Angelo Scandurra, Vivere la parola (Pref. di C. Muscetta), Bonanno Editore, Catania, 1989, pagg. 140. 

 Angelo Scandurra, bibliotecario presso il comune di Valverde, poeta, editore, saggista, ha avuto una serie di esperienze in campo artistico e letterario ed ora ha pubblicato un originale libro di interviste. 

Al suo attivo ci sono, infatti, due libri di versi (Proposta per incorniciare il vuoto, 1979 e Fuori delle mura, 1983), un saggio storico (Valverde un comune dalla leggenda alla storia, 1977) e un testo teatrale (Evoluzioni di una metamoryosi, 1978); ha fondato il «Gruppo Teatro Nuovo di Valverde» e la rivista letteraria «Il girasole»; 

ha dato vita a «Il Girasole Edizioni», dove ha pubblicato opere di saggistica, di poesia e di narrativa, gli ultimi dei quali di Luigi Compagnone e di Luca Canali. 

Questa sua ultima opera, Vivere la parola, è strutturata in una serie di interviste, effettuate fra il 1981 e il 1987, rivolte ad alcuni fra i maggiori personaggi della nostra epoca. Si tratta di un tentativo di portare avanti un discorso nuovo che, all’informazione rapida ed essenziale, associ una documentazione dei fatti, inquadrati in una problematica storica, tale da suggerire spunti per una personale rimeditazione degli argomenti trattati. Il dialogo si trasforma, quindi, in contenitore di sogni, dove, alcune fra le persone più rappresentative e note del nostro tempo, traggono le conclusioni sulla propria vita, sul proprio lavoro ma, soprattutto, sull’eterno contrasto fra i due aspetti della stessa medaglia: la vita e la morte. 

Vengono così intervistati poeti come Léopold Senghor, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Dario Bellezza, Nelo Risi, Emilio Isgrò: scrittori come Cesare Zavattini, Fortunato Pasqualino, Leonardo Sciascia, Enzo Siciliano, Antonio Aniante, Eduardo De Filippo, Giorgio Saviane, Luca Canali, Giuseppe Bonaviri: registi cinematografici come Michelangelo Antonioni e i fratelli Taviani: registi teatrali come Giorgio Strehler, Orazio Costa, Tino Schirinzi: attori come Valeria Moriconi, Glauco Mauri, i fratelli Maggio, Salvo Randone, Vittorio Gassman, Giorgio Albertazzi; cantanti come Giuseppe Di Stefano e Maria Carta, cantautori come Gino Paoli ed Enzo Iannacci e uno scienziato come Norberto Bobbio. 

In Vivere la parola il gioco della scrittura unifica tutto. La raffinatezza tecnico-stilistico-strutturale delle domande penetra nei personaggi, cercando di comprenderli e di giustificarli dall’interno. Ed ognuno riesce ad essere autenticamente se stesso (cosa abbastanza difficile per persone che, in ogni caso, interpretano un ruolo, nella vita). 

Molto originale la prefazione di Carlo Muscetta, in forma d’intervista, il quale afferma, fra l’altro: «Il genere dell’intervista non è nuovo, ma non a caso oggi ha una particolare fortuna dovuta alla prevalenza della cultura orale. Ovviamente in televisione siamo abituati alla banalizzazione di questo genere… Tu come intervistatore» scrive, rivolto a Scandurra, naturalmente, «hai una problematica fondamentalmente esistenziale, per cui consideri importante la risposta quale che sia l’attività culturale, la minore o maggiore rappresentatività storico-sociale dell’intervistato… La tua amorosa provocazione ha una ‘ingenuità’ specchiante, da cui l’animo dell’intervistato viene fuori nella sua autenticità o nella sua artificiosità. Perciò queste interviste hanno tutte un valore ‘storico’, che non potrà essere trascurato da chiunque abbia curiosità di conoscere più a fondo questi protagonisti della nostra vita culturale». 

Emanuele Schembari 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 65-66.




M. Caruso, L’ascensore di Cartesio, Mazara del Vallo,1996, pagg. 78.

Questo secondo romanzo, L’ascensore di Cartesio, rivela la tendenza dell’Autore ad approfondire l’indagine filosofica volta anche qui alla ricerca affannosa della verità. 

In questa ricerca il lettore talvolta è disorientato e non riesce a distinguere la realtà vera da quella virtuale.È, per fortuna, uno sbandamento momentaneo e serve, anzi, da stimolo alla verità; è uno sbandamento che rivela l’ansia eterna dell’uomo verso quella verità che è solo capace di fugare ogni dubbio e ogni incertezza. 

Ma la via che conduce ad essa è difficile: «Avevo avuto la presunzione di uscire dal dubbio e conquistare la verità con le mie sole forze. Ero sprofondato nell’inganno». Cosi fa dire l’Autore al protagonista, dimostrando ancora una volta che, nonostante il progresso della scienza, i dubbi permangono e l’uomo può solamente tentare di pervenire alla conquista della verità. 

Spesso, però, in questa ricerca rimane deluso ed insieme illuso: «Ricordo il tepore di un letto, l’odore delle piume del mio cuscino e… un profumo di maiale arrosto. Chissà chi lo stesse cucinando!» 

Ricompare il dubbio, ma è proprio questo dubbio che mette in moto quel meccanismo che ci induce a far di tutto per risolverlo. 

Antonella Scardino

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 41-43.




M. Caruso, Il balcone del professor Agostino Vicoplato, Mazara del Vallo, 1995, pagg. 111.

Il balcone del professor Agostino Vicoplato colpisce il lettore soprattutto per l’attualità della tematica affrontata, in quanto tutti, come Agostino Vicoplato, potremmo essere « vittime delle circostanze ». 

Molto valido il messaggio. Il libro vuole indurre a non lasciarci influenzare dai pregiudizi, a non giudicare il prossimo dai “si dice”, ma andare al di là delle apparenze per tentare di conoscere la verità. E anche se essa è triste ed amara, non è compito nostro giudicare o emarginare con un « non è dei nostri», come avviene a scapito del protagonista di questo romanzo. Nostro dovere è approfondire, scavare nell’animo per tentare di capire le motivazioni dell’agire. 

Un messaggio, a nostro parere, carico di ottimismo, perché, nonostante tutto, nonostante le disavventure, di cui si può essere vittime, affiora sempre la speranza che prima o poi spunterà il sole, riempirà tutto il balcone e Agostino potrà finalmente essere riconosciuto per quello che è e come noi vogliamo sia l’uomo. 

Antonella Scardino

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pag. 41.




Savonarola e la Scuola di Torino 

Il prof. Rizza del Liceo «Mazzantini » di Torino ha scritto un libro, in collaborazione con Augusto Del Noce, Una possibile letteratura alternativa della cultura di Torino (1985), in cui trae delle conclusioni con il seguente allarme interrogativo: «Torino è morta? Torino non ha più speranza, come è accaduto ad alcuni dei suoi vecchi maestri ?». Il prof. Rizza risponde: «Forse no, se Torino ricorderà e farà tesoro delle parole che S. Agostino rivolgeva, in un’epoca altrettanto angosciosa, ai Romani che piangevano sulla loro città distrutta, sulla fine del loro mondo antico». 

Il testo di S. Agostino è il seguente. 

«Forse Roma non andrà in rovina, forse Roma è stata soltanto flagellata, non uccisa; forse è stata soltanto castigata, non distrutta. Forse non andrà in rovina, se non rovineranno i Romani. I Romani infatti non andranno in rovina se loderanno Dio; andranno in rovina se bestemmieranno Dio. Poiché che cosa è Roma, se non i Romani?». E, applicandolo a Torino, il prof. Rizza dice: «Forse forse Torino non andrà in rovina se non andranno in rovina i Torinesi; perché che cosa è Torino, se non i Torinesi?». 

Roma poi non morì come si vede. E non morì non solo perché divenne la sede indefettibile del “maggior Piero”, ma anche perché intorno alla sua idea – che è un’idea di Dio – si strinsero a volta a volta i suoi Santi, i suoi Martiri, i suoi Uomini migliori. Anche Torino è un’idea di Dio, che entrò in orbita appena di recente, quando divenne sede del primo Risorgimento in funzione dell’unità d’Italia, e da stella potrebbe diventare un sole, come sede del secondo Risorgimento in funzione dell’unità europea: dall’URSS al Commonwealth Britannico alla Quarta Sponda africana. 

Ora io sono qui per dare il mio contributo, il quale si chiama Savonarola. Non un Savonarola da strapazzo, s’intende; e neppure soltanto il grande Savonarola emerso dalle classiche biografie del napoletano Pasquale Villari, del bavarese Giuseppe Schnitzer, del fiorentino Roberto Ridolfi, con la magistrale integrazione critico-biografica del palermitano Mario Ferrara; e neppure ancora il Savonarola che si svela dalla sua Opera Omnia che possediamo ormai in splendida Edizione Nazionale critica di 25 volumi, grazie ai Laici di Firenze, capeggiati da Giovanni Papini e da Giorgio La Pira. 

Il mio Savonarola è in sopra più quello cioè letteralmente scoperto da coloro che nel complesso chiamerò la Scuola di Torino. Una Scuola senza edificio, di soli peripatetici, con una tradizione però secolare alle spalle, che risale ai tempi stessi del Savonarola, come ho illustrato in mio recente articolo Savonarola nella tradizione dei Domenicani di Piemonte e Liguria, in “Palestra del Clero”, Rovigo, agosto 1985, nn. 15/16. La quale Scuola presenta, ovviamente come tutti, il Savonarola nato in questo mondo a Ferrara, e per il cielo a Firenze, tra i bagliori del martirio; ma presenta, in più il Savonarola che va trovando, oggi, pienezza storica qui a Torino: in questa Torino il cui fondamento remoto è il culto del toro Apis degli antichi Egizi, e il cui orizzonte prossimo è l’inizio del Terzo Millennio cristiano. 

Tale Millennio inizierà con il solenne giubileo già indetto da papa Giovanni Paolo II con l’Enciclica sullo Spirito Santo Dominum et vivificantem, e avrà come preludio il V Centenario della morte di Girolamo Savonarola e dei suoi due Compagni Martiri, addì 23 maggio 1998. L’attesa è grande per entrambi gli eventi che la Provvidenza sembra avere così abbinati. 

Questa Scuola di Torino ha avuto un precursore e un maestro. Il precursore è il prof. Paolo Luotto di Villafranca d’Asti (1855), il maestro p. Pera dei Domenicani di Torino, nato a Pietrasanta (1889). 

Paolo Luotto, professore di lettere e filosofia nei licei classici, scrisse un grosso volume il cui titolo dice tutto: Il vero Savonarola e il Savonarola di L. Pastor (1887). Tracciò il solco e gettò la prima semente. Morì a soli 42 anni, pianto dai suoi colleghi, specialmente dal fraterno amico Salvemini, vero eroe della causa per la quale diede la vita per l’enorme dispendio di energie profuso oltre gli impegni di scuola e di famiglia. 

P. Pera può essere definito l’Aristotele della Scuola peripatetica savonaroliana di Torino. Apprezzato personalmente da papa Paolo VI Montini, p. Pera è passato alla storia con un suo modesto studio sull’identità di Dionigi il Mistico e Dionigi Aeropagita la quale significherebbe il nodo tra la patristica greca e quella latina e la vera chiave della sintesi di San Tommaso d’Aquino che la Chiesa ha eletto a suo Dottore ufficiale. 

Portando a maturazione le idee del Luotto, p. Pera diede una dimostrazione magistrale pubblicando il carteggio intercorso tra papa Alessandro VI Borgia e Savonarola, commentandolo con “postille”, come egli volle chiamarle, ma che in verità sono squarci teologici, giuridici e storici di incomparabile sapienza. Il suo lavoro comparve in una magnifica edizione curata dall’Accademia d’Oropa nel 1950, con la cornice di validi collaboratori quali il presidente del sodalizio dr.Venanzio Sella, il prof. Serafino Dezani dell’Università di Torino, mons. Luigi Quaglia, promotore di Giustizia nell’arcidiocesi torinese, lo stesso cardinale Fossati, arcivescovo che volle tenere a battesimo tale impresa con una pubblica lettera che figura in appendice del volume. 

Le idee “nuove” che la Scuola di Torino ha portato avanti a raggiera, durante e dopo la morte di p. Pera, sono almeno 7, come i sette doni dello Spirito Santo. Le riassumiamo per sommi capi. 

Alcune prove sono le seguenti. A metà agosto 1496, dopo la verifica promossa dal breve del 16 ottobre 1495, papa Alessandro VI offriva a Savonarola la porpora di cardinale. Non si offre la porpora a un eretico, a un disobbediente, a uno scomunicato. 

Alessandro VI protestò apertamente presso il Cardinale di Perugia, quando venne pubblicata la scomunica contro il suo consenso: «omnino praeter mentem suam». Quando Savonarola viene arrestato dagli Arrabbiati di Firenze, che s’erano impadroniti del potere con un colpo di Stato, Alessandro VI ordina ripetutamente che Savonarola gli venisse consegnato a Roma. Minaccia persino l’interdetto a Firenze. Il che vuol dire che Savonarola valeva più di Firenze, che pur da secoli era guelfa e banca del Vaticano. 

Morto Savonarola, Alessandro VI si lamentò presso il nuovo Generale dei domenicani di essere stato ingannato; e in un concistoro dichiarò che avrebbe volentieri iscritto fra Girolamo nell’albo dei Santi. Tutto questo è contestato, per ultimo, da Ridolfi; ma la Scuola di Torino ha risposto per le rime (G. A. Scaltriti, Papa Alessandro VI Borgia, in “Palestra del Clero”, Rovigo, 1984, nn. 13/14). 

Non deve sfuggire l’enorme importanza culturale dei rilevati rapporti tomisti, eckhartiani, savonaroliani, 

per il pensiero del mondo occidentale contemporaneo e per l’attuale incidenza, rilevata anche da scrittori asiatici, sull’Oriente induistico e buddistico, nonché sull’Islam dei grandi mistici di Allah – “il solo Grande” – e dei determinanti commentatori di Aristotele, da Al Kindi ad Averroé «che il gran comento feo». 

In conseguenza la Scuola di Torino si è caratterizzata nel promuovere la causa di glorificazione di Savonarola e Compagni Martiri, come coronamento delle speranze accese dal Vaticano II, sostenendo altresì che da sola tale causa varrebbe più di un Concilio. In ogni caso, sarebbe l’indispensabile premessa per il nuovo Concilio, specialmente se lo si volesse tenere o a Mosca o a Tokyo o in Brasile. 

Al tempo di Savonarola era viva la disputa tra “principato” (o stato tiranno, dato anche come buon tiranno) e “governo civile” (o stato popolare, quasi che lo stato popolare, così detto, coincidesse con la civiltà; categorie che storicamente, quindi non identicamente, corrispondono alle nostre di Stato dittatoriale e di Stato democratico a suffragio universale. Peraltro, come Savonarola non è un precursore della riforma protestante, così non è un antesignano dei diritti dell’uomo, secondo la rivoluzione francese o del primato della classe operaia, secondo il marx-leninismo. 

È d’obbligo il riferimento del messaggio socio-politico-economico di Savonarola all’Apostolato dei Laici quale indicato dal Vaticano II, e alla tradizione mazziniana per quello che di meglio il grande Genovese vedeva nel cattolicesimo del Frate; e alla disputa tra monarchia e repubblica che Savonarola dirime saggiamente nel primo Trattato del Reggimento della città di Firenze, sulla trama del De regimine Principuum dell’Aquinate, indirizzato alla Regina di Cipro il cui titolo, guarda caso, era vantato dai Savoia, ai quali va il merito indiscutibile dell’unitàd’Italia, come avvertì l’Eroe dei Due Mondi. 

C’è un testo, tratto dal Trionfo della Croce di Savonarola, che per l’alta teologia cristocentrica è chiave di tutta la Storia che segretamente anima popoli e nazioni. 

«La congiunzione dell’umana natura nella persona divina è maggiore cosa che non l’unione dell’intelletto a Dio come oggetto. Perciò dopo l’incarnazione di Cristo, gli uomini cominciarono a emergere in modo più evidente e ad aspirare sempre più intensamente alla vera felicità» (Lib. III, cap.VII). 

Questo pensiero, sviluppandosi storicamente, storicizza quanto è dato di leggere nel Commento all’Etica a Nicomaco di San Tommaso, che p. Pera amava rileggere tra le righe di Savonarola. L’uomo ha un fine proprio naturale che si realizza pienamente nell’ordine civile che l’uomo deve raggiungere con scienza civile e arte civile, per usare i termini di San Tommaso, ossia con la politica la quale è scienza principalissima e, tra tutte, la più architettonica (Lib. I, cap. 2). 

La Buona Novella di Cristo dischiude il Regno dei cieli dando potestà all’uomo di divenire simile a Dio; però affinchél’uomo sia perfetto, come persona eterna, come uomo storico, come polis o come societas, secondo che si prenda il modello-atomo dei Greci o quello cosmico dei Romani. 

Sull’onda della Storia che con l’umanesimo e la rinascenza riesumava e già rilanciava tali istanze, il profeta Savonarola afferma che «lo Stato popolare è migliore d’ogni altro in Italia, massimamente se Cristo è suo capo». Perché ne consegue la libertà per tutti che vale piùdell’oro e dell’argento; la dignità cui ogni uomo, degno del nome ha diritto di essere signore nella propria città ricco del proprio lavoro, sufficiente per mantenere la propria famiglia, per coltivare le scienze e le arti, per godersi in campagna la dolce comunione dell’amicizia con gli amici del cuore. 

Questo è scritto in tutte lettere, con coerenza non inferiore al rigore di Machiavelli, nel Reggimento di Firenze, che Savonarola scrive (o abbozza) per invito della Signoria, reputando tale invito non contrario al suo ufficio sacerdotale e consonante alla carità verso la Patria (Proemio al Trattato III, cap. 2). 

Savonarola rifiuta come calunnia l’accusa di volere mettere al bando i nobili per favorire la plebe. Savonarola vuole che ognuno sia vero cristiano o almeno schietto uomo naturale e che, per il bene di tutti, chi più sa e chi più può deve servire il bene di tutti onde la libertà non sia un privi1egio, ma il bene di tutti e di ciascuno (“Scritti apologetici”, in Opera Omnia, pag. 244, lin. 15 ss). 

Nulla di utopico. Il modello civile suggerito da Savonarola venne attuato con scienza propria dai Fiorentini nel 1494, durò un decennio, finché tornò a prevalere il Principato dei Medici. Ma nel 1527, quelli che erano stati i giovani di Savonarola, ora fattisi adulti, insorsero e restaurarono lo stato popolare, nella precisa linea indicata da colui che Santa Caterina de’ Ricci, fiorentina di quella generazione, chiamava l’”invitto Martire”. Soltanto la coalizione di tutti i potenti d’Europa, stretti attorno all’imperatore Carlo V d’Asburgo, e per il tradimento di papa Clemente VI de’ Medici, la Repubblica fu soffocata nel memorabile assedio del 1530, in cui emerse la gloria di Francesco Ferrucci. 

Tutta la critica storica concorda nel riconoscere che con la fine della libertà di Firenze si spegneva la libertà d’Italia. Perciò si spiega come i patrioti più d’avanguardia del Risorgimento guardassero all’assedio di Firenze per riviverne le gesta e ravvivare nel popolo d’Italia le mai spente speranze di una resurrezione: sono i sullodati d’Azeglio e Mazzini, poi Garibaldi che definisce Savonarola «uno dei grandi benefattori dell’umanità», Niccolò Tommaseo, Pasquale Villari, Gino Capponi, il p. Curci, fondatore de “La Civiltà cattolica”. 

Quando la moderna Torino cominciò ad espandersi oltre il “pian del ferro”, ossia la ferrovia Torino-Milano che cingeva la città il Consiglio comunale diede al primo viale che così si disegnava, il nome di Francesco Ferrucci, Condottiero. Firenze ha dato il nome di Francesco Ferrucci al Lungarno; Torino gli ha fatto dono del Pian del Ferro. 

Nulla di utopico, soprattutto dalla più alta visuale della fede, quella a cui il profeta continuamente orienta gli atti umani. Quella fede che vince il mondo e arde nel cuore di chi si è fatto semplice come Dio e libero da ogni male. 

Il capitolo ottavo del Vangelo secondo San Giovanni riassume ad altissimo livello la teologia della storia che il profeta intende con questa Parola del Divino Maestro: «Voi morirete nei vostri peccati se non credete che Io sono» (8, 25). E Savonarola ha ben capito quanto subito dopo Gesù afferma: «La Verità vi farà liberi». Poiché la Verità è Lui, Via e Vita. 

Qui, o Torinesi, «si parrà la vostra nobilitate». L’ottavo giorno della creazione è in atto tra le scene di cartone del tempo che passa. Questa è l’ultima lezione di Savonarola e che la Scuola di Torino tramanda: l’operosa attesa di Gesù che torna sulle nubi del cielo «per fare nuove tutte le cose» (Apoc. 21, 5). 

p. Giacinto Arturo Scaltriti o.p. 

1. Paolo Luotto fu il primo che mise in evidenza come papa Alessandro VI Borgia legittimasse, una volta per tutte, la posizione giuridica di Savonarola, con il breve del 16 ottobre 1495. Con questo breve il Papa accettava le ragioni che Savonarola gli aveva esposte in una lunga lettera del 19 settembre antecedente, e deponeva un piano di verifiche, al quale Savonarola si sottomise umilmente, e che al fine diedero piena ragione al Frate. 
2. Dal carteggio e dai documenti collaterali raccolti e commentati da padre Pera, risultano con chiarezza due verità capitali: a) Savonarola non ha mai disobbedito al Papa e ai suoi Superiori, perché aveva il diritto e anche il dovere di sospendere l’esecuzione degli ordini ricevuti – il che è diverso dal disobbedire – specialmente in forza dell’epicheia che San Tommaso – citato alla lettera da Savonarola – definisce «la norma superiore degli atti umani». Quindi non è una scappatoia o un cavillo, ma la controfirma della solennità del diritto. b) La scomunica di Savonarola è un falso, e un falso in atto pubblico, stilato da un falsario di professione, per conto di una banda di criminali capeggiati da Cesare Borgia. Papa Alessandro VI, che era il padre carnale di Cesare, divenne del tutto succube di costui e lo seguì in tutti i suoi misfatti (Pastor, citato nel lavoro d’Oropa). 
3. Ancora merito di Paolo Luotto, seguito in profondità da p. Pera, è l’avere rilevato come Alessandro VI, nonostante tutto, fosse costantemente guidato da una certa attenzione verso Savonarola, apprezzandone l’intelligenza, sospettandone la santità subendone il carisma profetico. 4. Con tutto ciò la Scuola di Torino non ha voluto minimamente mutare o anche solo mitigare il severo giudizio che la Storia ha proferito circa il pontificato di papa Alessandro VI Borgia. Anzi, la Scuola di Torino ha messo dolorosamente in evidenza altre colpe, le più gravi dal punto di vista pastorale, che il Pastor volutamente ignora o su cui astutamente sorvola, venendo meno alla conclamata oggettività scientifica; e cioè ben tre divorzi concessi indebitamente da Alessandro VI per puri motivi politici e di potere: a sua figlia Lucrezia Borgia, al re di
Francia Luigi XII di Valois, al re di Boemia e d’Ungheria Ladislao; e l’assassinio di Alfonso d’Aragona, erede al trono di Napoli, non essendo possibile un quarto divorzio, del principe stesso ancora da Lucrezia Borgia (G. A. Scaltriti, Luci e ombre del Quattrocento, Editore Fiory, Napoli, 1983, capp. VII, VIII, IX, X). 
5. La Scuola di Torino ha scoperto e messo in evidenza il nesso che esiste tra Maestro Eckhart e Savonarola. Entrambi pervenuti nella linea autentica di San Tommaso d’Aquino e tutti e tre quali veri discepoli di San Domenico che non parlava se non «o con Dio o di Dio»: il famoso Dio di Eckhart, il solo esistente, nella speculazione apofantica; e il non meno famoso Dio di Savonarola, il solo esistente nell’azione teopatica. Il tutto scientificamente provato, con testi alla mano, autenticati, per così dire, da testi identici di Santa Caterina da Siena, loro sorella in bianco e nero, la quale si inserisce storicamente tra i due, come l’altra anima di colui che Essa chiamava con incomparabile dizione «il dolce Spagnolo nostro», vale a dire il “suo” San Domenico di Spagna. 
6. La Scuola savonaroliana di Torino ha pure messo in evidenza come Savonarola sia il termine d’arrivo di quella che può ben definirsi la pre-riforma cattolica, rimasta poi bloccata e infine dimenticata, per due motivi precipui: a) L’improvviso cataclisma del protestantesimo – non improvviso per Savonarola, – e l’altrettanto rapido dilagare del neo-paganesimo. La Chiesa si trovò in salita e dovette cambiare marcia. Però da allora in poi, si parlò soltanto più di controriforma, fino al Vaticano II. b) I1 soffocamento, con il martirio, della fastidiosa voce del profeta Savonarola, sicché quanto egli andava predicando, affinché si compisse nella Chiesa, fu realizzato da Lutero, con mille ragioni, ma con un solo torto, quello cioè di mettersi fuori della Chiesa. 
7. Il Profeta, nel senso cattolico del termine, ha il compito di richiamare concretamente al fine ultimo della salvezza universale gli atti degli uomini, vale a dire la Storia, di cui pertanto il Profeta ha coscienza migliore che qualunque altro. P. Pera ha messo particolarmente in evidenza questo punto da cui deriva l’intuizione profetica dello Stato popolare. La Scuola di Torino ha sottolineato tale aspetto, preceduta in questo da Massimo d’Azeglio, nel suo Niccolòde’Lapi, tanto ammirato da Giuseppe Mazzini. 

 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 27-32.




Riflessione sull’essere, sulla morte e sulla vita di p. Giacinto M. Scaltriti o. p.

Riflessione sull’essere, sulla morte e sulla vita

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 11-16.




 Quando l’ironia è la dimensione dell’anima 

Giorgia Stecher, Quale Nobel Bettina (Premessa di D. Bellezza), Il Vertice libri 

editrice, Palermo, 1986, pagg. 79. 

La colloquialità volutamente disadorna di Giorgia Stecher sembra nascere da impressioni casuali, il tono quasi di canzonatura nella scioltezza rapida del ritmo poetico, ma bastano pochi versi a darci il senso di un rigore mentale che ha le sue radici in una forma mentis delle più severe. 

Nulla di epidermico dunque in questo diario intimo che, forse proprio a causa della sua impietosa asciuttezza, scava fino alle radici dell’essere, sommuove emozioni memorie sentimentali che il piglio dissacrante non rende meno vivi e autentici. 

Il monologo della Stecher si dipana con una limpidezza e un nitore d’immagini quasi provocatori (una sorta d’intrepida sfida) che, a dispetto di chi non saprebbe mai approdarvi senza scadere nella più deprimente banalità, ci restituisce all’essenzialità crudele del vivere un giorno via l’altro, a una realtà spoglia di qualsiasi infingimento, dolente delle sue piaghe, specchio fedele della nostra esistenzialità difficile e amara a cui la Stecher presta sembianze ora desolate ora suadenti, nella suggestione di una narrazione fluida e serrata. Ma può accadere che la scorrevolezza del discorso si frantumi inaspettatamente con un secco e folgorante paradigma di parole, le più semplici all’apparenza, ed eccoci alla resa dei conti, squallide marionette che nessun filo regge e a cui nessuno suggerirà le battute. 

Senza parere dunque il poeta smantella le ragioni spesso risibili e meschine che si celano dietro ogni atto, ogni scelta, ogni umana piccola scelleratezza e lo fa con la forza irresistibile di un’ironia scintillante e nervosa, a cui il verso asciutto e scarno dà una quasi insostenibile evidenza. Sempre più di rado capita, in questa società fracassona e carnevalesca e con l’occhio sempre attento al botteghino, di trovarsi di fronte a una scrittura totalmente e sdegnosamente priva di allettamenti lessicali e di falsi scintillii, spietata nella sua disarmante nudità e perciò stesso carica di molteplici sensi, simile quindi a un gioiello raro che spicchi in una vetrina vuota. