Monarchie, Stati Generali e Parlamenti 

Re Riccardo: « … i leoni domano i leopardi.» 
T. MOWBRAY DUCA DI NORFOLK: «Sì , ma non possono cambiare le loro macchie.» (Riccardo II, l, 1,5-6.) 
Machiavelli fu bandito dal Parnaso «perché fu sorpreso di notte con un gregge di pecore a cui insegnava ad usare falsi denti di cani così che in futuro esse non potessero essere rido Ile all’obbedienza col fischio e con la frusta». (Traiano Boccalini. Ragguagli di Parnaso, LXXXIX) 

PROLOGO 

Lo Stato. che nasce per rendere possibile la vita, in realtà esiste per rendere possibile una vita felice. (Aristotele. Politica, libro l, cap. 2) 

ELEUTHERlA – L’epigramma di Aristotele costituisce la più rivoluzionaria definizione di Stato nella storia del pensiero politico, La maggior parte degli Stati e, ancora di più, la maggior parte degli imperi sono stati fondati e governati per il bene dei governanti o per il bene della tribù. Sia la tribù che i governanti hanno sempre cercato di giustificare la loro azione di governo come volontà degli dei o di Dio. Si riteneva, naturalmente, che la volontà degli dei fosse per il bene dei sudditi. Tutto ciò era, nel migliore dei casi, un ripensamento o, più spesso, semplice propaganda. 

Non che il pensiero di Aristotele fosse originale. Perché almeno 250 anni prima del suo scritto la vita felice era già equiparata all’eleutheria, la libertà, definita sia come libertà del governo da regimi esterni che come libertà dei cittadini dalla tirannia, dal dominio senza leggi di un singolo governante o, a volte, di gruppi di governanti. Ciò che i Greci inventarono nel loro ordinamento politico, fu la cittadinanza, la polis o città-stato, vale a dire la partecipazione dei cittadini alla vita civica nel promulgare o far rispettare la legge, nell’approvare tasse e spese, nel prendere decisioni sulle relazioni con le città vicine e, se necessario, nel prestare servizio nell’esercito. Tutto questo avveniva tramite il dialogo, l’attività reciproca di parlare e ascoltare e le conclusioni razionali che scaturivano da tale attività. Era una relazione dinamica, aperta, incerta nelle sue conclusioni e che sempre correva il rischio di essere sopraffatta dal suo opposto: governo e servitù, comando e obbedienza, certezza e accettazione. 

Per i Greci solo la vita di questa cittadinanza partecipativa costituiva una vera libertà politica. In pratica, essi trovavano questa libertà – che Machiavelli nel XVI sec. avrebbe chiamato un vivere politico – difficile da raggiungere e quando ci riuscivano era solo all’interno del circolo ristretto della polis e dei suoi cittadini a pieno titolo. Donne, stranieri e schiavi erano esclusi, sebbene le donne fossero considerate libere se sposate con un cittadino. Aristotele era interessato solo alla polis. Quando mandava i suoi studenti a studiare le costituzioni fuori di Atene – uno dei maggiori programmi di ricerca mai intrapreso nel campo delle scienze politiche – li mandava solo in altre città-stato del Mediterraneo. 

La cosa rivoluzionaria era la sua definizione del principio dello scopo di uno Stato: la vita felice. 

Sin dalla riscoperta della Politica da parte della Cristianità latina, nel XII sec., essa ha avuto una profonda influenza sulla pratica e sul pensiero politico in 

Europa e, recentemente, in quelle civiltà al di fuori dell’Europa influenzata dal pensiero europeo, anche nei casi in cui tale influenza non è stata apertamente riconosciuta. A volte questo principio è stato deliberatamente ignorato, anche nella nostra epoca e, di solito, con conseguenze disastrose per gli abitanti dello Stato stesso e di quelli vicini. 

Nel Medioevo il principio di Aristotele cadde su un terreno fertile. I princìpi dell’eleutheria non erano mai andati del tutto perduti nell’Impero Romano. Negli Stati che nacquero dalle sue ceneri, questi princìpi furono rafforzati dalla pratica dei re germanici di convocare i propri liberi guerrieri in assemblee generali, per discutere le politiche perseguite dai re e per il consiglio (consilium) e l’aiuto (auxilium) che i vassalli potevano fornire. 

RAPPRESENTANZA – Tutto ciò andava bene per unità politiche relativamente piccole e questa pratica sopravvisse in alcune parti marginali d’Europa. In molte vallate alpine e in alcune aree costiere meno accessibili della Frigia, della Norvegia o dell’Islanda. Il problema era inventare una forma di relazione partecipatoria nelle unità politiche più grandi. La soluzione al problema era sfuggita agli abitanti della Grecia classica o, meglio, essi non l’avevano considerato un problema. Concentrando la loro discussione politica sulla polis, avevano considerato i grandi Stati, come l’Impero persiano o la Macedonia, in ogni caso privi del principio dell’ eleutheria. 

Nell’Europa medievale i principi della relazione feudale tra signore e vassallo non erano di per sé una base per l’eleutheria. La principale virtù medievale, l’ideale verso cui tutti i giovani uomini venivano educati, era tipicamente la lealtà. Non era un ideale da mettere in discussione. Il signore, o il re, era solito rivolgersi ai suoi vassalli per consigli e aiuto; ma per le discussioni e i dibattiti si circondava solo di pochi individui scelti con cura. C’era bisogno di qualcos’altro che potesse associare sezioni molto più ampie della società alla politica del re. Da questo bisogno nacque il principio della rappresentanza. 

Essa era in origine una pratica apolitica derivata dal diritto romano, in cui un avvocato rappresentava il suo cliente o clienti nelle cause civili. Non sorprende che tale pratica si trovi per la prima volta tra gli uomini di Chiesa, cioè, tra quella parte di società che conosceva il latino. I grandi ordini religiosi internazionali trovavano utile la rappresentanza per incrementare la reciproca coesione tra le varie case religiose. Così. nel XIII sec., i Domenicani svilupparono un sistema complesso formato da una gerarchia di consigli elettivi che rappresentavano le singole case, le assemblee provinciali e, infine, l’intero ordine. 

Anche prima che i Domenicani sviluppassero pienamente il loro sistema di rappresentanza, i papi del XII sec. convocavano i prelati dagli Stati papali per consultarli. Nel 1213 Innocenza III fece un ulteriore passo in avanti. Nel convocare il IV Concilio Laterano, egli invitò non solo il clero cristiano, rappresentato dai prelati. i vescovi e gli abati dei grandi monasteri, ma anche gli ambasciatori dei re e di alcune città-stato italiane. 

In modo ancora più incerto, i governanti cominciarono anch’essi a convocare i grandi vassalli in persona e talvolta i rappresentanti del clero e delle città. Se non l’avessero fatto, le conseguenze avrebbero potuto essere imprevedibili e nefaste. Nel 1158 l’imperatore Federico I Barbarossa convocò una grande assemblea feudale, una dieta, a Roncaglia, in Italia, per ottenere tasse su un certo tipo di commercio, sulla zecca e sui diritti delle miniere. Esse erano considerate tradizionalmente prerogative del re o dell’imperatore, le regalie. I notabili di Federico, per la maggior parte tedeschi, non ebbero difficoltà nell’imporre queste tasse alle città italiane dell’Imperatore. Ma queste città non erano state consultate. Esse formarono leghe contro l’Imperatore e lo contrastarono con successo, finché non ottennero virtualmente l’indipendenza dal suo dominio. 

Con maggior successo, alcuni principi riunirono delle assemblee in cui i prelati, i nobili e le città erano tutti rappresentati. Tale fu la prima Corte Spagnola del re di Leòn nel 1188. Questi incontri erano ancora sporadici e non istituzionalizzati. Furono i teologi, specialmente gli avvocati di diritto canonico, dal XII al XIV sec., a sviluppare teorie sistematiche sulla rappresentanza, collegandole all’ assunto aristotelico che lo Stato esiste per il bene dei suoi cittadini (sebbene i notabili e i prelati non avrebbero certo approvato questa affermazione) e furono essi ad impegnarsi in un dialogo moderno sul modello greco con i loro principi e tra loro stessi. 

C’erano buone ragioni perché il pensiero politico ecclesiastico del tardo Medioevo insistesse su quest’ argomento. Per cominciare, c’erano le parole di Gesù, secondo cui bisognava dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Ma questo precetto da solo non bastava a spiegare lo sviluppo di elaborate teorie politiche. Niente del genere avvenne nella teologia bizantina né nella sua erede, la Chiesa russa ortodossa. Nell’Impero bizantino e in Russia (e a fortiori negli Stati islamici successi vi all’Impero Romano) qualsiasi reale opposizione tra l’Imperatore e la Chiesa (o tra i califfi e le leggi dell’Islam) era impensabile. Ma in Occidente il collasso dell’Impero Romano nel V sec. aveva reso il capo della Chiesa, il papa, virtualmente indipendente dall’Imperatore. Anche se per gran tempo non si pensò in termini di opposizione, era impossibile che a lungo andare i loro interessi, politici o teologici, coincidessero sempre. 

Ci vollero parecchi secoli prima che venissero pienamente apprezzate le conseguenze intellettuali di questa situazione contingente e, nella prospettiva della storia mondiale, anomala. Ciò divenne inevitabile, però, quando dall’XI al XIV sec., sia i papi che gli imperatori del Sacro Romano Impero, e in seguito anche i re degli Stati europei indipendenti, cominciarono a richiedere la supremazia. Ogni tanto ci fu guerra aperta e in tutto quel periodo si ebbe un’ accesa campagna di propaganda da ambo le parti. Tutti i protagonisti del dibattito scrivevano in latino e tutti si rifacevano alla Bibbia come la fonte più autorevole in questo campo. Questa situazione costringeva gli uomini ad argomentazioni razionali. Inevitabilmente, specie dopo la riscoperta della Politica di Aristotele. che divenne un testo base nella formazione universitaria di diritto civile e canonico, queste argomentazioni razionali dovevano occuparsi della natura dello Stato e dell’ autorità politica. Ci si trovò a discutere in maniera fondamentale sia sul locus che sui limiti dell’autorità e su quali rimedi ci fossero se un tiranno ne abusava. Poiché, sebbene Gesù avesse affermato che tutto il potere viene da Dio, rimaneva da risolvere la questione pratica di come i re ottenessero il potere: se direttamente da Dio o indirettamente dalla volontà del popolo. E se il potere veniva dal popolo, che diritto aveva il popolo di toglierlo a un re tirannico o, perlomeno, di limitarne i poteri? Chi aveva l’autorità di fare le leggi? E il principe era soggetto alle leggi che lui stesso o i suoi predecessori avevano promulgato? In pratica, quali leggi poteva emanare, come imporre certi tributi, che non fossero in conflitto con le leggi naturali di Dio? E la legge naturale comprendeva significativamente i diritti sulla proprietà. 

Tali discussioni non venivano necessariamente portate avanti in ogni assemblea che il principe convocava. Ma costituivano le questioni fondamentali che determinavano lo scopo e le prerogative delle assemblee rappresentative. Esse erano sostenute da un principio derivato dal codice di Giustiniano: quod omnes tangit ab omnibus approbetur: ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti. Ancora una volta questa era già stata una procedura puramente tecnica nel diritto romano. Si applicava nelle cause civili, come la tutela di un minore da parte di diverse persone. Ma nel corso dei secoli XIII e XIV questo cavillo tecnico, qualche volta formulato in maniera leggermente diversa, diventò un principio politico. Si sarebbe rivelato un principio dagli effetti sconvolgenti. Era usato da coloro che adunavano le assemblee allo scopo di trovare sostegno da parte dei sudditi; fu questo il caso di Edoardo I d’Inghilterra quando convocò il Model Parliament nel 1295. Questo principio veniva usato regolarmente da coloro che ritenevano di dover essere convocati. Perché dare consigli aveva un duplice aspetto: era il dovere del vassallo nei confronti del suo signore o principe e finì per essere considerato un diritto. Così il principio del quod omnes tangit, associato a quello della rappresentanza, finì per riproporre il principio greco della partecipazione alle decisioni politiche cui si arrivava grazie al dialogo razionale e «approvato da tutti». 

ASSEMBLEE RAPPRESENTATIVE – Nel tardo Medioevo il principio della rappresentanza si diffuse in tutta l’Europa cristiana cattolica. Si adattava bene sia alle necessità dei principi che alle tradizioni dei vari governi locali. Queste tradizioni differivano enormemente dalla partecipazione dei lati fondisti inglesi alle corti della contea, all’autogoverno virtuale delle comunità dei villaggi in varie parti d’Europa e, soprattutto, alle corporazioni cittadine, con i loro statuti reali o episcopali, che stabilivano sia la natura che i particolari dei loro diritti. 

