, che ha risorse di rilievo proprio dove l’espressione si rasserena e diventa approccio diretto alle cose. E si ha una poesia compiuta, perciò autonoma, che trova la forza nel movimento fluido e nella drammaticità delle sue immagini, in cui il linguaggio della natura si traduce in forma di suono, e di sogno, di luce e di ombra. L’autore conosce la coscienza delle parole e il fermento dei pensieri e sa leggere la realtà di ciò che vi sta sotto, ma non è disposto a barattare la forma. Viaggia alla ricerca della propria intrinseca realtà, in un ostinato disincanto, tormentato e sfuggente.

Emblematiche sono alcune sue composizioni più brevi, dove il messaggio è più chiaro e più significativo. «Prima di me l’idolo arcano / sfiorava epoche perdute / adesso legge incantamenti / s’annida nelle mie preghiere / e affonda in aloni e cerchi» (“L’idolo“ ). «La pietà non raccontava fasi / di lamentazione ma si mostrava / attiva con il silenzio di soprassalto» (“ La pietà“). «Manipola la storia una sua rima / l’ibrido fatto o un desiderio / nel luogo di stupori / e il vento porta ricordi / odori di vendette cieche» (“Il clima”)

L’atto diretto dello scrivere, in Cara, si stagna come momento di un’istituzione espressiva che fa della parola qualcosa di fluido e si dilata sotto l’influenza di un io che vuole verificare la realtà per una sorta d’istinto viscerale. Vengono inventate ossimoriche strutture che determinano spazio alla  riproduzione reale di eventi e di emozioni devastanti, per ridare valore alla normalità, sublimando il reale.. Emerge dalla pagina la valorizzazione della forma, in modo che si realizza un’attenta ricerca del sostantivo, fino alla pura sequenza nominale, che sta oltre la parola stessa, rifrangendola in parecchie direzioni, aprendo una nube di significati. Gli impulsi più profondi attivano e animano il flusso incessante della comunicazione e, alla fine, si scoprono sollecitati da motivazioni verticali. Il segno tracciato dall’uomo e il significato che riassume è uno dei tempi di questa complessa ma interessantissima raccolta di versi, nella quale la parola, come mezzo di comunicazione, perseguita il poeta, che si sente impotente di fronte alla vita, data la molteplicità delle valenze che assume.

Emanuele Schembari 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg.55-56.




Maria Attanasio, Amnesia del movimento delle nuvole, Edizioni La Vita Felice, Milano, 2009.

Sensazione delle cose

Maria Attanasio, scrittrice calatina e intellettuale raffinata e profonda, alterna la pubblicazione di opere in versi, di grande rarefazione, a romanzi a carattere storico e sociale, con Sellerio, come Correva l‘anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, Di Concetta e le sue donne, Il falsario di Caltagirone .In questo suo ultimo libro di versi, Amnesia del movimento delle nuvole, l’autrice di Caltagirone riesce a fondere le sue atmosfere, di sottile densità a dimensioni più realistiche. Sta qui, essenzialmente, la novità di quest’opera della Attanasio, nella metafora delle contraddizioni delle profondità dell’animo umano, dove coesistono varie spinte contrapposte.

Giancarlo Maiorino, nella sua prefazione, intitolata “Ansimare quotidiano e fantasie di mutamento“ scrive: «L’originalità e l’energia latente di questo bel libro sembrano inoltre matericamente risedere in una condensazione di elementi eterogenei sinora ritenuti opposti o comunque non passibili di compenetrazione reciproca. Sono ravvisabili difatti mosse di spostamento drasticamente figurate, mescolanti ‘sofferenza intelligente‘ e piacere delle risorse linguistiche, ansimare quotidiano e fantasie di mutamento, abbandono alla bellezza della natura e misurazioni psicologicamente acuite di corpi, sentimenti, gesti.»

