GIUSEPPE FERRANTE – l raccollli di Roccadisopra, collana di narrativa «Meridiana», Ila Palma, Palermo, 2006.

Una prosa schiettamente siciliana di sapore quasi pirandelliano 

Un libro frutto di riflessioni, di ricordi ma anche di invenzioni quello dell’avvocato catanese Giuseppe Ferrante. Si tratta di una raccolta di dieci racconti ricchi di toni e di sfumature. Storie di passione, sogni, paure, rimpianti che racchiudono una vita, un destino. 

Dinghilindò ed altri racconti sono un piacevole sequenza di immagini, figure e vicende costruite tra i risvolti di un mondo semiserio che non sembra vero, ma è forse la quint’essenza della realtà. Sono racconti talvolta surreali, descritti con un linguaggio vivo, semplice e diretto, in grado di dipingere con colori nitidi i personaggi e le loro emozioni. Una scrittura che porta lontano, che ha la capacità di affabulare e far pensare, di stupire, far ridere e commuovere. 

Ritroviamo quella ben nota scoperta della sensualità esistenziale, non priva di sottile ironia e di affettuosa adesione, la capacità di cogliere il messaggio della natura, i suoi colori, i profumi, gli afrori, le «piccole cose futili» che danno il vero piacere. 

Pino Ferrante è un abilissimo narratore di stati d’animo, testimone di un mondo in cui la transitorietà della vita e la corruttività della carne si contrappongono all’immanenza della memoria del tempo passato. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 54-55.




 FRANCESCA SIMONETTI, Il ponte necessario, prefazione di  Antonino De Rosalia,«Poesia/Oggi», Ila Palma, Palermo. 

L’essenzialità poetica di Francesca Simonetti 

In un tempo che scorre travolgente, minacciato da una forma di barbarie tecnologica e da un nuovo analfabetismo interiore, in cui l’esibizione teatrale sostituisce l’autenticità e la sterilità inaridisce ogni piccola sorgente e spegne ogni scintilla, quale può essere il posto della «più discreta delle arti, la poesia»? Direi che è quello di collocarsi tra la realtà e l’uomo, anzi è quello di stabilire un ponte attivo tra tempo ed eterno, finito e infinito: tra il reale quotidiano, in cui l’uomo necessariamente è immerso, e l’infinito cui l’uomo da sempre aspira. Un «ponte necessario» dunque. Ed è proprio questo il titolo del volume di poesie di Francesca Simonetti, che rispecchia il carattere profondo, la funzione testimoniale della parola poetica. Dell’idea che la poesia sia un valore culturale ed estetico tra i più nobili, la Simonetti è fermamente convinta: è il verso che ci tiene in vita, ed è convinzione che ha alimentato in lei, fin dall’adolescenza, una passione ispiratrice di un’attività poetica sempre più valida, sostenuta da ricorrenti appelli alla musa: il ponte necessario / è sorto insieme all’alba / e mi invita ad andare, /per ritrovare l’ombra / con mani di velluto. E se un giorno dovessi / varcarlo, sarà soltanto / per ritrovare te, musa ribelle,/ che sempre te ne parti, / se pure pellegrina penitente. 

Il suo universo poetico trova motivi di canto e di ricerca nell’osservazione del reale e nell’interpretazione di esso; come scrive Salvatore Orilia, la poesia della Simonetti è «quasi una finestra aperta sulla realtà», è strumento per dare senso alle cose, delimitandone i contorni. Una quotidianità immediata che la poetessa trasforma in elevata contemplazione, in penetrazione interiore, in un grande sentire universale. 

Una poesia dotta che risente degli influssi di una cultura umanistica di cui Francesca Simonetti si fa scudo contro il materialismo dei nostri giorni. C’è l’amarezza di aver dovuto patire delusioni, la disincantata visione del vivere come deriva / su zattere pietrificate, / e i compagni di viaggio / nulla ti danno per lenire il male. C’è la denuncia delle colpe dell’uomo, in particolar modo di quel suo vizio antichissimo che ha nome egoismo. C’è il bisogno di un mondo in cui regni l’amore. 

