E poi c’è quest’isola, che ha un effetto magico
su tutti quelli che vi mettono piede
Nazareni o credenti.
Di fronte agli stessi problemi diventiamo tutti siqillyani .
Tariq Ali, Un Sultano a Palermo, 2005.
La tradizione tipicamente anglosassone del grand tour, col quale i giovani rampolli delle famiglie aristocratiche e della borghesia istruita completavano la loro educazione, si afferma in Inghilterra a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. Ma in realtà si tratta di una consuetudine che nasce già al tempo di Elisabetta I, dettata inizialmente dalla necessità di creare una classe di abili diplomatici che rappresentassero l’Inghilterra presso le corti straniere. Tappe obbligate di questo percorso educativo-turistico erano Venezia, Firenze, Roma e Napoli. Apparentemente la Sicilia era esclusa da questo circuito, almeno fino all’età risorgimentale, sia per la ‘distanza materiale che per la carenza di infrastrutture di trasporto e ricettive. Una terra, dunque, conosciuta dagli elisabettiani solo come astratta e remota entità geografica, avvolta nei soporiferi vapori delle memorie classiche, e, come afferma Gentile, «sequestrata, a causa del mare e della scarsezza dei commerci, da ogni relazione col resto del mondo»1?
Così non sembra, se solo consideriamo che già nella tardo-duecentesca carta di Ebstorf, una delle più singolari rappresentazioni geografiche, l’Isola è raffigurata a forma di cuore del mondo, se Shakespeare la sceglie come sfondo del suo Winter s Tale, e Milton pone la sede dell’Inferno del Paradise Lost nell’Etna. Gli Inglesi, fin dal Rinascimento, furono tra i visitatori più assidui, seppure talora occasionali, dell’Isola, e dei loro viaggi sono rimasti diari, taccuini privati, scritti scientifici e corrispondenze intime, un vastissimo repertorio di documenti che attestano la centralità della Sicilia come «cuore pulsante» del Mediterraneo, battuto e vitale crocicchio nel circuito dei pellegrinaggi e di quel Grand Tour, che già comincia a ad affermarsi come fondamentale esperienza formativa del gentleman inglese.
Quale era l’immagine delle Sicilia e quali le informazioni su cui gli scrittori delle età elisabettiana e giacomiana (XVI-XVII sec.) potevano contare? Per lo più si tratta di diari e taccuini di viaggio scritti da pellegrini e diplomatici che facevano scalo nell’isola durante i viaggi in Terrasanta.
La descrittiva irrazionalità dei compilatori delle cosmografie del ‘ 500 e del ‘600 ne facevano una terra mitica, percorsa da miniere aurifere e caverne sulfuree, battuta da mandrie di cavalli bradi, dominata in modo sproporzionato dalla gigantesca montagna fiammeggiante dell’Etna che sputava vapori e lapilli per spazi immensi.
E tuttavia, proprio in virtù di tali curiose divagazioni, o loro malgrado, la Sicilia entrò in quel periodo nei codici formativi dei giovani d’alto lignaggio che dall’Inghilterra stuoli di familiari e di precettori guidavano alla scoperta del mondo. Le loro peregrinazioni si incrociavano con i transiti per l’Isola dei pellegrini che da Occidente si recavano in Terrasanta e con gli scali nei suoi porti delle navi dirette a Malta.
È l’Etna, più d’ogni altro luogo dell’isola, che accende la fantasia e scatena l’immaginazione dei poeti e degli scrittori inglesi del Rinascimento. Scrivendo del vulcano, nel 1599, GeorgeAbbot afferma: «Questo è il luogo dove Empedocle si gettò perché lo si credesse un dio. Qui è dove Virgilio creò Enea. Dove i poeti dicono essere la fucina di Vulcano; dove i Ciclopi forgiavano i tuoni di Giove; e infine, qui è dove alcuni dei nostri maggiori papisti non hanno tema di immaginare possa trovarsi il purgatorio2.»
In una tarda traduzione italiana degli scritti del leggendario John Mandeville, si legge: «Item in questa isola è il monte Ethna el quale sempre arde & chi amase Mongibello e Vulcano oue ardeno dui fochi e gettano di verse fiamme de diuersi cholori. Et per la mutazione de queste fiamme sanno le gente del paese quando sera carestia e bona de rata fredo e caldo humido secco: e uniuersalmente conoscano a che modo se governa il tempo de Italia. E questo Vulcano sono XXV miglia; e dicese che questa bocca e de lo inferno3.»
