Tempo pagano e tempo cristiano nella copia corleonese dei Fiori di Pindo di G. B. Marino
In una raccolta di poemetti mariniani che si intitola Fiori di Pindo (Venezia, G, B, Ciotti, 16161. la copia che si conserva presso la Biblioteca comunale di Corleone reca, su tre delle pagine bianche del piccolo ma denso volume, due sonetti scritti a mano, a firma di Nicolò Piranio, contraddistinti l’uno come “Proposta”, l’altro come “Risposta”, Si tratta di due sonetti sullo stesso argomento, che, come allora si usava, “si rispondono per le rime”, e ciò in omaggio ad una tradizione che durava da secoli nelle dispute o tenzoni fra poeti1.
Tuttavia, la singolarità di questi due componimenti è che essi, all’interno di una silloge mariniana, vengano presentati con due termini (proposta e risposta, appunto) che vorremmo definire mariniani2.
Infatti nell’avvertenza “Ai Lettori” premessa alle Poesie di diversi al cavalier Marino, pubblicate come appendice alla Parte III de La Lira (Venezia, Ciotti, 1614, pp. 310-371), il Marino indica con la parola proposta ciascuno dei componimenti di lode a lui indirizzati, e si giustifica di non far seguire “risposta alcuna” ad essi “perché son tanti che si disegna di fame un volume particolare e distinto”3.
È pur vero che i due sonetti manoscritti non sembrano avere, a prima vista, alcun riferimento né con il Marino né con i poemetti e gli idilli contenuti nella silloge, per cui si può dire che Nicolò Piranio, il quale in effetti era il proprietario del volumetto4, abbia voluto soltanto tramandar meglio ai posteri il sonetto di proposta e la relativa risposta inserendoli in un libro che giudicava di gran pregio e valore; ma non si può non osservare, dopo tutto, che i due sonetti hanno una singolare affinità con il tema del tempo, quale viene sentito e registrato in un buon numero di poesie dirette al Marino ed inserite. esse stesse, nella raccolta dei Fiori di Pindo.
Ma forse si potrebbe trovare molto di più nelle letture poetiche, edite o inedite, dell’Accademia dei Ricoverati di Padova e di quella degli Olimpici di Vicenza, in seno alle quali nel 1601 Francesco Contarini elaborò le sue 20 Amorose proposte alle quali dovevano seguire le Risposte (anche poetiche, si supponel) dei soci: da leggere e “difendere” … “per tre giorni pubblicamente sotto il Principato dell’illustrissimo et reverendissimo signor Abbate Agostin Gradenico / Et per tre altri nell’Accademia Olimpica di Vicenza sotto il Principato del molto illustre signor Girolamo Porto” (F. CONTARINI. Amorose Proposte, Venezia, G. B. Ciotti, 1601, c. 7r)
Se prescindiamo, infatti, dalle prose introduttive, i Fiori di Pindo si aprono proprio con due sonetti ed una canzone di poeti lodatori, che celebrano il poeta napoletano come il nuovo astro della Poesia che assicurerà l’immortalità ai più valorosi fra gli uomini del tempo, salvandone il ricordo contro la legge della morte e dell’oblio, alla quale il Tempo, nel suo inesorabile trascorrere, assoggetta tutti. Queste composizioni sono: il sonetto S’orni le carte d’amorosi affetti di Francesco Contarini, il sonetto Mentre, Marino, ogni castalio rivo dello “eccellentissimo sig. Nicolò Zarotti” e la canzone Mar che ‘n suo grembo accoglie del “M. R. P. Don Crisostomo Talenti, monaco di Vallombrosa”.
