Luigi Tenco.  A venticinque anni dalla morte

“Signore e signori buona sera, diamo inizio alla seconda serata con una nota di mestizia per il triste evento che ha colpito una valoroso rappresentante del mondo della canzone. Anche questa sera per presentare le canzoni è con me Renata Mauro. 

Allora, Renata, chi è il primo cantante di questa sera?”. Così, il ventotto gennaio di venticinque anni fa, il presentatore per antonomasia, Mike Bongiorno, posteggiava impudicamente nell’inconscio collettivo degli italiani la vita di Luigi Tenco, e il gesto disperato (o profetico?) che quella vita aveva concluso. 

La notte precedente, una pallottola calibro 7,65 br., uscita dalla canna di una Mauser PPK – la piccola, magnifica semiautomatica dei poliziotti tedeschi – aveva ruotato nel suo cranio purgandolo per sempre dai pensieri molesti. Questi i fatti: troppo noti per insistervi ancora. Sulla ridda di commenti a caldo e a freddo, sul corpo riportato dall’obitorio alla tragica camera per soddisfare i fotografi ansiosi di macabro sensazionalismo stendiamo un velo pietoso. C’è comunque da stupirsi che i numerosi poliziotti lì convenuti fossero così impegnati a esaudire le richieste dei giornalisti e discografici da non osservare che “il foro d’entrata era posto non ‘nella tempia’ ma dietro il mastoide destro, leggermente sopra il padiglione auricolare, e quello d’uscita nella regione frontale sinistra; una posizione anomala per un suicida, come asserisce più di un criminologo.” (Aldo Fegatelli, Luigi Tenco, Lato Side Editori, Roma 1982). 

A onta del cinismo mostrato nell’occasione e poi ampiamente ribadito dagli addetti ai lavori, le canzoni di Tenco restano una scoperta rigorosamente privata, un momento di crescita, a volte un’autentica rivelazione, per ogni generazione che si affaccia nel mondo della musica. 

Nonostante la fretta con cui le sinistre si impossessarono del cadavere per farlo applaudire al suono di Bella, ciao eppure è ben noto come avesse usato le sue mani (da musicista, ma non proprio diafane), con la feroce dignità che possono esibire solo i timidi che hanno troppa paura di avere paura, per difendere un giornalista di destra sopraffatto dal coraggio del numero -, per la gente semplice – gli infiniti samaritani che non hanno il tempo per lacerarsi il frac sulla “Gazzetta di Gerico” e “Il corriere di Gerusalemme”, magari perché impegnati a lenire le ferite inferte da chi ha preso troppo sul serio certe indignazioni – Tenco è rimasto come la figura dolente di un figliuol prodigo che ha speso a piene marti i numerosi talenti affidatigli: e che poi ha scelto di tornare al Padre, prima che i porci che aveva sfamato lo divorassero. 

Una tale considerazione agiografica pare quasi inspiegabile se rivolta a un pur bravo cantautore che ha prodotto solo alcune notevolissime canzoni d’amore e alcune (in genere mediocri) canzoni impegnate. Pure in questa visione frementemente affettuosa si inserisce la toccante canzone, Preghiera in gennaio, di Fabrizio De André; il quale sembra addirittura volgarizzare poeticamente (” … non c’è l’inferno / nel mondo del buon Dio”) le tesi esposte con rigore teologico da Hans Urs von Balthasar. 

Un fatto è comunque certo: Tenco resta austeramente fuori dal novero dei musici caduti lungo la strada del successo. I pur mitici, angosciati e angoscianti Jimy Hendrix e Janis Joplin paiono soprattutto vittime dei loro vizi e del distruttivo american way of life. Il tragico gesto che ha spento la vita del nostro cantautore sembra invece motivato dall’incommensurabile disperazione di bambino bocciato agli esami; ed è per questo che continua a suscitare compassione (nel senso etimologico del termine). Nel contempo non si riesce a non accomunare quella dolente figura con quelle ben più grandi di autentici poeti come André Chénier e Robert Brasillach, figure di giovani che si sono trovati tragicamente in contrasto con le idee correnti dei loro anni. 