Una poesia personale dai toni sommessi eppure decisa, ricca di riflessioni, di pensieri e ciò contribuisce a renderla varia ma pure limpida. Versi ben fatti e fluidi che nascono dal di dentro e danno vita a immagini, pensieri, atmosfere poetiche che svelano i diversi battiti della vita ma anche l’intimo della poetessa e le sue convinzioni. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 59-60.




FRANCESCA SIMONETII, Da Quental all’inquieto Novecento, prefazione di Aurelio Pes, collana di ricerche «Le vie del saggio», Thule, Palermo 2005 .

La natura segreta e tormentata di un grande artista portoghese 

Francesca Simonetti, poetessa siciliana dalla tempra robusta, ha dimostrato, con il suo ultimo saggio letterario dal titolo Da Quental all’inquieto novecento, di possedere anche una buona vena critica che la porta ad indagare con sottigliezza sulla genesi inquieta del portoghese Antero De Quental, il poeta-filosofo che ha dedicato la sua vita quasi esclusivamente alla difesa degli ideali socialisti. 

Con questo lavoro, la Simonetti ha il merito di aver portato alla ribalta un poeta di grande calibro, quasi ignoto all’Italia del nostro tempo, che si inserisce a pieno titolo nella storia del pensiero europeo e universale del Novecento, legandosi idealmente a quei capostipiti europei quali Baudelaire ed Eliot. L’autrice ci conduce in un viaggio attraverso il secolo e attraverso la complessità dei suoi problemi storici ed esistenziali, ma soprattutto in un viaggio all’interno dell’uomo- poeta. Quental è uno tra i più significativi interpreti della condizione dell’uomo moderno, dotato di immensa umanità e altruismo, un «santo laico» per i suoi contemporanei che aspirava già alla fine del XIX sec. all’unità dell’Europa. 

Una modernità quella di Quental, sottile ma al tempo stesso inequivocabile, di cui Francesca Simonetti ci dà una valida chiave di lettura attraverso la tragicità della sua vita, delle sue scelte umane e sociali, dei suoi versi e dei suoi sonetti eleganti e fini, significativi e toccanti per lo scavo interiore non soltanto della sua psiche ma dell’ anima del mondo intero. La parola poetica di Quental è l’emblema della parola che combatte per farsi lingua universale dell’ anima contro le superstizioni, gli idoli ideologici che dividono la mente degli uomini dal loro cuore. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 50-51.




DANIELA MUSUMECI, Devota come un ramo, Ila Palma, Palermo 2006.

Diversi percorsi di lettura tra poesia e meditazione filosofica 

Tenendo tra le mani questo volumetto di Daniela Musumeci, già prima di leggerlo, si ha una sensazione di leggiadria: i disegni a china e i pastelli di Sabina De Pasquale, pensati per le poesie intercalate ai brevi saggi, donano aria e respiro aperto. La De Pasquale è un’artista poliedrica: attrice, musicista, ma soprattutto autrice di delicatissime incisioni. Il disegno di copertina che illustra il verso di Cristina Campo, «devota come ramo»; la donna che reca due uccelli nelle mani che pare la sollevino in volo trasformandola in angelo; Demetra che culla una figlia invisibile, forse l’umanità tutta; il passerotto scaldato da uno sguardo d’amore: sono figure sapienti, tracciate con poche, immediate e sicure linee di penna, figure mitiche e magiche come il mandai a che apre il libro. Essenziali e scarne. Spirituali. Invitano alla lettura. E vien fatto di leggere, una dietro l’altra, tutte le poesie, come una sorta di armonia distillata. Esse costituiscono un dialogo dell’ anima con se stessa, un percorso di purificazione e di semplificazione, dal desiderio al distacco. Riecheggiano gli haiku giapponesi, quando non sono vere e proprie preghiere. 

L’altro sentiero è quello della prosa, più arduo, perché esige un’attenzione concentrata. Si tratta di un viaggio attraverso i quattro elementi naturali, aria, acqua, terra e fuoco, rivisitati attraverso il mito classico e le filosofie occidentali e orientali; un viaggio animico, ispirato da una sorta di mistica materialistica e panteistica, maturata nella consuetudine con Spinoza, Goethe e il taoismo. Qui forse la scrittura è fin troppo densa; va centellinata pian piano perché in poche righe si moltiplicano le suggestioni. L’ordine del discorso non è quello induttivo- deduttivo della dimostrazione, ma quello analogico e allusivo del «pensiero del cuore» e del «nomadismo intellettuale », come lo hanno insegnato Maria Zambrano e Rosi Braidotti, ma soprattutto Simone Weil, prima e indiscussa maestra dell’ autrice. 