Mandeville fu un cavaliere inglese del XIV secolo, viaggiatore e protagonista di straordinarie avventure dal 1322 al 1356 nel Mediterraneo, in Turchia, in Persia, in Egitto e in India. In passato si riteneva fosse realmente esistito, invece pare si tratti di un personaggio immaginario inventato dal medico francese Jean de Bourgogne che gli attribuì un apocrifo Voyage d’outre mar. In realtà questo testo, apparso tra il 1357 e il 1371, risulta essere una compilazione da varie fonti che godette di ampia fortuna e fu tradotta in varie lingue, tra cui latino, inglese, italiano e tedesco. Come, del resto, tutte quante le peripezie e i viaggi di questo fantasioso cavaliere inglese, anche la descrizione della Sicilia è quasi certamente frutto di pura immaginazione o almeno di notizie ricavate da fonti in buona misura inattendibili. (Tra le altre notizie curiose, Mandeville riporta che nell’isola esisteva una specie di serpenti usati dagli abitanti per vedere se i loro figli erano legittimi o meno: se il serpente li mordeva significava che erano stati concepiti fuori dal matrimonio).
Uno dei più antichi Travel Books inglesi a parlare della Sicilia è il diario di Sir Richard Torkington, gentiluomo del Sussex, che intraprese come tanti suoi compatrioti, un viaggio in Terrasanta all’inizio del Cinquecento. L’isola per lui non rappresentò che una breve tappa di transito durante il viaggio di ritorno, nel marzo del 1518, quando passando allargo della costa catanese, assistette a una terribile eruzione dell’ Etna, dalla cui sommità «usciva fuoco che scorreva giù come un’inondazione d’acqua sulla città e bruciava molte case e anche navi che si trovavano nel porto e metteva in grande pericolo la città»4. Che, riferisce Sir Torkington, fu salvata dall’eruzione grazie al sacro velo di S. Agata.
Nell’immaginario collettivo degli elisabettiani e ancor più dei Puritani nel secolo successivo, l’Etna era una gigantesca montagna fiammeggiante, e nella visione classico-rinascimentale costituiva la dimora mitologica del dio Vulcano e una vera e propria porta dell’inferno.
Lo stesso Shakespeare cita l’Etna come sede dell’inferno sia in The Merry Wives (III, 5, 131) che nel Titus Andronicus (III, 1, 241).
Anche John Milton, che pur avendo viaggiato molto in Italia non visitò mai la Sicilia, in uno dei passi più belli del Paradise Lost, utilizza il mito di Tifeo tratto dalle Metamorfosi ovidiane per spiegare il volo di Satana e quando descrive l’inferno si rifà alle descrizioni dell’Etna dei viaggiatori inglesi dell’epoca. Tifeo, gigante mostruoso, figlio di Gea, sconfitto da Giove, venne schiacciato da questi sotto la Sicilia. Qui sotto vomita fuoco attraverso il monte Etna che gli grava sul volto, tenta di scuotere la terra per liberarsi e fa traballare montagne e città che gli sono sopra. Così anche Satana si ritrova volando ad atterrare su di un «lago di fuoco liquefatto, / e di tale colore appariva; come quando la violenza / del vento sotterraneo solleva una collina / strappata dal Peloro, o dal fianco squarciato / dell’Etna che rintrona, le viscere sempre nutrite / di combustibile e pronte a concepire fuoco / sublimato di furia minerale, porgono aiuto ai venti / e lasciano un fondale abbruciacchiato, ravvolto / di fumo e di fetore.»
Anche George Sandys, traduttore di Ovidio, poeta e colonizzatore inglese, si rifà al mito di Tifeo per spiegare l’origine del vulcano: «Tifone è un vento caldo e impetuoso che soffia non solo sulla terra ma anche nelle sue viscere e attraversando le caverne sotterranee con moto violento infiamma i materiali sulfurei e bituminosi di cui la Sicilia abbonda.»