Proprio perché il paragone con i due poeti francesi appare azzardato, è invalso anche l’uso di stabilire un parallelo, anche per le comuni origini piemontesi, tra il cantautore di Cassine (Alessandria) e Cesare Pavese. A noi pare più calzante invece confrontarlo con un altro grande scrittore piemontese: Beppe Fenoglio. Le affinità sono quasi sconvolgenti: i famigliari di Luigi Tenco commerciavano vini all’ingrosso, e presso una ditta di virti aveva trovato stabile impiego il “solitario di Alba”. Identico è il fallimento negli studi universitari dopo una brillantissima carriera liceale. E per frequentare l’università Fenoglio era sceso a Genova. la città che adottò bambino Tenco. “La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti….. si lamentava l’autore del Partigiano Johnny, e allo stesso lavoro di lima Tenco sottoponeva le sue canzoni; Ciao amore ciao, cantata quel tragico ventisette gennaio, ha avuto certamente tre versioni prima dell’ultimo rifacimento. Il tema di questa canzone, che narra l’abbandono dei campi per la tentacolare città, ha un’affinità straordinaria con l’unico soggetto cinematografico (mai realizzato e pubblicato postumo) di Beppe Fenoglio. Anche Tenco teneva nel cassetto una sceneggiatura e alcuni racconti. Ma, oltre a queste somiglianze esteriori, quello che accomuna veramente i due piemontesi ci sembra l’identico sentire morale, la stessa etica austera – da pastore valdese -,la stessa tensione partecipativa, quel desiderio pungente di essere presenti alle vicende storiche della loro patria; e poi quel sarcasmo amaro (che denuncia un autentico disagio fisico) contro il perbenismo, la boriosa atteggiata mezzasapienza. 

Anche alla luce di quanto appena detto, Luigi Tenco rimane ancora, con le sue contraddizioni e le sue utopie, un dramma irrisolto nel profondo delle nostre coscienze, una continua domanda a cui non è possibile (e neppure sarebbe onesto) opporre delle risposte prefabbricate. Una sola speranza: che sia il silenzio a cullarne la memoria, perché, come lui cantava, ” … nel mondo c’è già tanta gente / che parla, parla, parla sempre / che pretende di farsi sentire / e non ha niente da dire.” 

Gaetano Radice 

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 73-75.




Lovecraft 

 Le cronache di cent’anni fa non ci informano se, la notte del 20 agosto 1890, gli astronomi avessero notato qualche spaventoso fenomeno celeste. Comunque, le streghe superstiti dai roghi dei secoli precedenti dovevano essersi riunite in un frenetico sabba attorno alla casa n. 454 di Angel Street, a Providence, nello Stato di Rhode Island. Qui, infatti, stava per venire alla luce Howard Phillips Lovecraft, certamente il più grande evocatore di spettri e misteriose angosce. 

Una fotografia di un paio di anni dopo ce lo mostra nelle vesti, secondo le usanze del tempo, di una graziosa bambina. Nulla lascerebbe presagire che quel bimbo dai folti boccoli biondi1 sarebbe diventato un brutto adulto che, a causa della mascella fortemente prognata, sembrava la reincarnazione dei Borboni di Spagna così bene immortalati da Velazquez2, e il genitore incontrastato della moderna letteratura del terrore. 

Ma la sua vicenda umana e artistica merita certamente qualche cosa in più dei soliti brevi cenni che si riservano agli scrittori di “genere”. Lovecraft è altrimenti noto come “il solitario di Providence”; pure nella sua breve vita3 riuscì a produrre una sterminata corrispondenza. Con le sue centomila lettere. inviate un po’ in tutti gli Stati Uniti. lo si può considerare, fino a prova contraria. il più grande epistolografo di tutti i tempi: l’epistolario di Voltaire ammonta a soltanto ventimila lettere4. 

A proposito della sua autentica passione per i contatta epistolari, vale la pena di citare il commosso ricordo di un suo caro amico, Samuel Loveman: “Un semplice biglietto /… / poteva evocare / da parte di Lovecraftl risposte di quaranta o cinquantanta pagine fitte. Erano lettere davvero stupende: si facevano leggere di un fiato, rivelavano un’erudizione prodigiosa e una grande umanità”5. 