Ci sono due filoni, infatti, nella stessa opera dell’Attanasio, una lirica più raffinata si alterna a versi duri e realistici. Per esempio a «Lampo di melograno / fiamma di malvasia / in una stanza globalizzata / rosso di poesia » (“Lampo“) si alternano composizioni come a «Repente, ahi dolore alla mente, / come se niente fosse la notte / senza salvacondotti allupata / la mano trema la casa vacilla» (“Repente“) e come «Roma sottonotte di ultras-clandestini / cosparsi di benzina-combusti resti / tra i cartoni del sottopassaggio / quietamente / sbucciando piselli in cucina» (“Notizia di cronaca”).

Si tratta di una poesia alla quale viene dato lo spessore della responsabilità di una testimonianza che cerca di rappresentare la sensazione delle cose e dei fatti. I versi sono attraversati da una sorta di fluido che cristallizza ricordi elencati a flash e riesce a liquefare tutto il concreto della vita quotidiana ricordata. La Attanasio interpreta una riflessione indagativa a carattere in parte onirico, in parte favolistico e, per il resto, realistico. Usa un linguaggio analogico e metaforizzato, con precisi riferimenti autobiografici, affondati in un’eco di occasioni disperse. C’è uno spessore personalissimo nel suo dettato, che si dipana in filamenti analitici, rilevatori di disagi esistenziali e di una lievitazione del vissuto. È un mondo dalle scabre modulazioni, con illuminazioni sui valori e sugli effetti. E, soprattutto, c’è la ricerca delle mutazioni dell’essere, nell’ambito del sentimento del tempo.

Emanuele Schembari

Domenico Cara, Le diagonali della psiche, Borgomanero (No), 2010.

 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 54-55.




 Rino Giacone, Il bestiario comparato, Ed. Ct Sera, 1989, pagg. 64, s.p. 

Questo volume, in edizione di pregio, pubblicato in occasione del 35° anniversario della fondazione del periodico «Catania Sera», con illustrazioni di Luigi Patinucci, segue un filone – quello della satira – che ha illustri predecessori. Ma non è meno illustre il poeta-critico-letterario e scrittore catanese Rino Giacone, collaboratore del quotidiano «La Sicilia», per la parte culturale e del settimanale «Catania Sera», edito da Giuseppe Massa. 

L’argomento di questi epigrammi riguarda gli animali, che godono di una lunga tradizione letteraria, da Esopo a Marziale, a Giovenale e, perfino, a Catullo. Ma c’è anche l’epigramma greco, che ha una varietà maggiore rispetto a quello latino e si adatta, come queste poesie di Giacone, a tutte le occasioni e le circostanze della vita. È un epigramma realistico e prezioso che, oltre per un singolare carattere di concretezza, per la varietà di tono, che comprende la battuta, la riflessione rapida e profonda, è gradito in un momento in cui si punta alla satira e al realismo per svecchiare la tradizione. 

La prefazione è di Emanuele Mandarà, il quale scrive, fra l’altro, che «gli esemplari di tale zoo ideale, impersonano, è ovvio, altrettanti prototipi di fauna politica e sociale, periferica o di centro, della nostra contemporaneità». E lo stesso Giacone, nella premessa, sostiene che «chi credesse di riconoscersi in una delle bestie descritte non se la prenda: la somiglianza tra uomini e bestie è naturale e quasi scientifica». Ed ora un paio di epigrammi, tanto per avere l’idea di questo Bestiario comparato di Giacone: «La pasta col nero di seppia / dalle mie parti è un piatto prelibato / …Solo quel tal poeta / grafomane incallito / usa l’inchiostro di seppia / per scrivere il poema infinito» (La seppia). «Quando comincia a gracchiare / (e lo fa tutte l’ore) / non c’è nessuno che la può fermare. / Gracchia di tutto / dalla politica alla geologia / e con più che evidente competenza / anche d’ecologia. / S’interessa in sostanza d’ogni cosa / come fa l’ape sulla rosa». 

Emanuele Schembari 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pag. 55.