I principi, da parte loro, avevano bisogno di tutto l’aiuto possibile da parte dei loro sudditi nella feroce competizione militare che era diventata la norma in Europa dopo che i grandi imperi dei Franchi e dei Danesi erano scomparsi, sepolti in un irrepetibile passato. I principi ricevevano sia informazioni che aiuto dalle loro assemblee. Nel corso del XIII sec. divenne più comodo adunare non solo i notabili ma anche le città; perché erano proprio queste ultime a poter fornire più prontamente denaro per le imprese belliche dei loro prìncipi. 

Per le città era fastidioso e costoso mandare i propri rappresentanti alle assemblee; ma era anche una buona opportunità per far approvare i propri statuti, discutere argomenti di interesse comune, come i rapporti commerciali con le potenze straniere o il conio locale e, soprattutto, tenere il fisco entro limiti ragionevoli. Le città potevano formare leghe, come le hermandades di Castiglia, che si riunirono regolarmente a partire dal 1282 e che, alla fine, svilupparono istituzioni stabili per regolare la loro lega. Nelle Fiandre, i rappresentanti dei quattro membri, le città principali di Bruges, Ghent, Ypres e la zona degli agglomerati urbani e dei castelli tra Bruges e il mare, chiamata la Franc de Bruges (het Vrije van Brugge) tennero più di 4000 incontri tra il 1384 e il 1506, spesso in luoghi diversi e contemporaneamente. In Olanda, tra il 1401 e il 1433, si tennero più di 700 assemblee. Loro scopo principale era discutere di questioni commerciali. Nei principati più estesi e nelle zone prevalentemente rurali gli incontri erano per lo più gestiti dai notabili laici ed ecclesiastici, anche quando vi partecipavano alcune città. Queste riunioni erano molto meno frequenti, a volte con intervalli di parecchi anni, ma a differenza delle assemblee urbane erano molto più complesse e formali. Spesso le presenziava il principe in prima persona. 

La cosa sorprendente è che le città-stato italiane, pur sviluppando la loro indipendenza nella lotta contro gli imperatori tedeschi, non presero parte al movimento di costituzione delle assemblee rappresentative. Le loro leghe, come la Lega Lombarda che combatté Federico Barbarossa, erano poco più che alleanze di unità indipendenti, proprio come lo furono più tardi i membri della Lega Anseatica nel nord Europa. Questa Lega teneva i suoi raduni occasionali: assemblee dei rappresentanti di alcune città anseatiche, ma raramente vi parteciparono tutte. Queste riunioni non si trasformarono mai in istituzioni formali, con membri fissi. 

Le città-stato italiane svilupparono una forte tradizione di libertà politica. Proprio come l’eleutheria per i Greci, questa libertà era vista sia come libertà dall’oppressione straniera che come libertà dalla tirannia interna. I teorici politici umanisti italiani, compreso Machiavelli, non dubitarono mai che la vera libertà dovesse essere repubblicana. Le loro discussioni riguardavano piuttosto la natura del regime repubblicano: se dovesse essere aristocratico, democratico o misto. La rappresentanza era propria delle monarchie e dunque non era considerata un vivere politico, sebbene Machiavelli ritenesse che quando veniva perduta doveva essere ristabilita da un uomo di «virtù». 

Ma c’erano ragioni pratiche perché le città-stato in Italia rifiutassero la rappresentanza. Nei confronti delle aree circostanti il loro contado, esse si comportavano come principi. Le soggiogavano, le tassavano e le usavano come basi di arruolamento per i soldati che avrebbero combattuto per loro. Né le città del contado né la nobiltà rurale venivano consultate per queste guerre e i nobili erano convocati solo quando era necessaria la loro presenza individuale nell’esercito. Per quanto riguarda le città suddite, una che ne aveva in gran numero, come Firenze, non avrebbe mai convocato i rappresentanti delle città toscane insieme, dando loro modo di allearsi l’una con l’altra contro la città «imperiale». Questa tradizione anti-stato era così forte che impedì lo sviluppo delle assemblee rappresentative anche laddove una città-repubblica era diventata principato, come accadde a Milano e Verona e in altre città. Così, né una prevalenza di città, né di relazioni feudali, e nemmeno l’abbondanza di corporazioni ecclesiastiche e la presenza di giuristi canonici, possono da sole spiegare la comparsa di istituzioni rappresentative. Perché ciò avvenisse era assolutamente necessaria un’ulteriore condizione, un elemento inerente all’idea stessa di rappresentanze di località, corporazioni e Stati che si riunissero in assemblea. Mancava il senso della comunità di una struttura politica. Al di fuori delle città, che certamente svilupparono sentimenti comunitari, ma dove, come detto, la rappresentanza non si sviluppò, tale sentimento in origine poteva essere di tipo tribale. Ma più spesso, durante il Medioevo, le origini tribali vennero dimenticate in favore di tradizioni di cooperazione politica e militare e di obbedienza al principe locale. 

Nel 1128, durante una crisi dinastica nelle Fiandre, i membri della nobiltà e molte grandi città formarono leghe per gestire la crisi ed eleggere il nuovo conte delle Fiandre. Fino a quel momento le leghe non erano assemblee rappresentative (anche se alcuni storici le hanno considerate veri e propri pre-parlamenti) e non ci sono prove che la massima quod omnes tangit venisse applicata. Ma tali eventi costituivano in sé una collaborazione tra la nobiltà e le città ed evitarono che le Fiandre si spezzettassero in una serie di città-stato indipendenti come accadde in 

Italia settentrionale. Ciò è più sorprendente se si considera che le città principali, Bruges, Ghent e Ypres, si comportavano in buona misura come se fossero città-stato, dominavano e sfruttavano le campagne e i villaggi circostanti come un contado italiano. A partire dalla fine del XII e per tutto il XIII sec. i conti furono spinti a cooperare regolarmente con le assemblee dei loro Stati per potersi difendere dai re di Francia che cercavano di ristabilire il loro dominio nel Paese. 

In questo caso, come spesso accadeva nei rapporti tra i principi e le loro assemblee rappresentative, il corso degli eventi e l’equilibrio finale dei poteri non furono determinati soltanto dalla storia interna del Paese in questione, ma anche dall’intervento esterno. La storia dei principi e dei parlamenti non si svolge quasi mai in un sistema chiuso. 

Questo vale anche per i parlamenti delle isole. La storia della Magna Carta forse sarebbe stata diversa se la rivolta dei baroni contro re Giovanni , nel 1215, non fosse stata sostenuta dalla Francia. Nello stesso tempo, e ciò evidenzia in maniera cruciale lo spirito di comunità che c’era nel Paese, i diritti e i privilegi che i baroni estorsero al re, specialmente il processo davanti ai propri pari secondo la legge. sarebbero valsi per tutti gli uomini liberi della nazione. Alla morte di Giovanni, il governo di reggenza per conto del figlio minore riemanò la legge altre tre volte. Anche se le tre versioni differivano in alcuni dettagli, le copie furono inviate a tutti i tribunali delle contee, quindi coinvolsero deliberatamente la comunità di tutto il regno. 

Fu questo il modo in cui la Magna Carta finì per essere interpretata. I parlamenti successivi insistettero per promulgarla ancora. La reputazione del parlamento e della Magna Carta, entrambi considerati a salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini inglesi, si rinforzavano l’un l’altro, e si svilupparono insieme fino a formare la tipica simbiosi dell’idea di governo di diritto, dei diritti e privilegi dei sudditi e della rappresentanza dell’intera comunità. 

Ci volle tempo perché venissero stabilite in Inghilterra adunanze regolari del 

Parlamento e lo stesso valeva per le altre assemblee rappresentative sul Continente. Inevitabilmente esse si svilupparono in tempi diversi, dal XIII al XV sec. Vi erano i tre stati classici: clero, nobiltà e popolo; ma vi era anche il principato d’Olanda in cui le assemblee erano di solito limitate alla nobiltà e alle sei città maggiori (sebbene a volte venivano convocate anche le città più piccole) e non aperte al clero. In Polonia solo la nobiltà veniva considerata come rappresentativa della comunità. Le città venivano lasciate fuori dalla Sejm, la dieta di tutto il regno, anche se dominavano l’assemblea provinciale della Prussia Reale. In Svezia, al contrario, il clero era costituito non solo dai prelati ma anche dal clero locale, e c’era persino uno stato dei contadini. Molto dipendeva dallo sviluppo degli stati come gruppi o raggruppamenti auto-consapevoli all’interno dello Stato stesso, come la divisione tra notabili (ricos hombres) e bassa nobiltà (hijosdalgo) nelle Cortes di Aragona. 

C’erano assemblee rappresentative dappertutto al di fuori delle città-stato, a parte alcune comunità contadine nelle valli alpine e le paludi della costa settentrionale della Frigia, nel mare del Nord, che conservavano antiche tradizioni di riunioni degli uomini liberi. 

Le assemblee rappresentative non erano mai democratiche. Solo in Inghilterra c’era qualcosa di simile alle elezioni dei membri effettivi del Parlamento e nessuno immaginava che queste elezioni fossero democratiche. La democrazia era apprezzata da alcuni umanisti. Ma, al di fuori di alcune città-stato italiane e svizzere e delle poche comunità contadine indipendenti, la democrazia era disprezzata ed evitata. La rappresentanza era presente negli ordini ecclesiastici e nelle monarchie. Certamente aveva il compito di coinvolgere le comunità nella vita politica, ma mai nessuno pensava che dovesse cambiare la struttura sociale della comunità. Era rivoluzionaria nel senso aristotelico che dava l’opportunità di una vita felice difendendo le libertà, i privilegi particolari di corporazioni e gruppi, all’interno della comunità. Doveva preservare la comunità dal governo arbitrario del principe. Ma la rappresentanza non era intesa come uguaglianza o uguali diritti. La forma esatta delle assemblee e i loro rapporti col principe dipendevano dalla struttura sociale delle comunità che rappresentavano. Questi rapporti, a loro volta, erano spesso influenzati dalle alleanze e dall’intervento delle comunità limitrofe. Una volta stabilite, le assemblee tendevano ad assumere una forma istituzionale. Come tali, cominciarono a sviluppare una loro vita propria con certe forme tradizionali talora rigide, e ciò accadeva persino quando le condizioni socio-politiche originarie erano cambiate. Se la comparsa delle assemblee rappresentative dipese dall’esistenza di un certo senso della comunità, le assemblee aumentarono questo sentire. 

I principi avevano un atteggiamento ambivalente verso le loro assemblee. Le consideravano utili per assicurarsi il sostegno della comunità, l’osservanza delle leggi e in misura ancora maggiore, per la concessione di denaro sotto forma di tasse. Nel 1282 i Siciliani rovesciarono il loro re della casa francese di Anjou (Vespri Siciliani) e si rivolsero al re d’Aragona perché prendesse la corona e li aiutasse a mantenere la loro indipendenza. Pietro III d’Aragona, pur reclamando la corona di Sicilia per diritto ereditario, convocò molti parlamenti in Sicilia per farsi confermare re. Questi parlamenti evitarono che il regno si spezzettasse in una miriade di città-stato, come nell’Italia settentrionale, e così ottennero da re Pietro un certo numero di privilegi, in cambio di somme di denaro per finanziare la guerra con la casa di Anjou che si trovava ancora a Napoli. Non sorprende che Pietro d’Angiò abbia convocato anche un’assemblea nel suo principato di Catalogna allo scopo di ottenere supporto finanziario per la sua politica in Sicilia. 

Eppure i principi erano ben consapevoli del pericolo costituito dalle assemblee che potevano diventare potenziali rivali dell’autorità. Sia essi che i loro avvocati erano sempre molto suscettibili a questo argomento. Se la massima romana del quod omnes tangit era ormai generalmente accettata, lo era anche quella del diritto romano che considerava il principe come legibus solutus, al di sopra della legge. Secondo alcuni giuristi, questo principio era rinforzato dal detto del Codice Giustinianeo: quod principi placuit leges habet vigorem, poiché piace al principe ha forza di legge. Cosa realmente significassero queste massime romane era un argomento di costante dibattito e di sottili e colte argomentazioni da parte di magistrati civili e canonici. Più comunemente, si sosteneva che solo il principe aveva il diritto di formulare le leggi che poi l’ assemblea rappresentativa aveva il dovere di confermare. 