Proprio la sua grande erudizione e una totale incapacità di dedicarsi ad attività produttive hanno imposto l’immagine di un Lovecraft simile ai personaggi creati dalla sua fervida e stralunata fantasia6. Eppure egli sapeva anche godere delle piccole gioie che le sue misere finanze gli permettevano7. Se la golosità si può considerare una bizzarria, tra le tante di Lovecraft va annoverata anche la passione – che l’accomuna a Leopardi, un altro grande infelice della letteratura – per i gelati. Se la spietata e ciclica ristrutturazione urbanistica statunitense ha lasciato ancora in piedi la gelateria di Julia Maxwell, a Warren, su un muro della stessa gelateria ci deve essere ancora appeso l’attestato che afferma che Lovecraft aveva assaggiato in un tranquillo pomeriggio tutti i ventisei gusti disponibili8. 

Le concessioni politiche di Lovecraft erano per lo meno originali. Provava un’assoluta fedeltà per la vecchia Gran Bretagna, e biasimava con estrema energia la Rivoluzione Americana: “Quando James Ferdinand I Morton, nipote dell’autore di My Country ‘tis of Thee / ed io sostammo davanti alla tomba del soldato rivoluzionario che cadde per primo in quella memorabile e deplorevole circostanza / la battaglia di Lexington/, mi tolsi il cappello e chinai la testa. ‘Possano perire così tutti i nemici di Sua Maestà Re Giorgio Terzo’, gridai”9. 

A queste pulsioni nettamente reazionarie Lovecraft univa un non ben comprensibile interesse, del tutto accademico, per il New Deal. Per un periodo di sei o sette anni trattò questo argomento per lettera con Ernest A. Edkins, che così ci illumina: «Le congetture di Lovecraft prevedevano adeguati compensi per gentiluomini e studiosi indigenti, generose elargizioni alla classe contadina più povera, consistenti aiuti economici per coloro che desiderassero dedicarsi alle arti e alle scienze, un severo esame che verificasse chi potesse usufruire o meno del diritto di voto, e, infine, la graduale sostituzione dell’attuale “aristocrazia della ricchezza” con un'”aristocrazia dell’intelligenza”»10. 

È evidente che Lovecraft dava una grande importanza alla valorizzazione del ruolo degli intellettuali, e considerava positivamente un governo essenzialmente paternalistico, costituito da leader che appartenevano a un ceto destinato per nascita a comandare, da lui ritenuto “un’autentica dittatura dell’intelligenza anzicché del proletariato”11. 

Lovecraft, come chiaramente spiegano Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, “era un ‘materialista meccanicista’, refrattario ad ogni forma manifesta d’inclinazione verso la spiritualità, l’animismo, il sentimento religioso, e spiegava questo atteggiamento dicendo che, poiché il mondo è puro caos privo d’ordine, non è possibile postulare entità trascendenti ordinatrici dell’essere”12. 

Il Nostro – che aveva mille e una ragione per non amare il mondo in cui era costretto a vivere – sembra confermare un’affermazione di Mircea Eliade: «si indovina nella letteratura, ancor più che nelle altre arti, una rivolta contro il tempo storico, il desiderio di accedere ad altri ritmi temporali diversi da quello in cui si è costretti a vivere e lavorare»13. I mostri evocati da Lovecraft nelle sue opere sembrano quindi avere il compito di riordinare la realtà, o, meglio, di giustificare l’altrimenti inspiegabile disordine. Per de Turris e Fusco. “L’elemento costante della sua narrativa è la ricerca di punti fermi nell’instabilità del caos universale”14. 

Ha perciò ragione Giorgio Galli quando afferma che «Lovecraft ha capito che la storia della terra come frammento del cosmo è vecchia di decine di milioni di anni, che l’umanità è solo una delle forme di vita intellettiva che vi si sono sviluppate. Ma la sua percezione esistenziale di questo passato è pervasa di orrore»15. Ma non si può più seguire il brillante politologo milanese quando sentenzia: «La paura del diverso lo domina, così come lo domina la paura del diverso specifico che è la donna (il suo matrimonio fu ovviamente un fallimento: così egli stesso lo definisce)»16. Ma era essenzialmente la paura di se stesso che perseguitava il solitario di Providence. Lovecraft si percepiva infatti proprio come un diverso. Un’isola arcaica spuntata per caso nel gran mare della modernità, o, per rubare un’espressione a de Turris e Fusco, «un nucleo di materia ostinata che non si dissolve nell’acqua corrosiva del caos»17. 