PICCOLO-BUFALINO, due scrittori esaminati dai critici Tedesco e Zago

Natale Tedesco Lucio Piccolo, Marina di Patti Ed. Pungitopo.

Nunzio Zago

 Gesualdo Bufalino, Marina di Patti, Ed. Pungitopo. Molto interessante, nel panorama editoriale italiano contemporaneo, ci appare l’iniziativa della casa editrice «Pungitopo» di Marina di Patti (Me). Ci riferiamo ai tascabili di colore blu, intitolati «La figura e l’opera» che presentano, di volta in volta, narratori e poeti siciliani del Novecento, inquadrati in uno studio critico da parte di valenti studiosi ed accademici illustri. La pubblicazione dei tascabili ha cadenza trimestrale e, fino ad ora, sono stati dedicati, tra gli ultimi mesi del 1986 ed il 1987, a Pirandello, Sciascia, Piccolo e Bufalino. In questa sede vogliamo occuparci degli ultimi due che, fra l’altro, sono i più recenti. Di Piccolo si occupa Natale Tedesco. dell’Università di Palermo, con un lavoro scrupoloso e di indubbio valore scientifico, dove viene messo insieme un puzzle singolare e prezioso. Nella parte specificatamente critica ne delinea l’itinerario artistico, sottolineando la sostanziale incomprensione, nei riguardi della sua poesia, da parte degli addetti ai lavori, ancora legati al neorealismo. Non fu apprezzato molto, all’epoca, il taglio astratto delle liriche del poeta di Capo d’Orlando, malgrado l’avallo e l’appoggio di Eugenio Montale. Tedesco fa passare in secondo piano l’invenzione barocca di Piccolo, per sottolinearne l’interrogazione esistenziale riguardo al sentimento del dolore della vita. Azzarda anche l’ipotesi delle influenze che può aver esercitato su di lui da parte del secentista siculo-spagnolo Simone Rao. Afferma che l’invenzione barocca è soprattutto letteraria, facendo notare i vocaboli di uso antico e di ascendenza spagnola che s’inseriscono nella tradizione del simbolismo occidentale europeo. Viene anche sottolineata la floralogia del mondo provinciale messinese, che s’intravede anche in Quasimodo, in Cattafi, in Cardile, in Joppolo e, più tardi, nei D’Arrigo e nei Consolo. «La voce di Piccolo, senza perdere la sua estranea e cosmopolitica esotericità» scrive Tedesco «ne guadagna altresì una più domestica, nativa e primigenia. Insomma la ‘provincia’ messinese non è stata una dispersione per Piccolo, ma un acquisto duraturo». Dopo aver esaminato cronologicamente la bio-bibliografia di Piccolo, Tedesco si sofferma sul volume «La seta», edito da Scheiwiller nel 1984, che raccoglie 32 poesie inedite, dove il poeta si muove in «una sorta di naturalismo interiorizzato tra realtà e sogno, tra luce ed ombre». Segue una scelta antologica, molto accurata, fra cui due brani in prosa, apparsi nei numeri 3 e 4 della rivista «Galleria» del 1979. Il volume dedicato a Bufalino è curato da Nunzio Zago, dell’Università di Catania, anch’egli nativo di Comiso, come il narratore, che ha al suo attivo un interessante studio su Tomasi di Lampedusa, pubblicato dalle edizioni Sellerio, qualche anno fa. La vita e il pensiero di Bufalino vengono tracciati con acutezza,mentre vengono messe in evidenza le tappe principali della sua affermazione, avvenuta in tempi relativamente recenti, ma che lo fa considerare tra le personalità più rimarchevoli della nostra epoca. Si tratta di un’intervista ideale, seguita da una sapida antologia, nella quale, in un suggestivo identikit, viene ricostruito il ritratto interiore dello scrittore. Zago ha consultato tutte le fonti, giungendo a focalizzare i vari nuclei attorno ai quali si dipana la vicenda esistenziale di Bufalino in una biografia che, gettando un occhio indiscreto, quasi in chiave psicanalitica, riesce a darci una misura dello scrittore, in un contesto ritrattistico e narrativo. L’analisi risulta estremamente lucida, mentre è molto originale nel suo svolgimento. L’esperienza artistica dello scrittore viene ripercorsa con discrezione e partecipazione mentre, oltre alla guida per la comprensione dei testi, il lavoro si configura come un importante contributo critico, denso di concetti. Forte di una sonda critica, antropologica e letteraria, lo studioso ci porta a considerare come lo snodarsi dell’attività di Bufalino abbia origine e motivazione in una improrogabile e incessante vocazione alla comunicazione letteraria, come luogo privilegiato dell’esprimersi. Pregio di questo volume è l’aver inquadrato l’esperienza artistica dello scrittore in continua interazione con le ragioni più profonde della sua autobiografia, sublimate e trasferite nella pagina scritta da una mente fra le più sofferte e le più creative del nostro tempo.