Sandys intraprese nel 1610 un viaggio verso la Terrasanta e sulla strada del ritorno ebbe modo di visitare anche la Sicilia. Nel suo racconto troviamo una delle prime attestazioni sulla Sicilia che la «Travel Literature» dell’età moderna ci abbia trasmesse. Sono brevi descrizioni intercalate da citazioni classiche – dall’Eneide, da Silio Italico, da Lucano – dei sei giorni che Sandys trascorse nell’isola. Nell’insieme, è ancora una volta una Sicilia ambigua, dove il fascino della mitologia si lega alla bellezza del paesaggio e alla fertilità del suolo: «Viti, canne da zucchero, miele, zafferano e frutti di ogni tipo si producono gelsi per nutrire i bachi da seta da cui traggono un gran ricavo; cave di porfirio e serpentina. Sorgenti calde, fiumi e laghi pieni di pesce: tra questi ve n’è uno chiamato Lago di Goridano, un tempo l’ombelico della Sicilia, poiché si trova al centro dell’isola; ma più antico ancora è Pergusa, famoso per il leggendario ratto di Proserpina.»
Una immagine della Sicilia ambivalente, insomma: da un lato essa è una specie di nuovo Eden, in cui i raccolti sono abbondanti e numerosi e dove i frutti della terra crescono spontanei; dall’altro è un luogo quasi sovrannaturale, pieno di insidie, dominato dai vulcani, abitato dai Ciclopi, scosso da terremoti e battuto dai forti venti che attraversano lo stretto.
Uno dei viaggiatori inglesi più singolari è il barbiere-chirurgo William Davies, di confessione luterana, che venne catturato nel 1598 dalle galere del Granduca di Toscana mentre si trovava a bordo di una nave inglese allargo delle coste tunisine. Davies in quel periodo fu in Sicilia e più volte visitò Palermo (At this citie I have beene very often in the time of my slavery) che descrive popolosa e fiorente di commerci. Fu anche a Trapani: «in which towne there is a monastery, wherein they affirme that the Pillar of Salt that Lots Wife was tumed unto comming out of Sodome is».
E a proposito dell’Etna scrive: «Questa alta montagna che incombe sulla città si chiama Mongibello, e sta nella parte orientale dell’isola, la sua cima brucia perennemente notte e giorno, e a causa della ferocia del fuoco ha consumato molti villaggi. La ragione di questo fuoco è una pietra sulfurea che essendo posta in alto, come tutti possono immaginare, viene accesa dal calore del sole.»
Naturalmente non sempre i racconti di viaggio sono frutto di testimonianze reali, come nel caso di Davies. In qualche caso il viaggio era limitato alla biblioteca cittadina, dove consultando autori latini e francesi si faceva opera di trascrizione o di raccolta di materiali diversi che andavano dai racconti mitologici a traduzioni, spesso molto personali, in inglese di autori classici come Virgilio e Omero, Ovidio e Lucrezio.
Tra le città più citate dai viaggiatori inglesi tra ‘ 500 e ‘ 600 ci sono quelle della costa orientale: Catania, Messina, Siracusa, che si trovavano sulla rotta per l’Asia Minore e la Terrasanta.
Sandys approdò a Siracusa il 25 giugno del 1612 veleggiando da Malta, e vi sostò una giornata ma non fa cenno delle attrattive della città; il giorno dopo, rimessosi in viaggio, fu a Catania, di cui si limita a dire: «a city more ancient than beautiful». Anche qui trova poco che sia meritevole di attenzione, se non l’Università e la campagna fertile, mentre trova modesto il commercio e scarsa la presenza dei nobili. A proposito di Messina, parla invece di una città al culmine della prosperità: i messinesi, scrive, vivevano in all abundance and delicacy, having more then enoughlood and Iruites of all kinds. Trovò nell’aspetto delle case e nella ricchezza delle carrozze durante il passeggio serale (the men on horseback and the women in large carrosses) una condizione di benessere che testimoniava lo splendore della città.
Sir Thomas Hoby, diplomatico e letterato inglese che esercitò a Parigi la carica di ambasciatore della regina Elisabetta, fu in Italia due volte: la prima, a vent’anni, nel 1550, in cui oltre a visitare Roma e Napoli si spinse fino in Sicilia; la seconda volta, nel 1554-55 si fermò solo nelle regioni settentrionali. Egli delle città sic’iliane non sempre dice cose lusinghiere: spesso, anzi, l’ antico splendore è in contrasto con la desolazione presente.