Ma cosa accadeva alle leggi che risultavano dalla presentazione di lamentele? Questa presentazione era una delle funzioni riconosciute alle assemblee. I principi erano ansiosi di non perdere il proprio diritto di accettare o rifiutare i suggerimenti delle assemblee. Talora, specie, quando si trattava di una disputa dinastica, le assemblee si riunivano di loro iniziativa. Ma i principi scoraggiavano simili azioni indipendenti e insistevano che solo essi avevano il diritto di convocare, prorogare o sciogliere il parlamento. Ma i parlamenti e le assemblee rappresentative non erano uguali ad un consiglio regale. In assenza di una vera e propria amministrazione civile, i parlamenti tornavano utili alla politica proprio perché rappresentavano interessi, informazioni e autorità indipendenti da quelli del principe e del consiglio che lui nominava. Essi costituivano un’opportunità di dialogo politico per la comunità. 

CONCILIARISMO – L’ambiguità fondamentale di questo equilibrio dei poteri tardo-medievali, divenne evidente nella prima metà del XV sec. nella storia dei grandi consigli ecclesiastici e del loro confronto con la monarchia papale. Non era un confronto intenzionale. I leader dell ‘Europa cristiana, sia religiosi che laici, decisero di porre fine allo scisma papale (1378). Un concilio a Pisa (1408-’09), convocato da un gruppo di cardinali, fu rigettato da entrambi i papi e finì per aggiungere un terzo papa ai due in lotta. Il concilio successivo a Costanza (1414-1418) fu convocato su iniziativa del Sacro Romano Imperatore e vi parteciparono un certo numero di re e principi europei o i loro rappresentanti, oltre una sfilza impressionante di prelati e teologi. Allora i papi e gli antipapi furono deposti con successo e ne fu eletto uno nuovo, Martino V, che fu accettato da tutti. Questo è molto simile all’operato delle assemblee rappresentative locali, come quello delle Fiandre, che aveva deposto un principe indegno e ne aveva eletto uno nuovo. Adesso, col Concilio di Costanza ciò era avvenuto su scala più vasta. Frequentato o, perlomeno, seguito avidamente dal fior fiore degli intellettuali europei, il concilio produsse naturalmente una giustificazione teorica alle sue decisioni. Essa si trova nel famoso decreto Haec Sancta (6 aprile 1415), dove si afferma che il concilio derivava la sua autorità direttamente da Cristo e questa autorità era superiore a quella del papa, il successore di San Pietro e vicario di Cristo. I padri della Chiesa erano attenti a reclamare tale autorità solo per le questioni di fede, ma come si potevano distinguere tali questioni da quelle organizzative e politiche? Il concilio procedette a riorganizzare la Chiesa e ad eleggere un nuovo capo. 

Questi erano i problemi fondamentali sulla natura dell’ autorità che i teologi avevano dibattuto per secoli in senso astratto. Erano problemi essenzialmente analoghi a quelli dell’autorità del principe e dell’assemblea rappresentativa. Il confronto divenne più aperto nel corso del concilio successivo, a Basilea (1431-1449). Naturalmente gli scontri ora si svilupparono per il tentativo del papa Eugenio IV di sciogliere il concilio, mentre quest’ultimo replicava che solo lo stesso concilio poteva decretare il proprio scioglimento o la propria proroga. Si finì per formulare un decreto ancora più innovativo dellHaec Sancta, in cui si stabiliva che il concilio aveva semplicemente un’autorità superiore a quella del papa. 

La posizione conciliare fu discussa soprattutto nelle università, in special modo nella facoltà di teologia di Parigi. Alla fine i teologi non poterono opporsi al potere del papa di usare le diverse potenze temporali l’una contro l’altra. Inoltre, egli aveva il vantaggio, nella propaganda spirituale, di avere concluso da poco un accordo apparentemente riuscito con la Chiesa greca ortodossa (1437). Già a metà del XV sec., il papato era riuscito ad emergere come monarchia autocratica dal confronto con i principi della rappresentanza dei conciliaristi. Nessuno poteva prevedere che il papato diventasse ora vulnerabile, non solo a causa dei riformatori della Chiesa – tutti concordavano nella necessità di riforme – ma anche nella ricerca da parte dei principi di indipendenza ecclesiastica e di controllo sulle loro chiese. 

A riflettere sul dibattito del XV sec., l’aspetto sorprendente non è la partita persa dal movimento conciliarista. Gli interessi dei protagonisti erano troppo diversi. Le mere dimensioni dell’ operazione conciliare e l’enorme territorio sul quale doveva essere coordinata, erano troppo persino per i più accaniti sostenitori. Così Nicola di Cusa, una delle menti più brillanti di quell’epoca, abbandonò i conciliaristi e si schierò dalla parte del papato. La vera sorpresa invece è quanto in avanti fossero riusciti a spingersi i conciliaristi. Era un segno della vitalità dell’idea di unità dei Cristiani, un segno analogo a quello comunitario che sarebbe stato essenziale per la nascita della rappresentanza nei singoli Stati europei. 

Allora l’idea di rappresentanza fu sconfitta assieme all ‘ idea di conciliarismo? La storia non è così logica né così simmetrica. La nozione di un concilio sopravvisse come idea, come aspirazione, come un mezzo per guarire i mali del tempo. Era ancora un’idea forte nella prima generazione della Riforma, e rimase tale da ambo le parti del dibattito riforrnista. Ma poi la connessione tra concilio e rappresentanza svanì sempre più sullo sfondo, cedendo alle sempre maggiori certezze dei dogmi di entrambi gli schieramenti. Al Concilio di Trento (1545 – 1564) pochi erano interessati alla rappresentanza, tranne che per la necessità dei Protestanti di far udire la propria voce e dei Cattolici di negarla. 

STATI COMPOSITI E STATI GENERALI 

I concili ecclesiastici del XV sec. furono dei grandiosi, ma inefficaci, tentativi di creare un’istituzione rappresentativa composita. L’idea stessa, comunque, era tutt’altro che morta, né i Concili di Basilea e di Costanza furono i soli esempi. Le assemblee rappresentative composite furono la conseguenza logica della comparsa di monarchie composite o multiple. Nel tardo Medioevo, queste monarchie erano diventate la forma più importante di organizzazione politica in Europa. Più era potente la monarchia – e il potere era l’obiettivo internazionale nella maggior parte delle monarchie – meno probabile era che fosse uniforme. 

Le parti costitutive di una monarchia multipla, nella maggioranza dei casi, si univano insieme per volere comune, come nel caso della Sicilia o d’Aragona, o più spesso per eredità dinastica o di matrimonio, come la maggior parte dei domini della Casa d’Austria, o nel caso dell’Inghilterra e della Scozia con la successione di Giacomo VI e I nel 1603. 

In tutti questi casi il principe giurava di osservare le leggi e i privilegi preesistenti del suo nuovo Stato. Nel XV sec. queste leggi e questi privilegi di solito comprendevano un’assemblea rappresentativa che considerava suo dovere difendere i propri interessi e quelli dei suoi membri. Nei pochi casi in cui una monarchia acquisiva uno Stato o una provincia per conquista, si riteneva ci fosse il diritto di abrogare tutte le leggi e i privilegi preesistenti. In pratica, comunque, i poteri della monarchia erano limitati dalla necessità di riconciliare a sé almeno una parte dell’élite del nuovo territorio. Machiavelli consigliava al suo principe o di distruggere la nuova provincia, o di risiedervi lui stesso (e dispensare generoso patronato ai nativi), oppure lasciarla vivere secondo le proprie leggi. Persino quando gli abitanti di una provincia, che passava da una mano all’altra, non venivano consultati sul cambiamento, ci si aspettava che queste leggi venissero osservate. Nel 1482 Maria di Borgogna fu costretta dai suoi Stati Generali a firmare il Trattato di Arras e cedere l’Artois e la Franche-Comté alla 

Francia, come dote per la figlia neonata che avrebbe sposato il delfino. Al futuro sposo (che nel caso specifico non sposò mai la principessa Margaret) fu chiesto «di tenere in particolare considerazione le contee di Artoi s e Borgogna e i poveri abitanti che troverete essere i migliori e più leali sudditi» . 

In questo modo i principi potenti, abili o semplicemente fortunati , potevano aggiungere alloro regno provincia su provincia, e Stato su Stato, ognuno con le sue leggi e le sue istituzioni ben consolidate. Per ottenere una maggiore coesione dei suoi domini, il principe spesso trovava utile convocare insieme tutti i membri delle assemblee rappresentative. Non poteva dare per scontato che tutte le province sostenessero la sua politica, specialmente la guerra che per il principe era essenziale. Così nel 1485 le terre della Prussia Reale, una provincia di lingua tedesca che sin dal 1466 viveva felicemente sotto il regno di Polonia, rifiutarono di sostenere la guerra con i Turchi Ottomani. Essi affermavano persino che, secondo i loro privilegi, il re di Polonia era obbligato a proteggerli dall’aggressione, ma non il contrario. 

La monarchia francese aveva già fatto esperienze simili nel XV sec. Alcune delle province francesi non avevano alcun interesse nella guerra contro l’Inghilterra e preferivano tenere per sé le proprie risorse. I re francesi allora convocarono molte assemblee in tutto il Paese, les états généraux, solo raramente e non sempre con grande successo. Inoltre c’era il pericolo che gli Stati Generali, un’assemblea composita per un regno grande e complesso, potessero diventare molto potenti e cominciare ad usurpare l’autorità reale. Ciò accadde in Francia anche quando re Giovanni II fu fatto prigioniero dagli Inglesi nella battaglia di Poitiers (1356). Gli Stati Generali approvarono l’imposizione di tasse per poter continuare la guerra e per pagare l’enorme riscatto per liberare il re. Nello stesso tempo cercarono di riformare il governo centrale la cui incompetenza aveva portato alla disfatta militare. Ma gli Stati Generali per un Paese così esteso e vario come la Francia si rivelarono troppo impacciati, e il nuovo energico re Carlo V preferì regnare facendone a meno. La monarchia francese era l’unica, a parte alcuni principati italiani, che era riuscita a mettere su un’amministrazione tributaria che funzionasse nella maggior parte del Paese. Sin dal tempo di Carlo V, esso aveva acquisito la reputazione di dominium regale, un regime che poteva imporre liberamente tassazioni importanti. Al contrario, in un dominium politicum et regale la monarchia non aveva tale diritto. La linea di demarcazione tra i due tipi di regime non era sempre così netta, ma gli esperti del tempo indicavano chiaramente che tale differenza esisteva e anche da quale lato si poneva la Francia. 

Forse la situazione si può meglio riassumere con l’aneddoto di un ambasciatore veneziano, che Francesco I era solito ripetere. Egli diceva che l’imperatore Massimiliano gli aveva riferito che lui, l’imperatore, era il re dei re, perché nessuno eseguiva i suoi ordini; Ferdinando il Cattolico era il re degli uomini, perché gli uomini gli obbedivano solo quando decidevano di farlo; ma Francesco, re di Francia, era il re delle bestie, perché tutti gli obbedivano sempre. 

Questa battuta era ovviamente un’ esagerazione. Lo storico ha ben ragione di chiedersi, però, perché Francesco lo raccontasse così spesso. Il giudice Fortescue, a cui si deve la pal1icolare formulazione della definizione dei due diversi tipi di regime nel XV sec., non si inventò certo l’idea. L’aggettivo «politico » derivava dalla Politica di Aristotele ed era usato di frequente sul continente per indicare un regime limitato o misto. 

Se i governanti delle monarchie multiple nutrivano sentimenti ambivalenti verso le assemblee rappresentative multiple, così era anche per le proprietà delle singole province. Quelle degli Asburgo d’Austria, nell’Europa centrale, erano spesso riluttanti a mandare i loro deputati al di fuori dei propri confini. I Boemi, per esempio, si rifiutavano di andare in Austria. I privilegi che i governanti avevano giurato di mantenere erano sempre i privilegi locali di quella particolare provincia. Non si mettevano da parte tali privilegi con leggerezza, per paura di perderli del tutto. Se si riteneva necessario farlo, si pretendevano altri privilegi maggiori. Se negli incontri degli Stati Generali le province più piccole in genere seguivano le indicazioni di quelle più grandi, per esempio, nella concessione di tasse, tutti opponevano strenua resistenza verso qualsiasi mozione di voto di maggioranza, specialmente in questioni finanziarie. 