Emanuele Schembari

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 65-67.




Nicola Lo Bianco, Rapsodia del centro storico, Borgonuovosud, Palermo, 1989, pagg. 56.

Prima raccolta di versi di Nicola Lo Bianco, insegnante di materie letterarie al Liceo Classico di Termini Imerese, con varie esperienze in campo teatrale e con varie opere messe in scena. Si tratta di eventi non collegati a fatti usuali e letterari dietro ai quali c’è la Palermo dello Zen, dei baraccati, dei transessuali, la mancanza di contatti umani e la dispersione dilagante del dramma dell’uomo contemporaneo. Rappresenta un tragitto commovente, vissuto, nei cui versi è trasferita la tensione tipica della poesia dialettale. ?Lo Bianco individua una sua precisa identità, sia umana che letteraria, innescandola nelle matrici di una cultura popolare capace di necessarie acquisizioni e di scrollamenti». Questo è quanto scrive il critico Francesco Carbone, del Centro Studi Ricerca e Documentazione «Godranopoli?. Infatti viene sottolineata, in questa poesia, dura, narrativa, dall’andamento poematico, l’attualità dei motivi sensibilmente tesi ad interpretare la tragedia spirituale dell’uomo di oggi, travolto da un’egoistica rabbia e distrutto dalle contraddizioni e dallo scontro fra la società dei consumi e l’individuo, a livello problematico. Il poeta, in questa sua prima opera, dimostra una personale visione delle cose, apparendo come il disilluso personaggio che può interpretare la quotidianità contemporanea.

E. Schembari

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pag. 64.




Mario Mazzantini, Attraversare i binari, Edizioni Rari Nantes, Roma, 1989, pagg. 120. 

 Poesia insolita (come è, da sempre, la poesia ad alto livello) quella del toscano, ma residente a Roma, Mario Mazzantini. Si tratta di un atto di pura creatività dove emergono le contraddizioni di un mondo oscillante fra il reale e l’immaginario, carico di incognite e di stupori, ma sempre controllato dall’intelligenza. 

Si sottolineano la labilità dei ricordi e la temporaneità dei giudizi, in un’enigmatica ambivalenza, che rappresenta una metafisica senza memoria, senza passato e senza futuro. 

Giacinto Spagnoletti, nella prefazione, accenna allo zavattini di Parliamo tanto di me o I Poveri sono matti che gli ricorda il candore di certa poesia di Mazzantini. 

Noi siamo stati colpiti, più che dalla satira di questi versi, dalla serena drammaticità. Il linguaggio, infatti, ha la stessa semplicità strutturale di quello di Kafka ed il verso viene trascinato sul filo del provvisorio, dentro il confine del probabile. Ma Mazzantini (che ha la particolarità di sistemare i titoli di ogni poesia alla fine e non all’inizio) sorride su un fondo amaro, come se fosse consapevole dell’inutilità di qualunque sforzo. 