Si può poi aprire il libro a caso e leggere, a seconda dell’umore o dell’urgenza interiore, la pagina che capita, il capitolo, il brano, i versi che più risuonano dentro, righe e rime sparse. 

E c’è infine la sequenza che l’autrice ha voluto proporre e che alterna alle riflessioni e alle meditazioni, talvolta faticose, il dono morbido di aforismi e metafore; perché questo è in fondo la poesia, un gioco di specchi tra aforisma e metafora. Insomma, basti dire che quello che sembrava o diceva di essere un «libretto di devozione» si rivela un documento di impegno estremamente concreto. 

Daniela Musumeci insegna filosofia e storia in un liceo di Palermo, sempre segnata dalla contraddizione tra delizia poetica e lavoro sociale, che è poi la contraddizione fra le due materie che le tocca insegnare, il cielo dei pensieri e la terra dei bisogni quotidiani. 

Per lungo tempo ha collaborato con la rivista Mezzocielo, sperimentando una divulgazione delle filosofie, grandi e misconosciute, da Diotima ed Eloisa sino alle contemporanee. 

Questa è la sintesi delle sue ricerche per i laboratori interculturali ideati per la scuola. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 48-49.




CRISTINA GIORCELLI et alii, Abito e identità, vol. VII, Ila Palma, Palermo, 2007.

Ricerche di storia e letteratura tra costume e cultura 

La moda è un intreccio continuo dell’evolversi della storia delle idee e quella del pensiero economico. Protezione, pudore, ornamento, sono le tre motivazioni principali del vestirsi che si inseriscono in un sistema di immagine di sé e di coinvolgente emozione. Ci si chiede: che cosa trasmette la moda? Trasmette la funzione identità, seduzione, vitalità, eleganza, comunicazione. Con il predominio della cultura positivista si sviluppa un approccio sistematico al problema nel campo sociologico. 

A. Spencer interpreta il fenomeno della moda all’interno del complesso di norme che concernono i rapporti tra classi superiori e inferiori; il sociologo R. Barthes propone un parallelo tra 1’analisi della moda e la linguistica, riprendendo la differenza postulata da F. de Saussure tra langue e parole. Un campo di approccio, questo, affrontato in modo articolato dalla scrittrice Cristina Giorcelli, professore ordinario di Letteratura americana all’Università di Roma Tre, curatrice della serie di ricerche di storia letteraria e culturale Abito e identità. 

L’intera opera è cosparsa di originali osservazioni sui significati sociali del1’abbigliamento e del costume. Un lavoro di estremo interesse, uno studio sul rapporto tra abito e identità sociale, in un percorso orientato a considerare il vestimento come scrittura di storie. Si inizia da un’analisi storica del tema che evidenzia come la moda sia parte integrante non solo del nostro apparire ma anche dell’ essere. Vestirsi vuol dire parlare un linguaggio stratificato, un alfabeto di segni di cui il corpo si ricopre: abiti, accessori, tracce sulla pelle, maquillage, acconciature… Valori sociali, funzioni rituali, generi e non generi sessuali si ritrovano in questo gergo antichissimo. 

Eppure all’origine del vestire come pratica quotidiana, all’ origine del gesto più massificato si nasconde un comportamento archetipico che consiste nel tra-vestire, nel mascherare, nello scrivere il corpo e sul corpo. Per secoli 1’abito ha cercato di consolare coloro il cui apparire non dava testimonianza del loro essere o ha tentato di dissuadere chi progettava di sostituire, con 1’apparire, un diverso essere. 

I saggi del presente volume indagano il problema abito/identità attraverso interventi che si riferiscono alle culture statunitense, algerina e italiana in un’epoca che va dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri, in generi diversi, come il romanzo e il racconto, e fuori dalla letteratura, in ambiti specifici come i fumetti, la sociologia, la psicoanalisi e la filosofia. Un rapporto, o meglio una interconnessione tra abito e identità che sfiora le categorie del pensiero metafisico. Infatti, tematizzando la questione dei sentimenti e affrontando il complesso rapporto che si instaura tra una identità che muta e insieme non muta nel tempo, si fa dinamicità e staticità, cambiamento e ricordo, metamorfosi e riconoscibilità, sia testuale e tessile, sia individuale e sociale. Il cambiamento costante caratterizza il fenomeno della moda, ma a differenza del cambiamento insito nella modernità, esso nella moda è irrazionale, è il cambiamento per il puro cambiamento. Il multiforme e poliglotta universo semantico vestimentario, che si forma e si riforma senza sosta, nel momento in cui l’abito incontra il corpo, costruendo una struttura di senso e, perciò, oggetto del desiderio. 

Eb l’identità, comunque, il concetto che emerge costantemente. Lo ritroviamo già nel capitolo iniziale dedicato ad una definizione esaustiva del fenomeno moda. Di notevole interesse anche il paragrafo relativo al rapporto corpo-moda, che va letto ancora alla luce del concetto di identità, posto che noi cerchiamo la nostra identità nel corpo e gli abiti ne sono l’immediata prosecuzione. 

Questo VII volume raccoglie saggi di Nello Barile (docente di Sociologia alla «Sapienza»), Mariapia Bobbioni (docente di Psicanalisi alla «Domus Academy», Milano), Vittoria C. Caratozzolo (docente di Storia della moda alla «Sapienza »), Paola Colaiacomo (ordinario di Letteratura inglese alla «Sapienza»), Emory Elliot (ordinario di Inglese all’Università di Riverside California), Agnès Derail-Imbert (docente a’ «La Sorbonne», Paris IV), Michel Imbert (docente all’Università «Diderot», Paris VII), Dominique Marçais (prof. emerito dell’Università di Orléans), Guillermo Mariotto (direttore artistico della «Maison Gattinoni»), Bruno Monfort (ordinario di Letteratura americana all’Università di Lille II), Paula Rabinowitz (ordinario di Cultura americana all’Università di Minnesota), Viola Saches (già docente all’Università di Paris VIII), Cristina Scatamacchia (prof. associato di Storia americana all’Università di Perugia), Sina Vatampour (docente all’Università di Lille III). 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 53-54.




CHIARA TOZZI, Condividere, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a. Palma, Palermo 2005.

Otto racconti di storie diverse: un campionario di nevrosi comuni 

Racconti di vita e di sentimenti «quotidiani» nell’ultima raccolta di racconti della scrittrice toscana Chiara Tozzi, docente di psicologia a Roma. Il libro ha avuto un brillante esordio a Roma, nella prestigiosa sede dell’Enciclopedia Treccani, tenuto a battesimo da Barbara Palombelli, Filippo La Porta e Franco Tatò. 

Svariati aspetti dell’animo umano, un campionario di allegre e comuni nevrosi che non possiamo non sentire anche nostre, lasciate dall’autrice laconicamente sulla pagina in uno stile scarno ed essenziale. Otto racconti di storie diverse ma accomunate da una continua tensione d’ordine esistenziale e morale che confluisce nella possibilità di condividere, di affrontare insieme le emozioni che dividono e al tempo stesso uniscono. In questi racconti della Tozzi,si scorge un interesse particolare per personaggi sfasati rispetto alla normalità offuscata ma accettata da tutti. Incontriamo, infatti, i personaggi più vari, figure di una umanità defilata e senza pretese che emergono raccontandoci, nei fatti, una possibilità diversa di stare al mondo. L’autrice scrive di donne e di bambini, di amori un po’ proibiti, di piccoli fatti significativi: una ragazza che non ama i colori ripercorre la trama della sua vita in bianco e nero con l’uomo da cui poteva avere un figlio, un musicista che non ama la mondanità si reca a una cena affollata con la speranza di trovarvi la donna amata … Il finale dei racconti talvolta riscatta le cupezze e le conflittualità del nostro tempo e pare ristabilire una possibile lettura positiva dei segni del mondo. A volte ci si imbatte in momenti anche scomodi, in sgradevoli disvelamenti di debolezza, come il fragile legame fra due fratelli messo alla prova dalla spartizione di un’ eredità dopo la morte del padre, in lontane memorie di infanzia, quella di un bambino che ferisce con un paio di forbici la compagna di scuola. Storie, come quest’ultima, vogliono far luce sul mondo dell’ infanzia e dell’ adolescenza e aiutare chi non è più ragazzo a ricordarsi di quell’ età per comprenderla e rispettarla. Un modo più immediato e meno sterile per unire le due età. 