«Questa città [Catania] giace sulla riva del mare ai piedi del Mongibello. […] È stata una città famosa nel passato ma oggi c’è poco da vedere, tranne le rovine di un vecchio acquedotto.» E poi: «Questa [Siracusa] è la città famosa di tutti gli scrittori, sia greci che latini, che era reputata una delle principali città della Grecia. […] Il nome rimane ancora, ma la bellezza e la maestà che le appartenevano sono del tutto decadute9.»
Sir Torkington descrive invece l’opulenza di Messina. «Questa Messina, in Sicilia, è una bella città e ben cinta da mura, con molte belle torri e diversi castelli, il più bel porto per i naviganti che io abbia mai visto, c’è anche abbondanza di ogni genere di cose necessarie agli uomini, eccetto le stoffe, che costano molto care, perciò gli inglesi le portano lì per mare dall’Inghilterra, è un viaggio molto lungo10.»
Interessante è anche la descrizione della Sicilia fatta da William Lithgow (1582?-1645?) viaggiatore scozzese e fervente anticattolico, dalla vita avventurosa. Lithgow visitò l’isola nell’estate del 1614, durante un viaggio in Europa, Asia Minore, Africa e fu proprio nei mari della Sicilia che operò la cattura della ciurma di una nave pirata turca. Vi tornò nell’autunno dello stesso anno ma fu costretto a fuggire per avere ucciso in duello due giovani baroni.
Lithgow è uno dei primi a soffermarsi, oltre che sulla descrizione delle città, sul carattere degli abitanti. «I Siciliani sono per la maggior parte oratori esperti, ché gli Apulei li definiscono uomini dalle tre lingue. Inoltre sono pieni di frasi argute e gradevoli nel raccontare, eppure fra di loro essi sono pieni di invidia (la gentilezza che vi dicevo è rivolta agli stranieri), sospettosi e pericolosi nella conversazione, inclini alla rabbia e alle offese e pronti a vendicarsi di ogni torto subito: ma devo confessare, più generosi degli italiani, che uccidono i loro nemici di notte, perché essi si affrontano in duello e lo fanno da uomini, senza pratiche fraudolente11.»
In molti casi questi resoconti riferiscono di testimonianze e letture precedenti, senza che l’autore abbia mai messo piede nei luoghi di cui parla. Di Palermo, che mai visitò, George Sandys afferma che fosse piena di begli edifici e frequentata da studenti, notizia questa che non trova conferma documentata poiché al tempo l’Università non esisteva ancora. Allo stesso modo, pur non avendo avuto alcun contatto con gli abitanti delle zone montane, scrisse che essi erano «così inospitali verso gli stranieri che tra di essi non si può viaggiare via terra senza una robusta guardia; derubano e uccidono chiunque riescano ad acciuffare facilmente»12.
I siciliani descritti da Sandys sono incolti, superstiziosi, brutali, gelosi, vendicativi e soprattutto pigri., tanto da vendere la canna da zucchero ai Veneziani per poi ricomprare, col ricavato, lo zucchero raffinato13.
Nella sua Cosmographie del 1652, in cui la Sicilia occupa un intero capitolo, Peter Heylyn afferma: «Il terreno è incredibilmente fertile di vino, olio, miele minerali di oro, argento e allume assieme ad abbondanza di sale e zucchero; quest’ultimo bene gli indigeni lo vendono in canne ai veneziani e lo ricomprano da loro dopo che è stato raffinato, lasciando così che gli stranieri intaschino la maggior parte dei loro guadagni; così generalmente fanno con tutte le altre mercanzie, che permettono di esportare piuttosto che prendersi da sé il disturbo di commerciare all’estero con nazioni straniere14.»
Ma riconosce ai Siciliani creatività e genio: «Sono stati famosi finora per molte notevoli invenzioni, Aristotele attribuisce loro l’arte dell’ oratoria, e le prime egloghe pastorali, Plinio degli orologi (o meglio le clessidre) e Plutarco delle macchine militari15.»
Lithgow aggiunge che mai durante la sua permanenza nell’isola vide qualche siciliano to begge bread or seeke almes, tanta è l’abbondanza della terra, e aggiunge che essi sono generally wonderfull kind to strangers.