Questa è un’altra ragione per cui, con pochissime eccezioni, gli Stati Generali funzionavano solo in territori contigui. Una striscia di mare tra due territori sotto la stessa corona, costituiva un serio ostacolo. Ma anche in questi casi, le storie di Inghilterra e Irlanda, di Svezia e Finlandia e di Aragona e Sardegna dimostrano che il mare non era una barriera assoluta. Questi esempi, però, erano relativamente rari e la ragione principale era che i membri degli 

Stati Generali, ancor più di quelli delle unità singole, insistevano nel restringere i poteri dei deputati e pretendevano che sulle questioni importanti essi si consultassero con coloro che li avevano mandati. C’erano buone ragioni per tutto ciò. I borgomastri, i sindaci e i segretari comunali trovavano naturalmente più facile far valere il loro coraggio all’interno della propria comunità, rispetto a quando si trovavano a viaggiare come deputati e ad affrontare i grandi signori del consiglio reale o persino lo stesso re o il suo reggente. Respingere le richieste dell’autorità era più facile se si poteva affermare di non avere il potere di decidere personalmente. Al contrario, era più facile per il governo intimidire i singoli deputati che dover affrontare l’intero consiglio di una grande città. Nonostante ciò, non era sempre chiaro chi rappresentassero i deputati. Le assemblee provinciali o le città parlamentari e le corporazioni ecclesiastiche? Né era sempre chiaro il ruolo dei notabili nelle assemblee, specialmente se essi facevano parte anche del consiglio del re. La storia degli Stati Generali non può quindi essere separata nettamente dalla storia delle assemblee delle province costituenti di una monarchia multipla. Gli uomini non cedono volentieri il potere che esercitano o che pensano di dovere esercitare. Se l’ideale di dominium politicum et regale era cooperare per il bene della comunità, ci potevano essere idee molto diverse riguardo a chi e che cosa fosse la comunità. 

Ci potevano anche essere svariate e appassionate idee riguardo a cosa fosse il bene, aristotelico o meno. E se queste differenze conducevano a conflitti aperti, come spesso accadeva, era inevitabile che gli Stati vicini fossero coinvolti in tali conflitti. Lo storico, dunque, osserva certe tendenze e certe regolarità in queste storie. Ma le contingenze influenzavano sempre il risultato. Ciò che lo storico non può fare è predire l’esito di queste storie, né per l’Europa né per i singoli Stati. 

Una storia comparata ed esaustiva degli Stati Generali sarebbe quindi equiparabile alla storia politica dell’Europa moderna. Anche se fosse possibile scriverla – e finora non esiste – non ci fornirebbe una legge generale dei rapporti storici tra monarchia e parlamento. Per questa ragione ho scelto un formato diverso: quello di descrivere in modo approfondito  i rapporti fra la monarchia e gli Stati Generali dei Paesi Bassi in un periodo di duecento anni. La ragione di questa scelta è la storia infinitamente varia di questo rapporto. Ci troviamo davanti a un’organizzazione politica multipla all’interno di uno Stato multiplo, aperto sia alle idee che all’ intervento esterno. Il leone per una volta è riuscito ad alienare tutti i leopardi dal suo comando. Metà di loro scelsero di ritornare a lui, per svariate ragioni, non ultima quella della paura di pecore con denti di cane. L’altra metà dei leopardi scelse di non ritornare sotto il comando del leone perché scelse di non nascondere le proprie macchie. Tutti scelsero di tenere le pecore, con o senza i denti, all’oscuro. Il Riccardo Il di Shakespeare riassume quest’atteggiamento quando caratterizza la stranezza della ribellione di Bolingbroke: 

Ho avuto modo di osservare io stesso, 
e con me anche Bagot, Green e Bushy, 
com’ ei riesca a corteggiare il popolo, 
e penetrare in fondo ai loro cuori 
con umili ed affabili maniere; 
e prodigarsi a loro in grandi gesti 
corteggiando quei poveri artigiani 
con l’arte del sorriso. 

RICCARDO Il (I, 4) 

(Trad. italiana di Bruna P Scimonelli) 

Helmut Koenigsberger

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 5-17.

 




 Monarchie, Stati Generali e Parlamenti 

 

di Helmut G. Koenigsberger 

Re Riccardo: « … i leoni domano i leopardi.» 

T. MOWBRAY DUCA DI NORFOLK: «Sì , ma non possono 

cambiare le loro macchie.» 

(Riccardo II, l, 1,5-6.) 

Machiavelli fu bandito dal Parnaso «perché fu sorpreso di notte con un gregge di pecore a cui insegnava ad usare falsi denti di cani così che in futuro esse non potessero essere rido Ile all’obbedienza col fischio e con la frusta». 

(Traiano Boccalini. Ragguagli di Parnaso, LXXXIX) 

PROLOGO 

Lo Stato. che nasce per rendere possibile la vita, in realtà esiste per rendere possibile una vita felice. (Aristotele. Politica, libro l, cap. 2) 

ELEUTHERlA – L’epigramma di Aristotele costituisce la più rivoluzionaria definizione di Stato nella storia del pensiero politico, La maggior parte degli Stati e, ancora di più, la maggior parte degli imperi sono stati fondati e governati per il bene dei governanti o per il bene della tribù. Sia la tribù che i governanti hanno sempre cercato di giustificare la loro azione di governo come volontà degli dei o di Dio. Si riteneva, naturalmente, che la volontà degli dei fosse per il bene dei sudditi. Tutto ciò era, nel migliore dei casi, un ripensamento o, più spesso, semplice propaganda. 

Non che il pensiero di Aristotele fosse originale. Perché almeno 250 anni prima del suo scritto la vita felice era già equiparata all’eleutheria, la libertà, definita sia come libertà del governo da regimi esterni che come libertà dei cittadini dalla tirannia, dal dominio senza leggi di un singolo governante o, a volte, di gruppi di governanti. Ciò che i Greci inventarono nel loro ordinamento politico, fu la cittadinanza, la polis o città-stato, vale a dire la partecipazione dei cittadini alla vita civica nel promulgare o far rispettare la legge, nell’approvare tasse e spese, nel prendere decisioni sulle relazioni con le città vicine e, se necessario, nel prestare servizio nell’esercito. Tutto questo avveniva tramite il dialogo, l’attività reciproca di parlare e ascoltare e le conclusioni razionali che scaturivano da tale attività. Era una relazione dinamica, aperta, incerta nelle sue conclusioni e che sempre correva il rischio di essere sopraffatta dal suo opposto: governo e servitù, comando e obbedienza, certezza e accettazione. 

Per i Greci solo la vita di questa cittadinanza partecipativa costituiva una vera libertà politica. In pratica, essi trovavano questa libertà – che Machiavelli nel XVI sec. avrebbe chiamato un vivere politico – difficile da raggiungere e quando ci riuscivano era solo all’interno del circolo ristretto della polis e dei suoi cittadini a pieno titolo. Donne, stranieri e schiavi erano esclusi, sebbene le donne fossero considerate libere se sposate con un cittadino. Aristotele era interessato solo alla polis. Quando mandava i suoi studenti a studiare le costituzioni fuori di Atene – uno dei maggiori programmi di ricerca mai intrapreso nel campo delle scienze politiche – li mandava solo in altre città-stato del Mediterraneo. 

La cosa rivoluzionaria era la sua definizione del principio dello scopo di uno Stato: la vita felice. 

Sin dalla riscoperta della Politica da parte della Cristianità latina, nel XII sec., essa ha avuto una profonda influenza sulla pratica e sul pensiero politico in 

Europa e, recentemente, in quelle civiltà al di fuori dell’Europa influenzata dal pensiero europeo, anche nei casi in cui tale influenza non è stata apertamente riconosciuta. A volte questo principio è stato deliberatamente ignorato, anche nella nostra epoca e, di solito, con conseguenze disastrose per gli abitanti dello Stato stesso e di quelli vicini. 

Nel Medioevo il principio di Aristotele cadde su un terreno fertile. I princìpi dell’eleutheria non erano mai andati del tutto perduti nell’Impero Romano. Negli Stati che nacquero dalle sue ceneri, questi princìpi furono rafforzati dalla pratica dei re germanici di convocare i propri liberi guerrieri in assemblee generali, per discutere le politiche perseguite dai re e per il consiglio (consilium) e l’aiuto (auxilium) che i vassalli potevano fornire. 

RAPPRESENTANZA – Tutto ciò andava bene per unità politiche relativamente piccole e questa pratica sopravvisse in alcune parti marginali d’Europa. In molte vallate alpine e in alcune aree costiere meno accessibili della Frigia, della Norvegia o dell’Islanda. Il problema era inventare una forma di relazione partecipatoria nelle unità politiche più grandi. La soluzione al problema era sfuggita agli abitanti della Grecia classica o, meglio, essi non l’avevano considerato un problema. Concentrando la loro discussione politica sulla polis, avevano considerato i grandi Stati, come l’Impero persiano o la Macedonia, in ogni caso privi del principio dell’ eleutheria. 

Nell’Europa medievale i principi della relazione feudale tra signore e vassallo non erano di per sé una base per l’eleutheria. La principale virtù medievale, l’ideale verso cui tutti i giovani uomini venivano educati, era tipicamente la lealtà. Non era un ideale da mettere in discussione. Il signore, o il re, era solito rivolgersi ai suoi vassalli per consigli e aiuto; ma per le discussioni e i dibattiti si circondava solo di pochi individui scelti con cura. C’era bisogno di qualcos’altro che potesse associare sezioni molto più ampie della società alla politica del re. Da questo bisogno nacque il principio della rappresentanza. 

Essa era in origine una pratica apolitica derivata dal diritto romano, in cui un avvocato rappresentava il suo cliente o clienti nelle cause civili. Non sorprende che tale pratica si trovi per la prima volta tra gli uomini di Chiesa, cioè, tra quella parte di società che conosceva il latino. I grandi ordini religiosi internazionali trovavano utile la rappresentanza per incrementare la reciproca coesione tra le varie case religiose. Così. nel XIII sec., i Domenicani svilupparono un sistema complesso formato da una gerarchia di consigli elettivi che rappresentavano le singole case, le assemblee provinciali e, infine, l’intero ordine. 

Anche prima che i Domenicani sviluppassero pienamente il loro sistema di rappresentanza, i papi del XII sec. convocavano i prelati dagli Stati papali per consultarli. Nel 1213 Innocenza III fece un ulteriore passo in avanti. Nel convocare il IV Concilio Laterano, egli invitò non solo il clero cristiano, rappresentato dai prelati. i vescovi e gli abati dei grandi monasteri, ma anche gli ambasciatori dei re e di alcune città-stato italiane. 

In modo ancora più incerto, i governanti cominciarono anch’essi a convocare i grandi vassalli in persona e talvolta i rappresentanti del clero e delle città. Se non l’avessero fatto, le conseguenze avrebbero potuto essere imprevedibili e nefaste. Nel 1158 l’imperatore Federico I Barbarossa convocò una grande assemblea feudale, una dieta, a Roncaglia, in Italia, per ottenere tasse su un certo tipo di commercio, sulla zecca e sui diritti delle miniere. Esse erano considerate tradizionalmente prerogative del re o dell’imperatore, le regalie. I notabili di 

Federico, per la maggior parte tedeschi, non ebbero difficoltà nell’imporre queste tasse alle città italiane dell’Imperatore. Ma queste città non erano state consultate. Esse formarono leghe contro l’Imperatore e lo contrastarono con successo, finché non ottennero virtualmente l’indipendenza dal suo dominio. 

Con maggior successo, alcuni principi riunirono delle assemblee in cui i prelati, i nobili e le città erano tutti rappresentati. Tale fu la prima Corte Spagnola del re di Leòn nel 1188. Questi incontri erano ancora sporadici e non istituzionalizzati. Furono i teologi, specialmente gli avvocati di diritto canonico, dal XII al XIV sec., a sviluppare teorie sistematiche sulla rappresentanza, collegandole all’ assunto aristotelico che lo Stato esiste per il bene dei suoi cittadini (sebbene i notabili e i prelati non avrebbero certo approvato questa affermazione) e furono essi ad impegnarsi in un dialogo moderno sul modello greco con i loro principi e tra loro stessi. 

C’erano buone ragioni perché il pensiero politico ecclesiastico del tardo Medioevo insistesse su quest’ argomento. Per cominciare, c’erano le parole di Gesù, secondo cui bisognava dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Ma questo precetto da solo non bastava a spiegare lo sviluppo di elaborate teorie politiche. Niente del genere avvenne nella teologia bizantina né nella sua erede, la Chiesa russa ortodossa. Nell’Impero bizantino e in Russia (e a fortiori negli Stati islamici successi vi all’Impero Romano) qualsiasi reale opposizione tra l’Imperatore e la Chiesa (o tra i califfi e le leggi dell’Islam) era impensabile. Ma in Occidente il collasso dell’Impero Romano nel V sec. aveva reso il capo della Chiesa, il papa, virtualmente indipendente dall’Imperatore. Anche se per gran tempo non si pensò in termini di opposizione, era impossibile che a lungo andare i loro interessi, politici o teologici, coincidessero sempre. 