Dai racconti emerge un continuo scavare, che a tratti può sembrare eccessivo, un volere trovare a tutti i costi qualcosa da evidenziare, da segnare col dito, perfino nella più anonima delle esistenze. Ma è questo il bello dei racconti di Chiara Tozzi. L’autrice non va alla ricerca di drammi, di avvenimenti eclatanti. In ogni suo racconto c’è una lente di ingrandimento, un caleidoscopio di umanità. Non ci sono mai le frasi definitive, quelle frasi, cioè che sembrano voler racchiudere tutto il significato dell’esistenza. Nel suo mondo letterario c’è soltanto spazio per incursioni rapide ed efficaci, nella vita per quello che è adesso e qui, nei perché e nei modi di manifestarsi dello spirito vitale dei suoi personaggi, che pur nella loro differenziazione hanno un comune denominatore, quello di essere molto umani. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pag. 52.




CAMILLA SANTORO, Io parlo italiano, collana «Memorie / Testimonianze», I.l.a. Palma, Palermo, 2003.

Una esperienza didattica emozionante nella testimonianza di Camilla Santoro 

«Educare – scriveva Platone – vuole dire resuscitare esistenze morte ed aiutare a nascere esistenze, nasciture, indurre l’altro alt’ auto-educazione per entrare nella realtà piena di se stesso». L’ultimo racconto di Camilla Santoro rappresenta la metafora del genere umano che spazia, nella sua molteplice diversità, alla ricerca della luce, la luce di una cultura che accolga tutti all’insegna dell’appartenenza alla «famiglia umana » quale parte insostituibile del tutto. 

È quasi un romanzo denso di emozioni, che descrive un’esperienza didattica di laboratorio teatrale nel grigiore di un’aula del «profondo Sud», con lo scopo di proporre una riflessione sulle possibilità e modalità di partecipazione di insegnanti e studenti alla gestione della vita nella classe come comunità sociale. Protagonisti gli studenti di un ipotetico gruppo-classe, accomunati da un potenziale di umanità, che se da un lato ne scopre la fragilità, dall’ altro ne potenzia la forza nel valore «solidarietà» ritrovato grazie al credo e al potenziale volitivo della giovane insegnante Adriana, pronta a favorire l’autonomia personale, l’autostima, l’acquisizione del sé e l’appartenenza ad un gruppo con le sue regole e le relative responsabilità. 

L’esperienza di Adriana fornisce, nel suo semplice percorso, validi spunti di riflessione. Attraverso la rappresentazione teatrale della pirandelliana «Giara», che ha il potere di avvicinare i giovani al piacere della lettura e alla personale rielaborazione del sapere, propone ai suoi studenti di riappropriarsi dell’ orgoglio della identità nazionale, che viene evidenziato da ognuno, anche da Filippo, portatore di handicap, nel tentativo di usare correttamente la lingua italiana. Ne consegue l’abbattimento dei separatismi che hanno spesso afflitto i ragazzi dal Nord al Sud e, in un momento ormai plurietnico, il riappropriarsi della lingua comune rafforza la loro identità. 

L’esperienza di laboratorio teatrale e l’accuratezza nella scelta dei ruoli da interpretare rappresenta, per gli studenti, una delle rare occasioni per esprimere liberamente il proprio io, «un io che spesso non ha la capacità di rivendicare il suo semplice diritto all’ esistenza, ad uno spazio vitale che lo vedesse indiscusso attore della sua vita»; come nel caso di Filippo che, sia pure con una minima particina, riesce a sentirsi, finalmente, integrato nel gruppo-classe e a trovare espressione di sé nell’uso della varietà dei colori. L’aula diventa, così, una sorgente di identità, il luogo della civile convivenza e del reciproco arricchimento, in cui «l’io esisto» trova riscontro e nutrimento nel mondo relazionale del gruppo-classe. Uno spaccato della società che abbraccia un mondo variegato e multirazziale e che fa intravedere, grazie alla ritrovata umanità, la speranza nel domani. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 57-58.




BIAGIO SCRIMIZZI, ViZiai supra ‘na nuvula, Ila Palma, Palermo, 2007. Prefazione di Pino Giacopelli.

La capacità espressiva del dialetto e la poesia di Biagio Scrimizzi 

Biagio Scrimizzi, programmista-regista alla Rai, autore di testi radiofonici e televisivi, ma soprattutto poeta innamorato della parola e affascinato dal ritmo, ci conferma con questa silloge la capacità del dialetto di raccontare ed esprimere, in modo autentico e persuasivo, mondi geografici e interiori. Ci si chiede allora: ma di che cosa parlano queste poesie? L’uso del dialetto potrebbe, infatti, fare pensare a descrizioni ed evocazioni di luoghi, storie, sentimenti radicati nella Sicilia di Scrimizzi. Invece no. O meglio, sì ma in misura assai contenuta. I temi su cui sono prevalentemente incentrate queste poesie sono la natura, gli affetti e i ricordi, la personale visione del mondo del poeta. A una prima lettura ci si rende conto che il poeta va diritto al cuore dei sentimenti universali di ogni tempo; va oltre i confini del luogo natio senza prescinderne, senza abbandonare il viatico materno, primigenio, la salda piattaforma da cui scrutare e leggere il mondo, esprimendolo e infine comunicandolo. Un mondo ampio, perciò, e un dialetto che ci conduce nella lingua transazionale della poesia. Lo sguardo al cielo, all’orizzonte (i versi di questa silloge sono ali di vento, nuvole) potremmo anche dire, e i piedi ben piantati in terra: la stessa che lo ha originato e nutrito. 

Qua e là, poi, oltre a un susseguirsi di immagini e colori di suoni, scenari naturali colti nella loro dinamicità, nel poeta si fa largo quel filo allusivo a lui così congeniale, con cui riesce a stabilire un vincolo affettivo di comunicazione con gli altri. Ne sono spia testi come funci l’autunnu, Unni li to paroli, Aprili chi mori, La cannata tu sì, dove con una concentrazione straordinaria, la condizione umana ci viene offerta con una intensità poetica e figurativa raggelante e sublime al tempo stesso. 

La scrittura di Scrimizzi è sobria ed essenziale, vi s’intuisce un lungo lavoro di selezione e sottrazione; la sobrietà dei versi sembra rispecchiare quella del poeta, il suo forte senso etico, qua e là affiora, parimenti a una serietà di fondo che nasce, probabilmente, più da un sentimento tragico della vita che da un senso ilare o gioioso. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 61-62.




ANNA MAIDA ADRAGNA, Spremute di limone. I racconti di Vallebianca, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a Palma, Palermo – Sao Paulo.

«Si cunta e si raccunta» e il lettore diventa personaggio del racconto 

«Si cunta e si raccunta …» è il refrain di un nuovo libro della scrittrice palermitana Anna Maida Adragna, che ha già al suo attivo, come poetessa, ben dieci pubblicazioni. 

Spremute di limoni, questo il titolo della raccolta di racconti che presentano con sapiente ironia uno spaccato di vita vissuta a Vallebianca, borgata immaginaria di una città mediterranea, caratterizzata da una intensiva produzione di agrumeti, in un arco di tempo che risale fino ai primi del novecento. Sono trentacinque racconti straripanti di sicilianità. 

Basta aprire a caso una pagina di questo volume ed ecco diffondersi un gradevole profumo di limone, protagonista sempre implicito, spremuto con mani abili e affabili, che riproduce metaforicamente, essendo tra gli agrumi quello che produce contemporaneamente frutti e fiori in tutte le stagioni, un percorso all’indietro che si rinnova nello scorrere del tempo e della memoria. C’è il ritorno ai gesti semplici che fanno grande la vita, filosofia genuina alla base della felicità a cui ambisce ogni creatura umana. 