Questo è il quadro della Sicilia come appariva agli occhi degli inglesi al tempo di Elisabetta I e del suo successore Giacomo I. Una terra ambivalente e piena di metafore, fertile luogo dell’abbondanza, ma al contempo pericolosa e infida. Così la racconta Shakespeare: «Leonte, re di Sicilia, nutre una ingiustificata gelosia nei confronti della moglie Ermione, sospettando che abbia una relazione clandestina col suo amico Polissene, re di Boemia. Ossessionato dalla gelosia, insiste nel credere nella colpevolezza della moglie anche quando l’oracolo di Apollo ne dichiara l’innocenza. Nella sua follia, la fa processare e ne ordina la morte assieme a Perdita, la bimba data alla luce da Ermione in carcere e che egli ritiene figlia illegittima di Polissene. Ma Antigono, incaricato di uccidere la bambina, la salva abbandonandola sulle coste della Boemia. Sedici anni dopo, la principessa Perdita, che è stata allevata da un pastore, si innamora di Florixel, figlio di Polissene, e con lui fugge in Sicilia, dove avviene la riconciliazione tra i due giovani e i loro genitori, e dove anche Ermione, creduta morta, ricompare sana e salva.»
Questa è la trama di The Winter’s Tale, uno degli ultimi drammi di Shakespeare, ambientato per tre atti in Sicilia. Nella fonte originale dell’opera, il romanzo pastorale di Robert Greene intitolato Pandosto, l’azione principale era ambientata in Boemia e quella secondaria in Sicilia. Shakespeare inverte rapporto e sceglie la Sicilia per fare da sfondo ad uno dei suoi romances più ambigui, in cui si mescolano mitologia, dramma pastorale, magia, follia, ritrovamenti di figli perduti e riconciliazione. Questo forse perché ha bisogno di un luogo ambiguo e senza tempo, dai contorni vaghi, in cui prevale l’elemento magico, per dar voce alla follia di Leonte da un lato e alla possibilità della riconciliazione tra genitori e figli dall’altro, quasi a smentire il motivo centrale dei grandi drammi precedenti come Amleto e Otello, nei quali non esiste rimedio al male compiuto.
Nel Racconto d’inverno, nonostante la presenza del Male, dettato dalla follia umana, si intravede per l’umanità un recupero dell’innocenza perduta. Per ciò Shakespeare si rivolge a una terra suggestiva, piena di connotazioni simboliche, metafora composita e isola mitica di giganti e di dei, di vulcani e terremoti dove egli, al pari di molti contemporanei, riteneva che una fiaba a lieto fine fosse possibile nonostante tutto.
P. Bruna Scimonelli
BIBLIOGRAFIA
M. Capuzzo, Milton e la Sicilia, Libreria Dante, Palermo, 1987.
M. Marrapodi, L’Odissea di Pericles: saggi e discorsi dagli elisabettiani a D. H. Lawrence. Bulzoni, Roma, 1999.
NOTE
1 G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Sansoni, Firenze, 1963, p.S.
2 George Abbat, A Briefe Description of the whole Worlde, London, 1599. «This is the place whether Empedocles Ihrewe himselfe, Ihal he might be repuled a God. This is it, whereof Virgil dolh make his tract called Aenea, which the Poels did reporl to be Ihe shop of Vu/can: where the Cyclops did frame the thunderbolts for Jupiter: and to conclude, this is it which some of OLtr grosse Papistes haue notfeared to imagine to be Ihe p/ace of purgatorie.»
3 Ioanne de Mandavilla, nel quale si contengono di molte cose marauigliose, Venezia 1567.
4 R. Torkington, Ye Oldest Diarie of Englysshe Travell: being the hitherto unpublished narrative of the pilgrimage of Sir Richard Torkington to Jerusalem in 1517. «Cam owt fyer ronning downe like as it ad be a flode of watyr into the Citye and brent many howses and also shippes Ihat war in the havyn and put the city in grett juberte.»
5 J. Milton, Paradise Last, I, 229 – 235 (edizione curata da R. Sanesi, John Milton, Paradiso Perduto, Arnoldo Mondadori, Milano, 1984).
… Lake with liquidflre,
And such appeared in hue; as when the force
Of subterranean wind transports a Hill
Tomfrom Pelorus, or Ihe shattered side
Of thundring Aetna, whose combustible
Andfeweld entrails thence conceiving Fire
Sublim ‘d with Mineral fury, aid the Winds,
And leave a singed bottom all involv’d
With stench and smoak.