E. Schembari 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 64-65.




Angelo Scandurra, Vivere la parola (Pref. di C. Muscetta), Bonanno Editore, Catania, 1989, pagg. 140. 

 Angelo Scandurra, bibliotecario presso il comune di Valverde, poeta, editore, saggista, ha avuto una serie di esperienze in campo artistico e letterario ed ora ha pubblicato un originale libro di interviste. 

Al suo attivo ci sono, infatti, due libri di versi (Proposta per incorniciare il vuoto, 1979 e Fuori delle mura, 1983), un saggio storico (Valverde un comune dalla leggenda alla storia, 1977) e un testo teatrale (Evoluzioni di una metamoryosi, 1978); ha fondato il «Gruppo Teatro Nuovo di Valverde» e la rivista letteraria «Il girasole»; 

ha dato vita a «Il Girasole Edizioni», dove ha pubblicato opere di saggistica, di poesia e di narrativa, gli ultimi dei quali di Luigi Compagnone e di Luca Canali. 

Questa sua ultima opera, Vivere la parola, è strutturata in una serie di interviste, effettuate fra il 1981 e il 1987, rivolte ad alcuni fra i maggiori personaggi della nostra epoca. Si tratta di un tentativo di portare avanti un discorso nuovo che, all’informazione rapida ed essenziale, associ una documentazione dei fatti, inquadrati in una problematica storica, tale da suggerire spunti per una personale rimeditazione degli argomenti trattati. Il dialogo si trasforma, quindi, in contenitore di sogni, dove, alcune fra le persone più rappresentative e note del nostro tempo, traggono le conclusioni sulla propria vita, sul proprio lavoro ma, soprattutto, sull’eterno contrasto fra i due aspetti della stessa medaglia: la vita e la morte. 

Vengono così intervistati poeti come Léopold Senghor, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Dario Bellezza, Nelo Risi, Emilio Isgrò: scrittori come Cesare Zavattini, Fortunato Pasqualino, Leonardo Sciascia, Enzo Siciliano, Antonio Aniante, Eduardo De Filippo, Giorgio Saviane, Luca Canali, Giuseppe Bonaviri: registi cinematografici come Michelangelo Antonioni e i fratelli Taviani: registi teatrali come Giorgio Strehler, Orazio Costa, Tino Schirinzi: attori come Valeria Moriconi, Glauco Mauri, i fratelli Maggio, Salvo Randone, Vittorio Gassman, Giorgio Albertazzi; cantanti come Giuseppe Di Stefano e Maria Carta, cantautori come Gino Paoli ed Enzo Iannacci e uno scienziato come Norberto Bobbio. 

In Vivere la parola il gioco della scrittura unifica tutto. La raffinatezza tecnico-stilistico-strutturale delle domande penetra nei personaggi, cercando di comprenderli e di giustificarli dall’interno. Ed ognuno riesce ad essere autenticamente se stesso (cosa abbastanza difficile per persone che, in ogni caso, interpretano un ruolo, nella vita). 

Molto originale la prefazione di Carlo Muscetta, in forma d’intervista, il quale afferma, fra l’altro: «Il genere dell’intervista non è nuovo, ma non a caso oggi ha una particolare fortuna dovuta alla prevalenza della cultura orale. Ovviamente in televisione siamo abituati alla banalizzazione di questo genere… Tu come intervistatore» scrive, rivolto a Scandurra, naturalmente, «hai una problematica fondamentalmente esistenziale, per cui consideri importante la risposta quale che sia l’attività culturale, la minore o maggiore rappresentatività storico-sociale dell’intervistato… La tua amorosa provocazione ha una ‘ingenuità’ specchiante, da cui l’animo dell’intervistato viene fuori nella sua autenticità o nella sua artificiosità. Perciò queste interviste hanno tutte un valore ‘storico’, che non potrà essere trascurato da chiunque abbia curiosità di conoscere più a fondo questi protagonisti della nostra vita culturale». 

Emanuele Schembari 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 65-66.