Ci vollero parecchi secoli prima che venissero pienamente apprezzate le conseguenze intellettuali di questa situazione contingente e, nella prospettiva della storia mondiale, anomala. Ciò divenne inevitabile, però, quando dall’XI al XIV sec., sia i papi che gli imperatori del Sacro Romano Impero, e in seguito anche i re degli Stati europei indipendenti, cominciarono a richiedere la supremazia. Ogni tanto ci fu guerra aperta e in tutto quel periodo si ebbe un’ accesa campagna di propaganda da ambo le parti. Tutti i protagonisti del dibattito scrivevano in latino e tutti si rifacevano alla Bibbia come la fonte più autorevole in questo campo. Questa situazione costringeva gli uomini ad argomentazioni razionali. Inevitabilmente, specie dopo la riscoperta della Politica di Aristotele. che divenne un testo base nella formazione universitaria di diritto civile e canonico, queste argomentazioni razionali dovevano occuparsi della natura dello Stato e dell’ autorità politica. Ci si trovò a discutere in maniera fondamentale sia sul locus che sui limiti dell’autorità e su quali rimedi ci fossero se un tiranno ne abusava. Poiché, sebbene Gesù avesse affermato che tutto il potere viene da Dio, rimaneva da risolvere la questione pratica di come i re ottenessero il potere: se direttamente da Dio o indirettamente dalla volontà del popolo. E se il potere veniva dal popolo, che diritto aveva il popolo di toglierlo a un re tirannico o, perlomeno, di limitarne i poteri? Chi aveva l’autorità di fare le leggi? E il principe era soggetto alle leggi che lui stesso o i suoi predecessori avevano promulgato? In pratica, quali leggi poteva emanare, come imporre certi tributi, che non fossero in conflitto con le leggi naturali di Dio? E la legge naturale comprendeva significativamente i diritti sulla proprietà. 

Tali discussioni non venivano necessariamente portate avanti in ogni assemblea che il principe convocava. Ma costituivano le questioni fondamentali che 

determinavano lo scopo e le prerogative delle assemblee rappresentative. Esse erano sostenute da un principio derivato dal codice di Giustiniano: quod omnes tangit ab omnibus approbetur: ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti. Ancora una volta questa era già stata una procedura puramente tecnica nel diritto romano. Si applicava nelle cause civili, come la tutela di un minore da parte di diverse persone. Ma nel corso dei secoli XIII e XIV questo cavillo tecnico, qualche volta formulato in maniera leggermente diversa, diventò un principio politico. Si sarebbe rivelato un principio dagli effetti sconvolgenti. Era usato da coloro che adunavano le assemblee allo scopo di trovare sostegno da parte dei sudditi; fu questo il caso di Edoardo I d’Inghilterra quando convocò il Model Parliament nel 1295. Questo principio veniva usato regolarmente da coloro che ritenevano di dover essere convocati. Perché dare consigli aveva un duplice aspetto: era il dovere del vassallo nei confronti del suo signore o principe e finì per essere considerato un diritto. Così il principio del quod omnes tangit, associato a quello della rappresentanza, finì per riproporre il principio greco della partecipazione alle decisioni politiche cui si arrivava grazie al dialogo razionale e «approvato da tutti». 

ASSEMBLEE RAPPRESENTATIVE – Nel tardo Medioevo il principio della rappresentanza si diffuse in tutta l’Europa cristiana cattolica. Si adattava bene sia alle necessità dei principi che alle tradizioni dei vari governi locali. Queste tradizioni differivano enormemente dalla partecipazione dei lati fondisti inglesi alle corti della contea, all’autogoverno virtuale delle comunità dei villaggi in varie parti d’Europa e, soprattutto, alle corporazioni cittadine, con i loro statuti reali o episcopali, che stabilivano sia la natura che i particolari dei loro diritti. 

I principi, da parte loro, avevano bisogno di tutto l’aiuto possibile da parte dei loro sudditi nella feroce competizione militare che era diventata la norma in Europa dopo che i grandi imperi dei Franchi e dei Danesi erano scomparsi, sepolti in un irrepetibile passato. I principi ricevevano sia informazioni che aiuto dalle loro assemblee. Nel corso del XIII sec. divenne più comodo adunare non solo i notabili ma anche le città; perché erano proprio queste ultime a poter fornire più prontamente denaro per le imprese belliche dei loro prìncipi. 

Per le città era fastidioso e costoso mandare i propri rappresentanti alle assemblee; ma era anche una buona opportunità per far approvare i propri statuti, discutere argomenti di interesse comune, come i rapporti commerciali con le potenze straniere o il conio locale e, soprattutto, tenere il fisco entro limiti ragionevoli. Le città potevano formare leghe, come le hermandades di Castiglia, che si riunirono regolarmente a partire dal 1282 e che, alla fine, svilupparono 

istituzioni stabili per regolare la loro lega. Nelle Fiandre, i rappresentanti dei quattro membri, le città principali di Bruges, Ghent, Ypres e la zona degli agglomerati urbani e dei castelli tra Bruges e il mare, chiamata la Franc de Bruges (het Vrije van Brugge) tennero più di 4000 incontri tra il 1384 e il 1506, spesso in luoghi diversi e contemporaneamente. In Olanda, tra il 1401 e il 1433, si tennero più di 700 assemblee. Loro scopo principale era discutere di questioni commerciali. Nei principati più estesi e nelle zone prevalentemente rurali gli incontri erano per lo più gestiti dai notabili laici ed ecclesiastici, anche quando vi partecipavano alcune città. Queste riunioni erano molto meno frequenti, a volte con intervalli di parecchi anni, ma a differenza delle assemblee urbane erano molto più complesse e formali. Spesso le presenziava il principe in prima persona. 

La cosa sorprendente è che le città-stato italiane, pur sviluppando la loro 

indipendenza nella lotta contro gli imperatori tedeschi, non presero parte al movimento di costituzione delle assemblee rappresentative. Le loro leghe, come la Lega Lombarda che combatté Federico Barbarossa, erano poco più che alleanze di unità indipendenti, proprio come lo furono più tardi i membri della Lega Anseatica nel nord Europa. Questa Lega teneva i suoi raduni occasionali: assemblee dei rappresentanti di alcune città anseatiche, ma raramente vi parteciparono tutte. Queste riunioni non si trasformarono mai in istituzioni formali, con membri fissi. 

Le città-stato italiane svilupparono una forte tradizione di libertà politica. Proprio come l’eleutheria per i Greci, questa libertà era vista sia come libertà dall’oppressione straniera che come libertà dalla tirannia interna. I teorici politici umanisti italiani, compreso Machiavelli, 

non dubitarono mai che la vera libertà dovesse essere repubblicana. Le loro discussioni riguardavano piuttosto la natura del regime repubblicano: se dovesse essere aristocratico, democratico o misto. La rappresentanza era propria delle monarchie e dunque non era 

considerata un vivere politico, sebbene Machiavelli ritenesse che quando veniva perduta doveva essere ristabilita da un uomo di «virtù». 

Ma c’erano ragioni pratiche perché le città-stato in Italia rifiutassero la rappresentanza. Nei confronti delle aree circostanti il loro contado, esse si comportavano come principi. Le soggiogavano, le tassavano e le usavano come basi di arruolamento per i soldati che 

avrebbero combattuto per loro. Né le città del contado né la nobiltà rurale venivano 

consultate per queste guerre e i nobili erano convocati solo quando era necessaria la loro presenza individuale nell’esercito. Per quanto riguarda le città suddite, una che ne aveva in gran numero, come Firenze, non avrebbe mai convocato i rappresentanti delle città toscane 

insieme, dando loro modo di allearsi l’una con l’altra contro la città «imperiale». Questa tradizione anti-stato era così forte che impedì lo sviluppo delle assemblee rappresentative anche laddove una città-repubblica era diventata principato, come accadde a Milano e Verona e in altre città. Così, né una prevalenza di città, né di relazioni feudali, e nemmeno l’abbondanza di corporazioni ecclesiastiche e la presenza di giuristi canonici, possono da sole spiegare la comparsa di istituzioni rappresentative. Perché ciò avvenisse era assolutamente 

necessaria un’ulteriore condizione, un elemento inerente all’idea stessa di rappresentanze di località, corporazioni e Stati che si riunissero in assemblea. Mancava il senso della comunità di una struttura politica. Al di fuori delle città, che certamente svilupparono sentimenti comunitari, ma dove, come detto, la rappresentanza non si sviluppò, tale sentimento in origine poteva essere di tipo tribale. Ma più spesso, durante il Medioevo, le origini tribali vennero dimenticate in favore di tradizioni di cooperazione politica e militare e di obbedienza al principe locale. 

Nel 1128, durante una crisi dinastica nelle Fiandre, i membri della nobiltà e molte grandi città formarono leghe per gestire la crisi ed eleggere il nuovo conte delle Fiandre. Fino a quel momento le leghe non erano assemblee rappresentative (anche se alcuni storici le hanno considerate veri e propri pre-parlamenti) e non ci sono prove che la massima quod omnes tangit venisse applicata. Ma tali eventi costituivano in sé una collaborazione tra la nobiltà e le città ed evitarono che le Fiandre si spezzettassero in una serie di città-stato indipendenti come accadde in 

Italia settentrionale. Ciò è più sorprendente se si considera che le città principali, Bruges, Ghent e Ypres, si comportavano in buona misura come se fossero città-stato, dominavano e sfruttavano le campagne e i villaggi circostanti come un contado italiano. A partire dalla fine del XII e per tutto il XIII sec. i conti furono spinti a cooperare regolarmente con le assemblee dei loro Stati per potersi difendere dai re di Francia che cercavano di ristabilire il loro dominio nel Paese. 

In questo caso, come spesso accadeva nei rapporti tra i principi e le loro assemblee rappresentative, il corso degli eventi e l’equilibrio finale dei poteri non furono determinati soltanto dalla storia interna del Paese in questione, ma anche dall’intervento esterno. La storia dei principi e dei parlamenti non si svolge quasi mai in un sistema chiuso. 

Questo vale anche per i parlamenti delle isole. La storia della Magna Carta forse sarebbe stata diversa se la rivolta dei baroni contro re Giovanni , nel 1215, non fosse stata sostenuta dalla Francia. Nello stesso tempo, e ciò evidenzia in maniera cruciale lo spirito di comunità che c’era nel Paese, i diritti e i privilegi che i baroni estorsero al re, specialmente il processo davanti ai propri pari secondo la legge. sarebbero valsi per tutti gli uomini liberi della nazione. Alla morte di Giovanni, il governo di reggenza per conto del figlio minore riemanò la legge altre tre volte. Anche se le tre versioni differivano in alcuni dettagli, le copie furono inviate a tutti i tribunali delle contee, quindi coinvolsero deliberatamente la comunità di tutto il regno. 

Fu questo il modo in cui la Magna Carta finì per essere interpretata. I parlamenti successivi insistettero per promulgarla ancora. La reputazione del parlamento e della Magna Carta, entrambi considerati a salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini inglesi, si rinforzavano l’un l’altro, e si svilupparono insieme fino a formare la tipica simbiosi dell’idea di governo di diritto, dei diritti e privilegi dei sudditi e della rappresentanza dell’intera comunità. 

Ci volle tempo perché venissero stabilite in Inghilterra adunanze regolari del 

Parlamento e lo stesso valeva per le altre assemblee rappresentative sul Continente. Inevitabilmente esse si svilupparono in tempi diversi, dal XIII al XV sec. Vi erano i tre stati classici: clero, nobiltà e popolo; ma vi era anche il principato d’Olanda in cui le assemblee erano di solito limitate alla nobiltà e alle sei città maggiori (sebbene a volte venivano convocate anche le città più piccole) e non aperte al clero. In Polonia solo la nobiltà veniva considerata come rappresentativa della comunità. Le città venivano lasciate fuori dalla Sejm, la dieta di tutto il regno, anche se dominavano l’assemblea provinciale della Prussia Reale. In Svezia, al contrario, il clero era costituito non solo dai prelati ma anche dal clero locale, e c’era persino uno stato dei contadini. Molto dipendeva dallo sviluppo degli stati come gruppi o raggruppamenti auto-consapevoli all’interno dello Stato stesso, come la divisione tra notabili (ricos hombres) e bassa nobiltà (hijosdalgo) nelle Cortes di Aragona. 

C’erano assemblee rappresentative dappertutto al di fuori delle città-stato, a parte alcune comunità contadine nelle valli alpine e le paludi della costa settentrionale della Frigia, nel mare del Nord, che conservavano antiche tradizioni di riunioni degli uomini liberi. 