Il fallimento del suo matrimonio fu dovuto soprattutto a insanabili problemi economici, come ci dice, con ‘fastidiosa’ abbondanza di particolari e ansia autogiustificativa, la sua stessa moglie18. Possiamo anzi pensare che la separazione non sia stata causata dal “terrore della donna relegata ad un ruolo subalterno e demoniaco”19, ma piuttosto dall’esatto contrario: Lovecraft non riusciva a concepire la mascolinizzazione della donna20. Non poteva farsi mantenere da sua moglie21. Aveva, insomma, una concessione del tutto romantica (piccolo borghese, se vogliamo) della femminilità e della famiglia. Chissà quali mostri avrebbe partorito la sua fantasia, se gli fosse stato concesso di vivere in questa nostra epoca post-femminista? 

Gaetano Radice 

1. Lovecraft «portò i capelli come una femminuccia fino a circa sei anni. Quando finalmente non volle più saperne e s’impuntò perché glieli tagliassero, sua madre lo portò da un barbiere, piangendo amaramente perché le forbici ‘crudeli’ l’avevano privata I sic I degli adorati boccoli». Sonia H. Davis, moglie divorziata di H.P.L., The Private Life of H.P. Lovecraft, manoscritto custodito alla John Hay Library della Bruwn University, Providence; ora, in traduzione italiana di Claudio De Nardi, in AA. VV., Vita Privata di H.P. LovecraJt, Trieste, Reverdito Ed.1987. 
2. «Howard attribuiva la sua attuale fisionomia I… I a due incidenti: il primo si riferiva ad una caduta con la bicicletta, allorché aveva quindici o sedici anni l . .. I, il secondo era dovuto al fatto che aveva trascorso moltissime notti a scrutare il cielo e le stelle con il suo telescopio». Ibid. 
3. Morì il 15 marzo 1937, a quarantasei anni, forse per un tumore intestinale. 
4. Fino a oggi l’Arkham House ha pubblicato cinque volumi di Selected Letters, e il professor S. T. Joshi ha curato un libretto di Uncollected Letters. 
5. Samuel Loveman, H.P. Lovecraft, ora in trad. it., op. cit. 
6. «Era / … / privo di ogni interesse nei confronti di cose come la solidità economica, il lavoro, la posizione sociale, quindi in netto contrasto con lo spirito puritano della Nuova Inghilterra». Gianfranco de Turria e Sebastiano Fusco, A posteriori, -Linus», luglio 1981. Cfr. anche di Fusco e de Turris il fondamentale Lovecraft, Firenze, la Nuova Italia, 1979. 
7. «Le sue entrate erano ridotte praticamente a zero ed era costretto a vivere con venti centesimi al giorno /si parla dei tardi anni venti/: anzicché impiegarli per mangiare, di solito li spendeva in francobolli». W. Paul Cook, H.P. Lovecraft: An Appreciation, trad. it. op. cit.; Cfr. anche la nota 20.
8. Donald Wandrei, Lovecraft in Providence, trad. it., op. cit. 
9. Samuel Loveman, op. cit. 
10. Ernest A. Edkins, Idiosyncrasies of H.P.L., Trad. it., op. cit. 
11. W. Paul Cook, op. cit. 
12. Gianfranco de Turris / Sebastiano Fusco, op. cit. 
13. Mircea Eliade, Mito e Realtà, Milano, Rusconi, 1978. 
14. Op. cit. 
15. Giorgio Galli, Le Coincidenze, Linus, aprile 1981. 
16. Ibid. 
17. Op. cit. 
18. Sonia H. Davis., op. cit. 
19. Giorgio Galli, op. cit. 
20. Circa i difficili rapporti di H.P.L. con la madre Susan, cfr. M. W. Vita Privata di H.P. Lovecraft, op. cit. passim; e G. de Turris c S. Fusco, Lovecraft. op. cit. 
21. «Non solo gli inviavo settimanalmente degli assegni, ma ogni volta che tornavo in città gli davo abbastanza denaro perché non dovesse rinunciare né ai pasti, né ad alcunché gli potesse servire» (Sonia H. Davis, op. cit.).