6 George Sandys, A relation of ajourney begun An. Dom. 1610. Fovre Bookes. Containing a description of the Turkish Empire, of Aegypt, of the Holy Land, of the Remote parts of Italy and Ilands adionying, London, 1615. «Typhon physically is a hot and impetuous wind, not onely aboue but vnder the Earth, which rushing through her hollow cavernes, with violent motion injlames the sulphurous and bituminous matter wherewith Sicilia aboundeth.
7 George Sandys, cit. «Vines, sugar canes, hony, saffron, and fruites of all kindes it producete: mulberry trer::s to nourish their silke-wormes, whereofthey make a great income: quarries of porphyre, and serpentine. Hot bathes, riuers, and lakes replenished with fish: amongst which there is one called Lago de Goridan; formerly lhe nauell of Sicilia, for that in the midst of the Iland; but more anciently Pergus, famous for the fabulous rape of Proserpina.»
(8) William Davies, A true Relation of the Trauailes and most miserable Captiuitie of William Dauies, Barber-Surgeon of London vnder the Duke of Florence, London, 1614. E a proposito dell’Etna scrive: «This high Mountayne that hangs ouer the Citie is called Mungebella, and standeth in the East part of the Island the top of it burning continually both night and day, and by reason of the fierceness of the fire hath consumed many Uillages. The reason of this fire is a Brimstone, or a Sulphure Mine, which being high, is, as all men imagine, set afire by the heathe of the Sunne.».
9 Thomas Hoby, The travels and life of Sir Thomas Hoby, Kt, of Bisham Abbey, Written by Himself. 1547-1564, «This towne [Catania] is placed upon the seea side at the rootes of Mongibello. […]hath bine a famous citie in times past, but now there is little to be seene abowt it, except the ruines of an old aqueduct.» […]«This [Siracusa] is the towne so famous in ali writers both greeke and latin, which hath bine esteemed one the principallest cities of all Greece. […] The name of it doth stili remaine, but the bewtee and majstee of it is cleane decayed.»
10 R. Torkington, cit. «This Missena, in Cecyll, ys a fayer Cite and well wallyd wt many fayer lowers and Divse caste Il, the fayerst havyn for Shippers that ev I saw, ther ys also plente of ali maner of thyngs that ys necessari for man except clothe, that ys very Dere ther, ifor englyssh men brynge it thedyr by watyr owt of and a Enlong [England], it ys a grett long wey.»
11 William Lithgow (1582?-1645?), The Totall Discourse of the Rare Aduentures and painefull Peregrinations of long nineteene Yeares Trauayles, from Scotland, to the most Famous Kingdomes in Europe, Asia and Africa, London 1632. «The Sicilians for the most part are bred orators, which made the Apulians tearme them men of three tongues. Besides they are full of witty sentences, and pleasant in their raconteurs, yet among themselves, they are full of enuy (meaning their former kindness was unto strangers) suspicious and dangerous in conversation, being lightly giuen to anger and oifences, and ready to take revenge of any iniury committed: But indeed 1 must confesse, more genùously than the Italians, who murder their enemies in the night, for they appeale other to single combat, and that manfully without fraudolent practices.»
12 George Sandys, cit. «…so inhospitable to strangers that betweene them both there (was) no travelling by land without a strong guard, who rob and murder whomsoever they can conveniently lay hold on.»
13 George Sandys, cit. A people greedy of honour, yet giuen to ease and delight; talkatiue, meddlesome, dissentious, iealdus and reuengeful. So supinely idle that they sell their sugar as extracted cane to the Venetians; and buy what they spend of them againe, when they haue refined it.»
14 Peter Heylyn, Cosmographie. In foure Bookes etc., Londra, 1652. «The soyl is incredibly fruitfull in Wine, Oyl, Honey, Minerals of Gold, Silver and AlIom, together with plenty of Salt and Sugar; which last commodity the Natives sell in the Canes unto the Venetians and buy it again of them when it is refined, and thereby letting strangers go away with lhe best part of their gains; as they generally do in all other Merchandize, which they permit to be exported, raher then putting themselves to the trouble of Trafficking abroad in Foren Nations.»
15 Peter Heylyn, op. cit. «They have been famous heretofore for many notable iniventions, Aristotle ascribing to them the art of Oratory, and first making of Pastorall Eclogues, Plinie of Clocks (or rather Hourglasses) and Plutarch of Military Engines … »
Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 13 – 19.