Le assemblee rappresentative non erano mai democratiche. Solo in Inghilterra c’era qualcosa di simile alle elezioni dei membri effettivi del Parlamento e nessuno immaginava che queste elezioni fossero democratiche. La democrazia era apprezzata da alcuni umanisti. Ma, al di fuori di alcune città-stato italiane e svizzere e delle poche comunità contadine indipendenti, la democrazia era 

disprezzata ed evitata. La rappresentanza era presente negli ordini ecclesiastici e nelle monarchie. Certamente aveva il compito di coinvolgere le comunità nella vita politica, ma mai nessuno pensava che dovesse cambiare la struttura sociale della comunità. Era rivoluzionaria nel senso aristotelico che dava l’opportunità di una vita felice difendendo le libertà, i privilegi particolari di corporazioni e gruppi, all’interno della comunità. Doveva preservare la comunità dal governo arbitrario del principe. Ma la rappresentanza non era intesa come uguaglianza o uguali diritti. La forma esatta delle assemblee e i loro rapporti col principe dipendevano dalla struttura sociale delle comunità che rappresentavano. Questi rapporti, a loro volta, erano spesso influenzati dalle alleanze e dall’intervento delle comunità limitrofe. Una volta stabilite, le assemblee tendevano ad assumere una forma istituzionale. Come tali, cominciarono a sviluppare una loro vita propria con certe forme tradizionali talora rigide, e ciò accadeva persino quando le condizioni socio-politiche originarie erano cambiate. Se la comparsa delle assemblee rappresentative dipese dall’esistenza di un certo senso della comunità, le assemblee aumentarono questo sentire. 

I principi avevano un atteggiamento ambivalente verso le loro assemblee. Le consideravano utili per assicurarsi il sostegno della comunità, l’osservanza delle leggi e in misura ancora maggiore, per la concessione di denaro sotto forma di tasse. Nel 1282 i Siciliani rovesciarono il loro re della casa francese di Anjou (Vespri Siciliani) e si rivolsero al re d’Aragona perché prendesse la corona e li aiutasse a mantenere la loro indipendenza. Pietro III d’Aragona, pur reclamando la corona di Sicilia per diritto ereditario, convocò molti parlamenti in Sicilia per farsi confermare re. Questi parlamenti evitarono che il regno si spezzettasse in una miriade di città-stato, come nell’Italia settentrionale, e così ottennero da re Pietro un certo numero di privilegi, in cambio di somme di denaro per finanziare la guerra con la casa di Anjou che si trovava ancora a Napoli. Non sorprende che Pietro d’Angiò abbia convocato anche un’assemblea nel suo principato di Catalogna allo scopo di ottenere supporto finanziario per la sua politica in Sicilia. 

Eppure i principi erano ben consapevoli del pericolo costituito dalle assemblee che potevano diventare potenziali rivali dell’autorità. Sia essi che i loro avvocati erano sempre molto suscettibili a questo argomento. Se la massima romana del quod omnes tangit era ormai generalmente accettata, lo era anche quella del diritto romano che considerava il principe come legibus solutus, al di sopra della legge. Secondo alcuni giuristi, questo principio era rinforzato dal detto del Codice Giustinianeo: quod principi placuit leges habet vigorem, poiché piace al principe ha forza di legge. Cosa realmente significassero queste massime romane era un argomento di costante dibattito e di sottili e colte argomentazioni da parte di magistrati civili e canonici. Più comunemente, si sosteneva che solo il principe aveva il diritto di formulare le leggi che poi l’ assemblea rappresentativa aveva il dovere di confermare. 

Ma cosa accadeva alle leggi che risultavano dalla presentazione di lamentele? Questa presentazione era una delle funzioni riconosciute alle assemblee. I principi erano ansiosi di non perdere il proprio diritto di accettare o rifiutare i suggerimenti delle assemblee. Talora, specie, quando si trattava di una disputa dinastica, le assemblee si riunivano di loro iniziativa. Ma i principi scoraggiavano simili azioni indipendenti e insistevano che solo essi avevano il diritto di convocare, prorogare o sciogliere il parlamento. Ma i parlamenti e le assemblee rappresentative non erano uguali ad un consiglio regale. In assenza di una vera e propria amministrazione civile, i parlamenti tornavano utili alla politica proprio 

perché rappresentavano interessi, informazioni e autorità indipendenti da quelli del principe e del consiglio che lui nominava. Essi costituivano un’opportunità di dialogo politico per la comunità. 

CONCILIARISMO – L’ambiguità fondamentale di questo equilibrio dei poteri 

tardo-medievali, divenne evidente nella prima metà del XV sec. nella storia dei grandi consigli ecclesiastici e del loro confronto con la monarchia papale. Non era un confronto intenzionale. I leader dell ‘Europa cristiana, sia religiosi che laici, decisero di porre fine allo scisma papale (1378). Un concilio a Pisa (1408-’09), convocato da un gruppo di cardinali, fu rigettato da entrambi i papi e finì per aggiungere un terzo papa ai due in lotta. Il concilio successivo a Costanza (1414-1418) fu convocato su iniziativa del Sacro Romano Imperatore e vi parteciparono un certo numero di re e principi europei o i loro rappresentanti, oltre una sfilza impressionante di prelati e teologi. Allora i papi e gli antipapi furono deposti con successo e ne fu eletto uno nuovo, Martino V, che fu accettato da tutti. Questo è molto simile all’operato delle assemblee rappresentative locali, come quello delle Fiandre, che aveva deposto un principe indegno e ne aveva eletto uno nuovo. Adesso, col Concilio di Costanza ciò era avvenuto su scala più vasta. Frequentato o, perlomeno, seguito avidamente dal fior fiore degli intellettuali europei, il concilio produsse naturalmente una giustificazione teorica alle sue decisioni. Essa si trova nel famoso decreto Haec Sancta (6 aprile 1415), dove si afferma che il concilio derivava la sua autorità direttamente da Cristo e questa autorità era superiore a quella del papa, il successore di San Pietro e vicario di Cristo. I padri della Chiesa erano attenti a reclamare tale autorità solo per le questioni di fede, ma come si potevano distinguere tali questioni da quelle organizzative e politiche? Il concilio procedette a riorganizzare la Chiesa e ad eleggere un nuovo capo. 

Questi erano i problemi fondamentali sulla natura dell’ autorità che i teologi avevano dibattuto per secoli in senso astratto. Erano problemi essenzialmente analoghi a quelli dell’autorità del principe e dell’assemblea rappresentativa. Il confronto divenne più aperto nel corso del concilio successivo, a Basilea (1431-1449). Naturalmente gli scontri ora si svilupparono per il tentativo del papa Eugenio IV di sciogliere il concilio, mentre quest’ultimo replicava che solo lo stesso concilio poteva decretare il proprio scioglimento o la propria proroga. Si finì per formulare un decreto ancora più innovativo dellHaec Sancta, in cui si stabiliva che il concilio aveva semplicemente un’autorità superiore a quella del papa. 

La posizione conciliare fu discussa soprattutto nelle università, in special modo nella facoltà di teologia di Parigi. Alla fine i teologi non poterono opporsi al potere del papa di usare le diverse potenze temporali l’una contro l’altra. Inoltre, egli aveva il vantaggio, nella propaganda spirituale, di avere concluso da poco un accordo apparentemente riuscito con la Chiesa greca ortodossa (1437). Già a metà del XV sec., il papato era riuscito ad emergere come monarchia autocratica dal confronto con i principi della rappresentanza dei conciliaristi. Nessuno poteva prevedere che il papato diventasse ora vulnerabile, non solo a causa dei riformatori della Chiesa – tutti concordavano nella necessità di riforme – ma anche nella ricerca da parte dei principi di indipendenza ecclesiastica e di controllo sulle loro chiese. 

A riflettere sul dibattito del XV sec., l’aspetto sorprendente non è la partita persa dal movimento conciliarista. Gli interessi dei protagonisti erano troppo 

diversi. Le mere dimensioni dell’ operazione conciliare e l’enorme territorio sul quale doveva essere coordinata, erano troppo persino per i più accaniti sostenitori. Così Nicola di Cusa, una delle menti più brillanti di quell’epoca, abbandonò i conciliaristi e si schierò dalla parte del papato. La vera sorpresa invece è quanto in avanti fossero riusciti a spingersi i conciliaristi. Era un segno della vitalità dell’idea di unità dei Cristiani, un segno analogo a quello comunitario che sarebbe stato essenziale per la nascita della rappresentanza nei singoli Stati europei. 

Allora l’idea di rappresentanza fu sconfitta assieme all ‘ idea di conciliarismo? La storia non è così logica né così simmetrica. La nozione di un concilio sopravvisse come idea, come aspirazione, come un mezzo per guarire i mali del tempo. Era ancora un’idea forte nella prima generazione della Riforma, e rimase tale da ambo le parti del dibattito riforrnista. Ma poi la connessione tra concilio e rappresentanza svanì sempre più sullo sfondo, cedendo alle sempre maggiori certezze dei dogmi di entrambi gli schieramenti. Al Concilio di Trento (1545 – 1564) pochi erano interessati alla rappresentanza, tranne che per la necessità dei Protestanti di far udire la propria voce e dei Cattolici di negarla. 

STATI COMPOSITI E STATI GENERALI 

I concili ecclesiastici del XV sec. furono dei grandiosi, ma inefficaci, tentativi di creare un’istituzione rappresentativa composita. L’idea stessa, comunque, era tutt’altro che morta, né i Concili di Basilea e di Costanza furono i soli esempi. Le assemblee rappresentative 

composite furono la conseguenza logica della comparsa di monarchie composite o multiple. Nel tardo Medioevo, queste monarchie erano diventate la forma più importante di organizzazione politica in Europa. Più era potente la monarchia – e il potere era l’obiettivo internazionale nella maggior parte delle monarchie – meno probabile era che fosse uniforme. 

Le parti costitutive di una monarchia multipla, nella maggioranza dei casi, si univano insieme per volere comune, come nel caso della Sicilia o d’Aragona, o più spesso per eredità dinastica o di matrimonio, come la maggior parte dei domini della Casa d’Austria, o nel caso 

dell’Inghilterra e della Scozia con la successione di Giacomo VI e I nel 1603. 

In tutti questi casi il principe giurava di osservare le leggi e i privilegi preesistenti del suo nuovo Stato. Nel XV sec. queste leggi e questi privilegi di solito comprendevano un’assemblea rappresentativa che considerava suo dovere difendere i propri interessi e quelli dei suoi membri. Nei pochi casi in cui una monarchia acquisiva uno Stato o una provincia per conquista, si riteneva ci fosse il diritto di abrogare tutte le leggi e i privilegi preesistenti. In pratica, comunque, i poteri della monarchia erano limitati dalla necessità di riconciliare a 

sé almeno una parte dell’élite del nuovo territorio. Machiavelli consigliava al suo principe o di distruggere la nuova provincia, o di risiedervi lui stesso (e dispensare generoso patronato ai nativi), oppure lasciarla vivere secondo le proprie leggi. Persino quando gli abitanti di una provincia, che passava da una mano all’altra, non venivano consultati sul cambiamento, ci si aspettava che queste leggi venissero osservate. Nel 1482 Maria di Borgogna fu costretta dai suoi Stati Generali a firmare il Trattato di Arras e cedere l’Artois e la Franche-Comté alla 

Francia, come dote per la figlia neonata che avrebbe sposato il delfino. Al futuro sposo (che nel caso specifico non sposò mai la principessa Margaret) fu chiesto 

«di tenere in particolare considerazione le contee di Artoi s e Borgogna e i poveri abitanti che troverete essere i migliori e più leali sudditi» . 

In questo modo i principi potenti, abili o semplicemente fortunati , potevano aggiungere alloro regno provincia su provincia, e Stato su Stato, ognuno con le sue leggi e le sue istituzioni ben consolidate. Per ottenere una maggiore coesione dei suoi domini, il principe spesso trovava utile convocare insieme tutti i membri delle assemblee rappresentative. Non poteva dare per scontato che tutte le province sostenessero la sua politica, specialmente la guerra che per il principe era essenziale. Così nel 1485 le terre della Prussia Reale, una provincia di lingua tedesca che sin dal 1466 viveva felicemente sotto il regno di Polonia, 

rifiutarono di sostenere la guerra con i Turchi Ottomani. Essi affermavano persino che, secondo i loro privilegi, il re di Polonia era obbligato a proteggerli dall’aggressione, ma non il contrario. 