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 30-33




 L’uomo allo specchio

Marcello Veneziani, Processo all’Occidente, Sugarco Ed., Milano, 1990, pagg. 284 

Hegel scrisse, nella poco decifrabile Fenomenologia dello Spirito, che la Storia si era definitivamente arrestata nel 1806 a Jena. La vittoria delle armi napoleoniche sulle truppe prussiane, secondo il grande pensatore tedesco, aveva dato un irreversibile assetto al mondo. Pure nove anni dopo la battaglia di Waterloo rimetteva in movimento la Storia, smentendo l’affrettata profezia. 

Ora, quasi duecento anni dopo, un articolo pubblicato sul «National Interest» ha rimesso in auge l’idea che la Storia possa subire (anzi, che abbia già subito) un brusco, e questa volta definitivo, stop. Autore dell’articolo è Francis Fukuyama, già prestigioso ricercatore alla Rand Corporation, e adesso cervello pensante dell’amministrazione Bush. 

Naturalmente, il dottor Fukuyama non sostiene che tutti i conflitti sono scomparsi dalla faccia della terra: semplicemente osserva che con la caduta dei regimi dell’Est è sparita l’ultima antitesi ideologica «nell’ambito delle idee e delle coscienze» al liberalismo occidentale. 

A questa previsione si oppone il denso saggio di Marcello Veneziani che denuncia l’intima angoscia che gli suscita la prospettiva di assistere alla planetarizzazione dell’american way of life. E il verdetto a cui perviene il suo Processo all’Occidente è duro (e persino scontato): «…la società occidentale è caratterizzata da un gigantesco processo di alienazione. Alienazione come perdita della propria identità, alienazione come estraniazione dell’ambiente in cui vive e come degradazione dell!ecosistema in cui è inserito, alienazione come disintegrazione comunitaria e come spaesamento nel senso heideggeriano dell’espressione, alienazione come sfruttamento e dunque espropriazione del proprio lavoro, alienazione come mercificazione dell’uomo e in definitiva come riduzione dell’uomo da fine a mezzo». 

Per Veneziani «L’Occidente finisce di essere una terra, per divenire un tempo (la sottolineatura è dell’Autore, N.d.r.) senza confini spaziali, smisurato, consacrato solo al tempo e alle sue categorie: il processo, l’usura, l’obsolescenza, il potere temporale». Con Mircea Eliade, il giovane autore osserva che «l’uomo secolarizzato, si crede o si vuole ateo, areligioso, o almeno indifferente. Ma si sbaglia. Non è ancora riuscito ad abolire l’homo religiosus che è in lui: egli ha soppresso (se mai lo è stato) il christianus. / … / egli è rimasto ‘pagano’ senza saperlo». La perdita della comprensione dei valori religiosi «ha portato», come dice il compianto professor Del Noce nella prefazione, «alla conseguenza estrema il processo di alienazione. La scomparsa della religione con la reificazione dell’uomo. / … / l’eclissi della religione non ha prodotto la fine dell’alienazione, ma la sua estensione». La cacciata di Dio dal mondo ha dunque prodotto l’irruzione d’infiniti dèi gelosi. Secondo Veneziani: «Noi tributiamo sacrifici quotidiani di sangue ai nuovi dèi del Progresso, della Velocità, della Tecnica, del Godimento, della Vacanza, della Droga, degli Affari» (Le maiscuole sono dell’Autore, N.d.r.). Quindi, «l’Occidente», sostiene Veneziani, «vive nella dimensione ludica e angosciante di massa quel che Nietzsche visse nella dimensione tragica ed ebbra di una solitudine inelusa». 