Più avanti invece troviamo il sonetto del genovese Pietro Petracci Con scalpello canoro un tempio ergesti ed infine, nella parte introduttiva al panegirico Il Tempio, ben 16 componimenti di amici ed ammiratori del Marino, così distinti: 2 sonetti di Ludovico d’Agliè dei conti di S. Martino (O che bella, o che rara, o che gentile e Spade, penne e pennelli o con qual arte), 2 di Ludovico Tesauro (In bel teatro e spatiosa scena e Mentre il gran Carlo con la mano ardita), e ancora 2 di Francesco Aurelio Braida – omonimo di quell’Ettore Braida che fu ferito in conseguenza dell’attentato del Murtola al Marino – i quali iniziano con i versi Veggio ben io, Marin, veggio che tinge e È de l’eternità tromba sonora: a cui seguono alcune composizioni in versi latini di Giovanni Botero, Antonio Borrini, Scipione di Grammont, Ludovico Porcelletti, ed infine altre in lingua francese dello stesso Scipione di Grammont, di Pierre Berthelot e di Onorato Laugier, signore di Porcières, anch’egli notabile piemontese, che viene lodato proprio nel Ritratto, insieme a Ludovico d’Agliè e a Giovanni Botero.
Ora, a proposito di questa discreta raccolta di poeti piemontesi inneggianti al Marino, pur non brillando i testi per particolari pregi poetici, chi si trova a leggerli tutti insieme non può fare a meno di notare qualcosa che li accomuna tutti e rende la loro poesia in certo senso esemplare. E ciò è che il culto della poesia è inteso soprattutto come lotta dell’uomo contro il Tempo e la Morte.
D’accordo. Il motivo della caducità della vita umana e degli umani destini non è nuovo. L’uomo è stato forse da sempre consapevole che “quanto piace al mondo è breve sogno”. Ma proprio questa consapevolezza aveva portato nel passato a staccarsi maggiormente dalla terra, o per lo meno ad attaccarsi a un al di là, a una fede. Nel Seicento, invece, pare che questa fede venga a mancare; e ciò a dispetto di ogni inquisizione. Mentre apparentemente si è nella più stretta ortodossia, è proprio la religiosità quella che manca; ed in questo brancolare cieco nel mondo delle fuggevoli parvenze umane, si afferma per reazione uno sconsolato carpe diem da cui nascono il sensualismo, il concettismo come a1Termazione delle capacità e dell’intelligenza dell’uomo, la moda-mania dei miti letterari e degli idilli, evasori da una realtà resa più squallida dalle guerre, dalle ingiustizie, dalle sopraffazioni, il mito infine della poesia come unico sbocco ed unica salvezza per un’esistenza che aveva perduto ogni senso e ogni certezza che non fosse quella dura, oppressiva dell’esistenza di tutti i giorni.
In questa chiave sono da leggere non solo i componimenti poetici dei cortigiani piemontesi che fanno, in certo senso, da presentazione a Il Ritratto, ma anche le composizioni proemiali precedentemente indicate del Talenti, dello Zarotti, di Francesco Contarini.
Né diverso è l’atteggiamento del Marino circa l’ufficio della Poesia. Chè se già nelle ottave introduttive allo Adone dice di volere “ordir testura ingiuriosa agli anni” (c. I, 4,2), nel panegirico Il Ritratto si dichiara addirittura convinto che, dei tre mezzi che l’uomo ha per lottare contro il tempo e per conseguire fama imperitura (spade, penne e pennelli., per dirla con il D’Agliè), le penne, cioè la gloria poetica è quella che dà maggiore affidamento. Per ciò, dopo tanta celebrazione del pittore e amico Ambrogio Figino cui è dedicato Il Ritratto, il Marino arriva a dirgli di mettersi da parte quando si tratta di passare a descrivere le virtù e i sentimenti di Carlo Emanuele di Savoia. Infatti – per il Marino – la pittura non può aspirare a rappresentare i moti intimi del cuore o la personalità complessiva dell’eroe, ma solo gli aspetti esteriori di comportamento, di decoro, di maestà.
Figin, l’aria gentil del regio aspetto
e l’eroica sembianza a te ben lice,
con tutto quel ch’è de la vita oggetto,
rappresentare altrui, fabro felice.
Ma formar la miglior parte gentile
apra questa non è da muto stile.