La monarchia francese aveva già fatto esperienze simili nel XV sec. Alcune delle province francesi non avevano alcun interesse nella guerra contro l’Inghilterra e preferivano tenere per sé le proprie risorse. I re francesi allora convocarono molte assemblee in tutto il Paese, les états généraux, solo raramente e non sempre con grande successo. Inoltre c’era il pericolo che gli Stati Generali, un’assemblea composita per un regno grande e complesso, potessero diventare molto potenti e cominciare ad usurpare l’autorità reale. Ciò accadde in Francia anche quando re Giovanni II fu fatto prigioniero dagli Inglesi nella battaglia di Poitiers (1356). Gli Stati Generali approvarono l’imposizione di tasse per poter continuare la guerra e per pagare 

l’enorme riscatto per liberare il re. Nello stesso tempo cercarono di riformare il governo centrale la cui incompetenza aveva portato alla disfatta militare. Ma gli Stati Generali per un Paese così esteso e vario come la Francia si rivelarono troppo impacciati, e il nuovo energico re Carlo V preferì regnare facendone a meno. La monarchia francese era l’unica, a parte alcuni principati italiani, che era riuscita a mettere su un’amministrazione tributaria che funzionasse 

nella maggior parte del Paese. Sin dal tempo di Carlo V, esso aveva acquisito la reputazione di dominium regale, un regime che poteva imporre liberamente tassazioni importanti. Al 

contrario, in un dominium politicum et regale la monarchia non aveva tale diritto. La linea di demarcazione tra i due tipi di regime non era sempre così netta, ma gli esperti del tempo indicavano chiaramente che tale differenza esisteva e anche da quale lato si poneva la Francia. 

Forse la situazione si può meglio riassumere con l’aneddoto di un ambasciatore veneziano, che Francesco I era solito ripetere. Egli diceva che l’imperatore Massimiliano gli aveva riferito che 

lui, l’imperatore, era il re dei re, perché nessuno eseguiva i suoi ordini; Ferdinando il Cattolico era il re degli uomini, perché gli uomini gli obbedivano solo quando decidevano di farlo; ma Francesco, re di Francia, era il re delle bestie, perché tutti gli obbedivano sempre. 

Questa battuta era ovviamente un’ esagerazione. Lo storico ha ben ragione di chiedersi, però, perché Francesco lo raccontasse così spesso. Il giudice Fortescue, a cui si deve la pal1icolare formulazione della definizione dei due diversi tipi di regime nel XV sec., non si 

inventò certo l’idea. L’aggettivo «politico » derivava dalla Politica di Aristotele ed era usato di frequente sul continente per indicare un regime limitato o misto. 

Se i governanti delle monarchie multiple nutrivano sentimenti ambivalenti 

verso le assemblee rappresentative multiple, così era anche per le proprietà delle singole province. Quelle degli Asburgo d’Austria, nell’Europa centrale, erano spesso riluttanti a mandare i loro deputati al di fuori dei propri confini. I Boemi, per esempio, si rifiutavano di andare in Austria. I privilegi che i governanti avevano giurato di mantenere erano sempre i privilegi locali di quella particolare provincia. Non si mettevano da parte tali privilegi con leggerezza, 

per paura di perderli del tutto. Se si riteneva necessario farlo, si pretendevano altri privilegi maggiori. Se negli incontri degli Stati Generali le province più piccole in genere seguivano le indicazioni di quelle più grandi, per esempio, nella concessione di tasse, tutti opponevano 

strenua resistenza verso qualsiasi mozione di voto di maggioranza, specialmente in questioni finanziarie. 

Questa è un’altra ragione per cui, con pochissime eccezioni, gli Stati Generali funzionavano solo in territori contigui. Una striscia di mare tra due territori sotto la stessa corona, costituiva 

un serio ostacolo. Ma anche in questi casi, le storie di Inghilterra e Irlanda, di Svezia e Finlandia e di Aragona e Sardegna dimostrano che il mare non era una barriera assoluta. Questi esempi, però, erano relativamente rari e la ragione principale era che i membri degli 

Stati Generali, ancor più di quelli delle unità singole, insistevano nel restringere i poteri dei deputati e pretendevano che sulle questioni importanti essi si consultassero con coloro che li avevano mandati. C’erano buone ragioni per tutto ciò. I borgomastri, i sindaci e i segretari 

comunali trovavano naturalmente più facile far valere il loro coraggio all’interno della propria comunità, rispetto a quando si trovavano a viaggiare come deputati e ad affrontare i grandi signori del consiglio reale o persino lo stesso re o il suo reggente. Respingere le richieste 

dell’autorità era più facile se si poteva affermare di non avere il potere di decidere personalmente. Al contrario, era più facile per il governo intimidire i singoli deputati che dover affrontare l’intero consiglio di una grande città. Nonostante ciò, non era sempre chiaro 

chi rappresentassero i deputati. Le assemblee provinciali o le città parlamentari e le corporazioni ecclesiastiche? Né era sempre chiaro il ruolo dei notabili nelle assemblee, specialmente se essi facevano parte anche del consiglio del re. La storia degli Stati Generali non può quindi essere separata nettamente dalla storia delle assemblee delle province 

costituenti di una monarchia multipla. Gli uomini non cedono volentieri il potere che esercitano o che pensano di dovere esercitare. Se l’ideale di dominium politicum et regale era cooperare per il bene della comunità, ci potevano essere idee molto diverse riguardo a chi 

e che cosa fosse la comunità. 

Ci potevano anche essere svariate e appassionate idee riguardo a cosa fosse il bene, aristotelico o meno. E se queste differenze conducevano a conflitti aperti, come spesso accadeva, era inevitabile che gli Stati vicini fossero coinvolti in tali conflitti. Lo storico, dunque, osserva certe tendenze e certe regolarità in queste storie. Ma le contingenze influenzavano sempre il risultato. Ciò che lo storico non può fare è predire l’esito di queste storie, né per l’Europa né per i singoli Stati. 

Una storia comparata ed esaustiva degli Stati Generali sarebbe quindi equiparabile alla storia politica dell’Europa moderna. Anche se fosse possibile 

scriverla – e finora non esiste – non ci fornirebbe una legge generale dei rapporti storici tra monarchia e parlamento. Per 

questa ragione ho scelto un formato diverso: quello di descrivere in modo approfondito 

i rapporti fra la monarchia e gli Stati Generali dei Paesi Bassi in un periodo di duecento anni. La ragione di questa scelta è la storia infinitamente varia di questo rapporto. Ci troviamo 

davanti a un’organizzazione politica multipla all’interno di uno Stato multiplo, aperto sia alle idee che all’ intervento esterno. Il leone per una volta è riuscito ad alienare tutti i leopardi dal suo comando. Metà di loro scelsero di ritornare a lui, per svariate ragioni, non ultima 

quella della paura di pecore con denti di cane. L’altra metà dei leopardi scelse di non ritornare sotto il comando del leone perché scelse di non nascondere le proprie macchie. Tutti scelsero di tenere le pecore, con o senza i denti, all’oscuro. Il Riccardo Il di Shakespeare riassume 

quest’atteggiamento quando caratterizza la stranezza della ribellione di Bolingbroke: 

Ho avuto modo di osservare io stesso, 

e con me anche Bagot, Green e Bushy, 

com’ ei riesca a corteggiare il popolo, 

e penetrare in fondo ai loro cuori 

con umili ed affabili maniere; 

e prodigarsi a loro in grandi gesti 

corteggiando quei poveri artigiani 

con l’arte del sorriso. 

RICCARDO Il (I, 4) 

(Trad. italiana di Bruna P Scimonelli) H.G .K.




 Il Nazionalismo: passato e futuro (*) 

Mi ha fatto veramente piacere ricevere un secondo invito per una conferenza da parte di questo eminente Centro Internazionale di Cultura “Lilybaeum” di Marsala e ne sono altresì onorato. 

Questa volta voglio parlare di un tema che, sicuramente, preoccupa gli uomini e le donne di tutto il mondo: il nazionalismo e i suoi correlativi, l’etnicismo, il patriottismo, il razzismo e la xenofobia. Tutti questi sono veramente correlativi? Vedremo. Tuttavia parlerò soltanto dell’Europa, per una ragione assai elementare: conosco poco gli altri continenti. 

Cominciamo con una piccola storia personale. Nel 1944, durante la seconda guerra mondiale, fui volontario nella marina britannica. Si incontrava gente di tutte le classi sociali, si parlava e si discuteva di tutto. Allora un giovane apprendista fuochista affermava: «La cucina inglese è la migliore del mondo». Sorpreso, domandavo: «Ne conosci altre?» «No» rispondeva. Ma è comprensibile. Ecco un esempio quasi classico del nazionalismo culturale. 

Facciamo adesso un esempio veramente classico. Giasone dice a Medea: «Hai ricevuto molto di più di ciò che mi hai dato… Dimori adesso nell’Ellade, anziché nel tuo paese barbaro, hai appreso il significato della giustizia e il modo di vivere sotto la legge e non più sotto la tirannia della forza bruta.» Ricordiamo che Medea aveva salvato la vita a Giasone ed ucciso suo fratello mentre lo aiutava ad accaparrarsi il vello d’oro. Giasone l’aveva sposata e adesso Medea s’opponeva ad un suo secondo matrimonio con la figlia del re di Corinto. 

L’argomento del nazionalismo culturale non poteva evidenziarsi più chiaramente. Entrambi apportavano argomentazioni diverse, però Euripide sottolinea la centralità di questo nazionalismo culturale con la risposta di Medea: «I tuoi occhi sono rivolti alla vecchiaia ed una moglie straniera comincia a sembrarti una vergogna». 

Giasone non fu l’unico eroe greco xenofobo. Teseo fu salvato dal labirinto da Arianna. Anche lui la sposò, ma l’abbandonò sull’isola di Naxos. Evidentemente, l’eroe greco accettava l’aiuto di una donna straniera, la sposava persino oltraggiando la sua stirpe e poi la ripudiava alla prima occasione. 

Nello stesso tempo questo nazionalismo culturale, anche nella forma più brutale, come quello di Giasone e di Teseo, non era un nazionalismo politico. Non esisteva questo tipo di nazionalismo nella Grecia antica. Atene e Sparta cooperavano durante le guerre persiane, ma era un’occasione particolare, un’alleanza militare contro un pericolo comune. Il ricordo di ciò, comunque, è diventato parte del nazionalismo culturale greco, specialmente secondo l’interpretazione degli studiosi dell’Europa occidentale nel diciannovesimo secolo. 

L’esperienza greca, tanto mitologica quanto storica, dimostra la difficoltà di costruire una storia coerente del nazionalismo. Certo, è un fenomeno molto antico. Ma che cosa era? Come è cambiato in tutto questo tempo? E quale fu la sua importanza nella storia della civiltà e della politica europea? Evidente appare la differenza tra il nazionalismo e un’istituzione definitiva come, per esempio, lo Stato. Il nazionalismo è sempre stato un atteggiamento mentale e, qualche volta, ma solo qualche volta, una forza politica. E’ stato spesso visto cosi, specialmente dagli storici del secolo scorso e della prima metà del nostro secolo. Per esempio, la storia del risorgimento italiano è stata considerata fino a trenta o quaranta anni fa come la storia di un nazionalismo trionfante, specialmente qui in Sicilia. Ne abbiamo la percezione guardando le lapidi che si trovano nel cortile della Società 

Siciliana per la Storia Patria a Palermo. Solo negli ultimi decenni si è avuto qualche dubbio circa questa interpretazione ed è stato possibile scrivere una storia più precisa di quegli eventi. 

Dopo la rivoluzione del 1989 ci siamo resi conto che tre generazioni di comunismo non avevano fatto scomparire i nazionalismi; o, meglio, la consapevolezza di far parte di una realtà sociale che non era una classe ma un’unità geografica o etnica o linguistica o religiosa o tribale o un insieme di tutte o di alcune di queste caratteristiche. 

Questo fenomeno ha prodotto una vera esplosione di studi, convegni internazionali, monografie, libri scritti da uno o da vari autori e quasi contemporaneamente articoli sui giornali. Gli autori di questi scritti non sono solo storici, ma anche sociologi, antropologi, scienziati e politici, giornalisti e moralisti di ogni tipo. 

Non è possibile fare un riassunto di tutto questo lavoro per il semplice fatto che gli studiosi non sono d’accordo sulla natura del fenomeno che chiamiamo nazionalismo e neanche su una definizione generalmente accettabile del nazionalismo di ieri e di oggi. Se non abbiamo avuto definizioni, abbiamo avuto invece ottimi studi sulla storia del nazionalismo in diversi Paesi. Ma questi studi non ci permettono una chiara generalizzazione. Per esempio, la Scozia, un antico regno già nel Medioevo, non è adesso uno stato separato. Però ha vissuto momenti di grande fermento nazionalistico ed oggi la maggioranza degli Scozzesi preferirebbe l’autonomia politica o anche l’indipendenza. Eppure, malgrado questo fermento non è mai esistito un popolo scozzese, etnicamente parlando, né una lingua scozzese antica. 

Forse l’origine etnica delle nazioni moderne non è molto importante. I popoli che si sentono minacciati, sia per ragioni immaginarie o reali, sono in ogni caso pronti ad ammazzarsi con pernicioso entusiasmo. Molti studiosi hanno considerato sia l’aspetto morale che politico di questi problemi. Esistevano ed esistono, comunque, l?olitici e generali che preferiscono una soluzione che chiamano purificazione etnica. E’ una politica che si basa sull’appello popolare. Per molti è comodo pensare che ogni loro sfortuna sia colpa degli stranieri. Questa soluzione passa dai dipartimenti accademici di storia, di sociologia, ecc., fino ad arrivare al dipartimento della divinazione o profezia che appare scientifica. Sembra che questa linea abbia una mezza correttezza politica, ma io vi proporrò una profezia che spero abbia un aspetto scientifico. 

Gli studi della maggioranza dei miei colleghi si basano sull’anali degli ultimi anni, quelli che seguono il 1989 e specialmente sugli sviluppi che si ebbero nella ex Unione Sovietica e nella ex Iugoslavia. Mi pare che questo campo d’osservazione sia troppo ristretto. Penso anche a quella teoria americana secondo la quale la rivoluzione del 1989 segna la fine della storia. E’ una teoria che tra qualche tempo sarà dimenticata. Allora, che fare? Non è possibile ritornare all’età dell’oro, umana, tollerante e pacifica. Non è mai esistita. Neanche credo ad una teologia romantica, ad un futuro d’oro, ad una legge della storia che ci porti, volenti o nolenti, tempi migliori, come credono i marxisti. Dunque, cosa resta? Resta la storia d’Europa da interpretare bene e un’analogia che certo non dimostra una necessità storica, ma una possibilità o, anche di più, una verosimiglianza. 

Cominciamo con un doppio interrogativo storico. Perché gli stati derivanti dall’Impero romano erano cosi grandi? Salvo che nel classicismo nostalgico di alcuni monarchi, ovvero nella fantasia romantica letteraria di molti storici moderni, questi stati non erano costituiti né dall’unità nazionale, né dall’unità 

etnica: Italia, Gallia, Hispania, ecc. E ci si deve chiedere di più: perché nei primi secoli dell’Alto Medioevo era ancora possibile costruire immensi imperi come quello di Carlo Magno o quello del danese Canuto, oppure anche quelli dei primi califfi arabi? Perché nel tardo Medioevo l’Europa si consolidava in stati molto più piccoli? E come si determinavano le dimensioni di questi stati? Pochi storici credono ancora che un autocosciente etnicismo o una specie di protonazionalismo possano spiegare questo secondo problema Perciò voglio adoperare un modello storico del sociologo americano K. W. Deutsch, utilizzato per altro motivo. 

Nell’Alto Medioevo l’Europa era un continente formato da piccole comunità contadine ed urbane. Ognuna di esse produceva la maggior parte, ma non tutto, di quello che necessitava per la vita di quel tempo. Quel poco di prodotto che di solito poteva eccedere non era richiesto dagli abitanti dei territori vicini che, per ragioni geografiche e climatiche, in generale, producevano le stesse cose. Ma questi prodotti erano apprezzati in luoghi più lontani. Dunque risultava che il commercio dell’Alto Medioevo, salvo quello dei piccoli mercanti puramente locali, era generalmente un commercio di prodotti di grande valore perché trasportati a grandi distanze. 

I commercianti dovevano essere mercanti di professione, liberi dal servizio forzato e, preferibilmente, dovevano parlare una lingua internazionale, vuol dire compresa in vaste zone, come il latino, il tedesco nelle regioni baltiche e l’arabo in gran parte del Mediterraneo. 

Per la maggior parte delle altre prestazioni professionali e tecniche, delle quali si aveva necessità nell’Alto Medioevo, le condizioni erano analoghe a quelle della produzione e del commercio: servizi ecclesiastici, quelli degli artigiani specializzati, degli amministratori, degli eruditi e quelli molto importanti dei guerrieri e dei soldati. Si pensi ad un maestro campanaro. Può fondere due, forse quattro campane per una nuova chiesa di un piccolo paese o di una città. Ma quando ha finito il lavoro non può restare nello stesso luogo. Forse deve viaggiare a grandi distanze per trovare un’altra opportunità ed esercitare il suo mestiere di artigiano specializzato, un mestiere necessario anche nel periodo più buio dell’alto Medioevo. Gli esempi si possono moltiplicare senza difficoltà: gli architetti delle cattedrali che diffondono lo stile romanico per tutto il continente; i dottori di una università che avevano il privilegio di insegnare in qualsiasi altra università e molte volte non avevano l’opportunità di una carriera accademica se non lontano dalla patria; gli ecclesiastici, come !’italiano Anselmo, che diventava arcivescovo di Canterbury, carica che richiedeva una straordinaria abilità politico-amministrativa, oltre che teologica. 

Insomma, esisteva una piccola élite internazionale, che parlava una lingua internazionale ed era esperta nei diversi settori, di cui si aveva bisogno. Necessariamente questa élite dirigeva, comandava, sfruttava la grande maggioranza della popolazione europea. Contrariamente ad essa, i contadini perseveravano con i loro costumi e le loro lingue. Ecco il motivo dell’internazionalità del Medioevo e nello stesso tempo i suoi limiti. 

Fino a questo punto ho seguito la tesi del Deutsch, tentando di elaborarla. Andando più oltre, voglio dire che questo modello di Alto Medioevo suggerisce almeno una valida spiegazione del perché gli stati creati dopo la caduta dell’Impero romano erano cosi grandi ed etnicamente tanto diversi: era possibile costruire quei grandi imperi, perché l’Europa era sottosviluppata. Le varie regioni avevano bisogno di servizi e di prodotti che si potevano produrre solamente in tutta l’Europa o almeno in una parte molto grande del continente. I principi di stati relativamente piccoli non potevano eguagliare l’abilità militare e amministrativa di cui potevano disporre i conquistatori degli imperi. Attraverso i secoli il papato aveva potuto costruire e dirigere un’organizzazione comprendente tutta l’Europa cattolica. Ma non voglio continuare con questo argomento e con la riforma del Cinquecento. 

Come risaputo, la condizione dell’Europa dell’Alto Medioevo, quantunque di lunga durata, non fu permanente. Molti storici pensano che qualcosa non funzionasse nella civilizzazione europea dell’Alto Medioevo, riferendosi al declino morale che spiega la crescente secolarità della società oppure alla crescente secolarità che spiega il declino morale. Altri storici, di temperamento meno romantico, hanno proposto un deus ex machina, come il sorgere della borghesia o del capitalismo o il declino del feudalesimo. Il vantaggio della mia tesi è che possiamo fare a meno delle spiegazioni di tipo morale di uno sviluppo storico di si grande complessità, ed egualmente possiamo fare a meno di spiegazioni che, di per sé, hanno bisogno di ulteriori spiegazioni. Credo che siano stati proprio l’azione, il lavoro dell’élite esperta a dare la possibilità alle diverse parti del continente di svilupparsi economicamente e culturalmente. Diventava dunque possibile per quelle parti d’Europa fruire di quei servizi e almeno di molti prodotti che prima erano solo presenti in alcune regioni del continente. In altre parole, l’Europa diventava più ricca e meno sottosviluppata. 

Fu un processo assai lento. L’internazionalismo non poteva sparire da un giorno all’altro. Si può vedere, per esempio, il lento cambiamento culturale nel diffondersi della letteratura vernacolare: l’Italiano, il Francese, l’Anglo-sassone, il Tedesco. Questo fenomeno ci dice che esisteva in quel tempo un pubblico laico più numeroso e con molto tempo libero per imparare a leggere, contro quei pochi di prima che per necessità avevano imparato a leggere il latino. Nello stile delle costruzioni troviamo, invece, più differenze regionali. Lo stile gotico era ancora uno stile internazionale; però vi troviamo molte differenziazioni regionali che non troviamo nello stile romanico. E così via. 

Lo stesso fenomeno si manifesta nell’organizzazione politica, a causa del diffondersi delle abilità militari e amministrative nelle regioni d’Europa. Era il momento in cui si cominciavano a porre le basi degli stati nel Tardo Medioevo e nei primi secoli dell’età moderna. Le dimensioni esatte di questi stati non si possono conoscere, ma nessuno stato era ancora tanto esteso quanto l’impero di Carlomagno. Le affinità etniche o tribali potevano influenzare questo sviluppo, come anche le tradizioni classiche, e in ciò ci viene da pensare alla Hispania, alla Gallia e alla Germania. Però non si devono sopravvalutare le tradizioni letterarie o l’influenza di quelli che facevano propaganda “nazionale”, anche se scrivevano in latino. Si può dire anche di più; la mia tesi non sottovaluta un fenomeno umano che di solito oggi è ignorato dagli storici del nazionalismo ed anche dai combattenti per la libertà. Mi riferisco al fenomeno ormai diffuso dei matrimoni etnici. 

Gli stati del Tardo Medioevo, una volta formati, acquistavano la stabilità di organizzazioni ben funzionanti. A poco a poco, a causa delle tradizioni di lealtà alloro principe, a causa delle tradizioni educative ed anche di quelle mitologiche risalenti alla loro origine (tradizioni mitologiche che facevano considerare gli antenati come eroi), le popolazioni dei nuovi stati acquistavano un senso di nazionalità. Fu un processo assai lento. I contadini con usi, pregiudizi, lingue o dialetti, sopravvivevano come avevano sempre fatto. Si pensi, per esempio, alla lingua siciliana che scompare solo oggi nelle città, principalmente a causa della radio, del cinema e della televisione. L’idea dell’unità naturale della cristianità si affievolì solo nel Settecento ed è stata soppiantata dal nazionalismo, considerato quasi una religione che diventava motivo politico popolare. Nel corso del suo sviluppo, il nazionalismo si è servito dei sentimenti più antichi; naturalmente del patriottismo, ma anche, certamente, di altri sentimenti più perniciosi come il razzismo e la xenofobia. 

Scopo di questa mia conferenza non è quello di dare giudizi morali, ma di analizzare uno sviluppo storico per vedere se esso ci può illuminare per il futuro. Credo che adesso, alla fine del Novecento e del secondo Millennio, siamo arrivati all’immagine speculare della debolezza dell’universalismo del Medioevo, vuol dire della debolezza dello stato sovrano, di quella unità politica, economica e culturale, che fino a non molto tempo fa era considerata come unità naturale e quasi platonica. Nel Tardo Medioevo gli immensi imperi erano sopravvissuti alla loro utilità e credibilità. 

Nel campo dell’economia, della politica militare, dell’amministrazione e alla fine nelle emozioni della gente, il lavoro dell’élite internazionale non era necessario né era la più efficiente forma di organizzazione della vita dei popoli europei. 

Oggi troviamo che il nazionalismo etnico-populistico, e la sua incarnazione nello stato nazionale sovrano, comincia a sopravvivere alla sua utilità e credibilità. Questo sviluppo si nota nell’Unione europea, fondata da una generazione che nella seconda guerra mondiale era giunta ad un nazionalismo esagerato. Per una nuova generazione e forse ancora più importante il sorgere di un mercato globale, finanziario e di produzione. 

Che resta della sovranità di uno stato individuale, quando il corso della sua moneta, la quantità delle tasse, insomma la sua politica economica dipende da banche e da altri organismi internazionali con direttori non eletti e sconosciuti? È la fine non tanto delle differenze e tradizioni culturali, almeno non necessariamente, quanto del nazionalismo politico. 

Ed ecco la mia analogia, un’analogia di immagine speculare. Senza dubbio, sarà un processo lento, come era la morte dell’idea dell’universalismo medievale. Non si può predire quanto tempo sopravviveranno gli stati nazionali, che cambiamenti potranno aversi o quali organismi subentreranno agli stati non ancora del tutto riconosciuti. Le nazioni non sono entità platoniche. 

Voglio terminare con una citazione di Goethe. Nel Faust Mefistofele dice allo studente principiante che aveva deciso di non studiare la giurisprudenza: 

Vernunft wird Unsinn, Wohltat Plage; 
Weh dir, dass du ein Enkel bist! 


La ragione diventa un nonsenso, il beneficio una piaga; 
Misero, che sei un nipote! 

Helmut G. Koenigsberger

(*) Questa relazione, curata da Vita Montalto, riprende ed elabora più compiutamente un breve articolo del prof. H. G. Koenigsberger apparso nel novembre del 1996 con lo stesso titolo su “European History Quarterly”.

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 5-11.