La penna del giovane intellettuale pugliese non si limita a tratteggiare le cupe prospettive di un futuro/presente, ma delinea anche in un intenso capitolo lo strano fascino la sconfitta e i vinti esercitano, da Omero a Canetti, su alcuni tipi umani. L’ «insana» passione per la parte perdente non è solo l’inseguimento della «Giustizia, questa-, come scrisse Simone Weil, «eterna fuggitiva dal campo dei vincitori». È anche un modo per imprimere un moto ascendente alla realtà: «si fa la storia contraddicendola (la sottolineatura è ancora dell’Autore, N.d.r.) rimettendo in gioco ciò che pare acquisito, restituendo relatività e provvisorietà a ciò che pare definitivamente raggiunto e stabilito». 

Proprio in questo importante e intenso capitolo si contano alcune banali sviste: come attribuire a Epaminonda il sacrificio e la gloria delle Termopili, o armare il mitico Longino di una spada anziché di una lancia. Già che siamo in tema di errori: non si comprende perché Juan Donoso Cortés venga privato del legittimo accento acuto. L’errore risulta ancor più assurdo perché quando si tratta di Hernàn Cortés – il conquistatore dell’impero azteco, per intenderci – si ristabilisce l’esatta grafia. 

Ma, refusi a parte, quello che risulta meno convincente di tutto il documentato volume si palesa proprio quando Veneziani si decide a offrire delle alternative all’americanizzazione forzata. Le soluzioni (socialismo tri o multicolore, movimenti ambientalisti, reviviscenza dei localismi, ecc.) paiono proposte più per non sbarrare la porta alla speranza che per un’autentica convinzione. E, a confermarci che lo stesso Veneziani è ben consapevole di questo, possono bastarci alcune sue parole: «il risveglio delle etnie e delle appartenenze culturali-religiose non avviene con uno spontaneo rifiorire di sentimenti, pulsioni e valori originari, ma si presenta mediato culturalmente e in molti casi anche ideologicamente: così come, del resto, l’ecologismo non è tanto un’esplosione genuina, elementare, del bisogno di vivere secondo natura, ma esso stesso è il frutto di mediazioni e di sollecitazioni per analogia e per reazione, di tipo culturale, intellettuale e ideologico che nascono in seno della modernità». 

Concordiamo pienamente con Venezioni nel ritenere il «socialismo individualistico / .. ./ una contraddizione di termini», ma l’idea di «un socialismo spiritualistico e religioso» ci fa tornare alla mente le manie, non del tutto innocenti, dei sansimoniani Enfantin e Bazard. 

La parte che ci pare più coerente e costruttiva è quindi l’ultimo capitolo, interamente dedicato all’analisi dell’indubbio risveglio religioso degli ultimi anni. Veneziani pensa, anzi, che «ci sono fenomeni di persistenza (la sottolineatura è dell’Autore, N.d.r.) religiosa che non sono definibili sotto l’etichetta del risveglio perché in realtà non si sono mai assopiti». Si può quindi sperare di tornare da «una civiltà [che] si misura dalla capacità di attuare il dolore, agevolare il tempo, consentire l’autosufficiente solitudine e ritardare la morte [a] una civiltà alla luce del sacro [che] si misura dalla capacità di addomesticare la morte, il tempo, la solitudine e il dolore». 

Gaetano Radice

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 49-51.




 Il contro-dramma di Etty Hillesum 

Etty Hillesum, LETTERE 1942 – 1943 (trad. di C. Passanti), Milano, Adelphi, 1990. 

“Erano gli anni in cui in tutta l’Europa si rappresentava il dramma dello sterminio. Etty Hillesum era ebrea, e scrisse un contro-dramma.” Così scriveva felicemente nell’introduzione al Diario 1941 – 1943 di Etty Hillesum il professor Gaarlandt. E, adesso, con le Lettere 1942- 1943, un fondamentale nuovo atto è venuto ad aggiungersi al “contro-dramma”. 