Basta pensare alla serenità di Saro e Giovanna, i due coniugi che in modo più o meno diretto sono i veri protagonisti dell’intera raccolta, presentati come i due autentici supervecchi contenti e felici anche della loro età avanzata, perché «vuoi dire che non siamo morti giovani». Le loro vicende si intrecciano, in un carosello di situazioni sempre efficacemente delineate in chiave satirica, a quelle di personaggi senza dubbio originali, come ad esempio lo stravagante Tano, debole di mente, guarito grazie alla misteriosa sparizione di un orologio. 

Il racconto per Anna Maida Adragna ha una forza liberatrice e purificatoria, e trova la sua più perfetta espressione in una prosa poetica leggera ed elegante, dove tutto non è quello che sembra e dove l’epilogo si trova solo alla fine del viaggio. È la «storiella» che si raccontava un tempo, seduti a tavola, provando meraviglia, ansia, sensazioni : «Le risate allora costavano poco e condivano riccamente lo scorrere del quotidiano.» Echi lontani di memoria, frammenti di un vissuto personale che generosamente l’ autrice ci regala, conducendoci nei salotti di un’altra epoca, dove odori e sapori si fondono in una perfetta sintesi, dove tenui colori di vita ne compongono un quadro dolcemente pieno di emozione. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 55.




ANNA BELLINA ALESSANDRO, Diario impertinente, collana di narrativa «Meridiana», Ila Palma, Palermo, 2007. 

 Questo Diario impertinente è la quarta prova letteraria di Anna Bellina Alessandro, già autrice delle sillogi liriche Anna e Anna (a due voci, con la Maida Adragna), Ho toccato la corda pazza dell‘amore, e di una raccolta di poesie in dialetto siciliano, Caminu di la vita. È un diario scritto in punta di penna, in uno stile lineare, semplice e al tempo stesso raffinato, intimo ma anche razionale, che incuriosisce, intriga, fa riflettere e apre al dialogo. 

Fin dalle prime pagine, colpisce lo sforzo di ricordare, di non voler dimenticare nulla: felicità, attese, gioventù,sorrisi, emozioni, morte e pianto; e ancora, come sostiene l’autrice, abbracci e qualche schiaffo che la vita le ha dato. Tutto custodito come in uno scrigno prezioso segretamente chiuso che ora l’autrice apre al lettore per condividere «i cari anni della sua infanzia; anni insostituibili, impareggiabili: sono i giganti immobili del suo pensiero, il rifugio, il relax, il pozzo incantato da cui attingere acqua limpida, mani fresche da poggiare sulla fronte che scotta». 

C’è, in questo Diario, l’autrice bambina, vagabonda del pensiero, che guarda il mondo con gli occhi curiosi e attenti, con la disinvoltura frutto di una felice ingenuità, con l’anima lieta e gioiosa delle cose semplici e belle, con il coraggio di affrontare situazioni di ogni tipo. C’è la donna che inizia a capire che la vita è tutta un senso, il senso di viverla in tutti i suoi passaggi, il senso dato dall’amore che lei definisce «il contagio sano di un sentimento, che ha un’immunità ben delineata». Quell’amore puro e semplice fatto di calorose e piacevoli lettere ora sostituite dagli sms sterili e freddi, privi d’attesa, orfani di personalità. C’è ancora la moglie che si scopre a volte impotente e sconvolta, la mamma che si sente indifesa da un mondo ora pieno di indifferenza, ma non smarrita perché comunque la «vita rimane così bella e con amore la voglio possedere follemente, pur sapendo che da ogni finestra non si può vedere tutto un panorama. Mi accontento di ciò che possono guardare i miei occhi sempre bruciati di amore per il bello». C’è anche la nonna preoccupata per i giovani che rifiutano sia la realtà che i sogni e ancora più tristemente la speranza. 

L’autrice ci porta ad acute riflessioni sui valori attuali; un mondo sfasciato, fatto di invidia e distruzione, indifferenza e ignoranza, che l’autrice definisce una cella la cui chiave si è perduta. Quale allora la chiave per aprirla? Bisogna, dice la Bellina, recuperare la coscienza, perché è proprio la carenza di questo dono che ci ha traditi, annullandoci. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 60-61.