[ …………………………………]
Così la forma esterior del volto
a pieno effigiar ti si concede
Ma se ‘l valor, ch’è sotto il vel raccolto
e quel lume immortal ch’occhio non vede
ritrarre industre man tenta ed accenna,
qui convien che il pennel ceda a la penna5.
In effetti il Marino è convinto che, come la gloria militare, fondata sulle stragi e sul sangue. ha bisogno per vivere dell’arte rappresentativa del pittore, allo stesso modo la vera immortalità si consegue con la poesia che può trasformare in diamante inattaccabile ad ogni erosione il ferro delle armi e i colori della pittura:
Ma ritorniamo ai due sonetti manoscritti della copia corleonese. In essi il rovesciamento della prospettiva è vistosissimo ed innegabile, chè, se anche qui il tempo fa da protagonista. il punto di vista è interamente cristiano. Anzi si può dire che i due sonetti rappresentino i due diversi modi che ha il credente di rapportarsi con l’attesa del giudizio di Dio, secondo che prevalga in lui il terrore della sua giustizia o la fiducia nella sua misericordia.
Entrambi i sonetti sono giocati infatti sui significati molteplici delle parole “tempo” e “conto”, che costituiscono la rima obbligata ed “equivoca” dei 14 versi di ciascun componimento. Né il risultato è poeticamente disprezzabile, per quanto fondato sul rischioso impegno di far comparire le due parole chiave non solo alla fine di ciascun verso ma spesso anche nel contesto dello stesso.
Il virtuosismo di Guido Cavalcanti nel celebre sonetto degli spiritelli o le bravure dell’autore di Eo viso e da lo viso son diviso sono nulla dinanzi alle capacità metrico-stilistiche di questa
PROPOSTA
Richiede il tempo di mia vita il conto;
rispondo: il conto mio richiede tempo.
né di tanto si può perduto tempo
senza tempo e terror rendere conto.
Non vuole il tempo differire il conto
perché il mio conto ha disprezzato il tempo
e perché non contai quand’era tempo
in quan[to], tempo dimando a render conto.7
Qual conto conterrà mai tanto tempo,
qual tempo basterà per tanto conto
a me che senza conto ho perso il tempo?
Mi preme il tempo e più m’opprime il conto;
e moro senza dar conto del tempo
perché il tempo perduto è fuor del conto.8
Il motivo pagano e tipicamente seicentesco (o marinistico) del tempo distruttore, diventa qui mito cristiano del .giorno in cui dovremo reddere rationem a Dio, dargli conto del bene e del male compiuto in vita, del modo in cui avremo trascorso il tempo che Egli ci ha concesso: se “perdendolo” perché abbiamo preferito i piaceri del secolo, tenendo in dispregio l’idea del “conto” cui alla fine saremo chiamati, oppure se saremo vissuti in attesa “di quel “rendiconto”.
Il primo sonetto sviluppa tutto ciò nella prospettiva di un dio giustiziere e di un uomo naturalmente incline al peccato, il quale, anziché mirare a procurarsi la salvezza eterna, vuole assaporare le gioie della vita ed opera come se fosse .possibile “differire” senza alcun limite il giorno del giudizio. Il che, in definitiva, porta l’uomo a “perdere il proprio tempo”, a perdersi, anzi a trasformare la propria vita in morte/e moro senza dar conto del tempo), in una scelta che sta fuori del “conto” che Dio faceva di noi (perché il tempo perduto è fuor del conio).
Ma al timore, anzi al terrore della giustizia di Dio, ecco che si oppone, nella Risposta, la speranza cristiana e la certezza che, anche se peccatori, anche se ci saremo trastullati per tutta la vita rimandando sempre la nostra conversione, potremo essere salvati se il Signore rinuncerà a sorprenderei con una morte repentina. Infatti, essendo egli somma Misericordia, basterà un pentimento in extremis per fare breccia nella sua clemenza. Donde, nella Risposta, un sillogizzare che sa quasi di gesuitismo, di bivalente moralità, ma è anche sincera ammissione del fatto che solo il tempo, o l’attimo, trascorso e affrontato dall’uomo al cospetto di Dio è quello che ha un valore in sé assoluto.
RISPOSTA
Poco tempo volerei ho falto conto
per render conto del perduto tempo.
Basta dolersi un punto sol di tempo:
un cor pentito, ed è saldato il conto.
D’ogni altro tempo Iddio non tiene conto,
un punto sol che dona Dio di tempo.
Mi preme di poter aver di tempo
il punto in cui, dolente, io rendo il conto.
Questo punto val più che tutto il tempo
e di questo rifò così gran conto
che darei, per averlo, assai di tempo.
Signor, a render del mio tempo il conto,
se mi nieghi tal punto è perso il tempo;
ma se quello mi dai, già è reso il conto!
Vincenzo Monforte
(1) Per i caratteri interni ai due componimenti è abbastanza verosimile che essi siano opera di un solo autore, e cioè del Piranio. Il che è comprovato dal fatto che, per un terzo sonetto manoscritto inserito nel volumc e volto a satireggiare l’ordine dci Cappuccini, il Piranio ha cura di annotare: “Questo sonetto fu fatto in vituperio delli Cappuccini dal Sig. Salomone di Butera”, Va tuttavia segnalato, per la precisione, che nelle pagine manoscritte, la firma è apposta solo al termine del secondo sonetto.
(2) In verità, chi volesse andare alla ricerca delle ascendenze più o meno remote di quella terminologia nel costume poetico delle Accademie cinquecentesche e nelle “corrispondenze” fra poeti, qualcosa troverebbe certamente esaminando la produzione madrigalesca anteriore al Marino, nonché le antologie poetiche promosse dalle accademie letterarie. Per quanto è a nostra conoscenza, i termini “preposta” o “proposta” e “risposta” nel significato di cui si discute, sono abbondantemente usati nelle Rime dell’Accademie degli Accesi, stampate a Palermo da Giovan Matteo Mayda nel 1571 (vol. 1) e nel 1573 (vol. II).
(3) Come è noto il Marino, per il quale quella promessa aveva solo la funzione di una captatio benevolentiae, non attuò mai quel disegno. E al riguardo si veda anche quanto egli dichiara nella lettera inviata da Torino a Fortuniano Sanvitale nel 1614 (cfr. G. B. MAR]NO, Lettere a cura di M. GUGLIELMINETTI, Torino, Einaudi, 1966, p. 177).
(4) Il Piranio appone in diversi punti del volumetto l’attestazione del suo possesso annotando “ex libris Nicolai Piraneis”, ed in un luogo aggiunge anche una data certamente preziosa per eventuali future indagini: 1694.
(5) Il Ritratto, st. 87 e 89.
Così la dea del sempiterno alloro,
parca immortal de’ nomi e degli stili.
a le fatiche mie con fuso d’oro
di stame adamantin la vita fili
e dia per fama a questo umil lavoro
viver fra le pregiate opre gentili, come farò che fulminar tra l’armi
s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi6
(6) Adone. c. I, 8.
(7) In quanto sono uno che chiede sempre tempo, quando si tratta di rendere il conto. “In quan”, congiunzione poco leggibile nel testo, sta per “in quanto”, ed appare in forma tronca innanzi alla parola “tempo” per una storia di crasi fra le due sillabe inizianti con dentale. Del resto, anche nell’italiano moderno il fenomeno continua a sussistere in espressioni come “un gran discorrere”, con l’unica differenza che, nell’alternanza gran/grande la forma sincopata dell’aggettivo si è estesa a molti altri casi, fino a diventare quasi sempre compatibile con l’aggettivo maschile singolare.
(8) Per la verità nel testo autografo l’ultimo verso è così trascritto: “perché il tempo perduto è fuor del tempo”. Ma si tratta quasi certamente di un banale errore di ricopiatura, perché è impensabile che, dopo tanto strenuo lavoro metrico, l’alternarsi delle rime nelle due terzine finali, si concluda con i due versi a rima baciata.
Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 31-37.