Esther (Etty) Hillesum, nata a Middelburg il 15 gennaio del 1914, respirò fin dall’infanzia aria di alta cultura: suo padre era preside del Ginnasio Municipale di Deventer – ridente cittadina dell’Olanda orientale – e studioso di grande merito di lingue classiche. Il fratello maggiore di Etty, Mischa – bambino prodigio, che a sei anni suonava Beethoven in pubblico -, venne presto considerato come uno dei più promettenti pianisti d’Europa. Il più giovane dei fratelli Hillesum, Jaap, a diciasette anni aveva scoperto un nuovo tipo di vitamina, fatto questo che gli aprì l’accesso a tutti i laboratori di ricerca. 

Di tutta la famiglia, Etty appare la più eclettica, con interessi vari e addirittura tra loro discordanti. Brillante studentessa al liceo, con una forte propensione per gli studi letterari e filosofici, consegue regolarmente un’inutile laurea in giurisprudenza. Quando le truppe germaniche invadono l’Olanda, è alle prese con una seconda laurea in letterature e lingue slave. Ma non ha tralasciato, per questo, personali studi di psicologia, stimolata anche dalla relazione con lo “psicochirologo” Julius Spier1, e neppure nasconde l’aspirazione di potersi affermare come scrittrice. 

Davanti alle persecuzioni naziste che di giorno in giorno si fanno più feroci, per Etty si prospettano due alternative: o emigrare o nascondersi. Ambedue le soluzioni le sarebbero state possibili grazie ad amici influenti e fedeli. Ma lei sceglie ben altrimenti: come un Christus patiens, si consegna ai persecutori: e, allo scopo di essere d’aiuto ai suoi confratelli, si fa assegnare al campo di raccolta diWesterbork. 

E da questo campo, dove genti delle più varie estradizioni attendono il convoglio che le condurrà al loro tragico destino, escono le lettere che possiamo oggi leggere nella precisa traduzione di Chiara Passanti. 

Ed è proprio dalle parole scribacchiate in fretta nei luoghi e nei momenti più impensati e scomodi che emerge una figura di acuta pensatrice, con una forte e irrisolta propensione religiosa. Etty accetta di contemplare niccianamente l’abisso ma non di farsene inghiottire. O meglio, dal profondo dell’abisso in cui si è sprofondata riesce a contemplare vette immacolate di virtù ascetica. Riesce ancora a vedere “il sole brillare nelle pozzanghere melmose”: e arrecare sollievo agli altri con fantasiose storie attestanti una prossima liberazione. Rimane sino alla fine un “roseau pensant” capace di trovare nell’angoscia della partenza senza ritorno parole di conforto per i rimasti. Frasi piene di forza e addirittura banali, urbani ringraziamenti sono contenuti nel suo ultimo biglietto, gettato giù dal convoglio in partenza e fortunosamente pervenuto ai destinatari: “. . . apro la Bibbia e trovo questo: “Il Signore è il mio alto ricetto” /…/ Abbiamo lasciato il campo cantando /…/ Grazie per tutte le vostre buone cure”2. 

Eppure Etty non è stata esente dalla disperazione: “Ogni tanto mi viene voglia di preparare il mio zaino e di salire su uno di quei treni di deportati che vanno all’Est, ma una persona non deve cercare di rendersi la vita troppo facile”. E, tra l’altro, questa frase conferma la consapevolezza che Etty aveva del suo destino3. Ma da questa tentazione sapeva riemergere come “un ragno / che / lancia davanti a sé i fili principali”: Etty sapeva che “la strada principale della / sua / vita / era / tracciata per un lungo tratto davanti a / lei / e arriva / va / già in un altro mondo”. 

La riflessione (nota e banale, ma anche sostanzialmente vera) sulla considerazione che “la massa è un orribile mostro, i singoli fanno compassione” ci pare esemplificare la definitiva scelta di Etty. Infatti, costata in se stessa “che non esiste alcun nesso causale fra il comportamento delle persone e l’amore che si prova per loro4. Questo amore del prossimo è come un ardore elementare che alimenta la vita5. Il prossimo in sé ha ben poco a che farci”. E nella stessa ottica va considerata un’altra sua espressione che sembra ricalcare certe dure formule evangeliche: “Sono sempre più convinta che l’amore per il prossimo, per qualsiasi creatura a somiglianza di Dio. debba stare più in alto dell’amore per i parenti”6. 

Ma questa intensa ricerca spirituale. e il desiderio di non sconvolgere i destinatari dei suoi scritti non attenuano le capacità di autentica scrittrice realista che sorregono la prosa della Hillesum. Certi stralci ci paiono degni persino del suo amato e studiato Dostoevskij. Come la vicenda di “quel ragazzo impaurito /che/ improvvisamente gli era toccato partire, aveva perso la testa ed era scappato. I suoi fratelli di razza erano stati costretti, a dargli la caccia”. O la descrizione indimenticabile di quella madre che, avendo perduto il figlioletto neonato. si offre come nutrice per il convoglio in partenza. 

E a Etty non sfuggono neppure le assurdità di quella condizione: come gli artisti di fama che ritardano la loro partenza con frenetici spettacoli davanti alle autorità del campo. Una frase captata per caso le basta per illuminare una situazione o un tipo psicologico: “Una voce dietro di me: ‘una volta avevamo un comandante che ci spediva a calci in Polonia, questo lo fa a sorrisi”. E non ci nasconde neppure le angosciose crudeltà che puòperpretare una vaga speranza di salvezza: “Come è possibile che l’ospedale lasci partire delle persone quasi morte?” – aveva chiesto il padre di Etty a un infermiere, e la risposta di quest’ultimo è raggelante e, nel contempo, logica e giustificabile: “L’ospedale consegna un cadavere per trattenere un vivo”. 

Dalla lettura di questo scarno libro non emerge, come nel caso di altri volumi epistolari, la sensazione di avere violato la privacy dell’autore; si ha piuttosto la netta impressione che una voce persa nel tempo, ma ancora vitale e valida, sia venuta a informarci, a incitarci, da tanto e tale dolore, addirittura a confortarci. 

E per questo dobbiamo ancora dare a Etty e a tanti come lei una risposta. Certamente non abbiamo compiuto questo suo proposito: “se non sapremo offrire al mondo impoverito / … / nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora non basterà / .. ./ nuove conoscenze dovranno portare chiarezza oltre i recinti di filo spinato, e congiungersi con quelle che là fuori ci si deve ora conquistare con altrettanta pena / … / e forse / … / la vita sbandata potrà di nuovo fare un cauto passo avanti”. 

Gaetano Radice

l. Per “psicochirologia” si intcnde lo studio e la classificazione delle linee della mano. È lecito pensare che le uniche notizie su Spier reperibili in italiano siano quelle contenute nell’introduzione al Diario 1941 – 1943 di Etty Hillesum. Milano, Adelphi. 1985. Alla stessa opera si rimanda chi volesse ulteriori ragguagli su Etty e la sua famiglia.
2. Etty Hillesum morirà a Auschwitz il 30 novembre 1943. Anche i suoi genitori, e Mischa, periranno nello stesso campo. Jaap morirà durante il ritorno in Olanda. 
3. Consapevolezza che mancava ad altri deportati; per esempio, a Primo Levi. Cfr. Se questo è un uomo. Torino, Einaudi. 
4. “Superare Simone Weil” è un appunto trovato fra le carte di Ignazio Silone (Cfr. Darina Silone, Storia di un manoscritto, in Ignazio Silone, Severina, Milano, Mondadori). Un paragone tra le due pcnsatrici è certamente azzardato. Ma se lo scopo della vita è di non “mancare / la propria / morte” (Simone Weil, Ecrits de Londres et demières lettres, Gallimard. Collection Espoir, Paris, 1957), allora la sua vita l’ha certamente realizzata di più Etty Hillesum.E quale 
fonte d’ispirazione avrebbe costituito per lo scrittore abruzzese la vicenda spirituale c umana di Etty? 
5. “Nonostante la mia età, a dispetto dei miei mali, sento fortissimo il bisogno d’amare e di essere amato”, aveva scritto Giovanni Papini – evidente l’affinità di pensiero eon Etty Hillesum – negli infelicissimi suoi ultimi anni. 
6. “Perché sono venuto a separare l’uomo dal padre, la figlia dalla madre e la nuora dalla suocera; e l’uomo avrà per nemici proprio quelli di casa sua” Mt, X, 35-36.

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 52-55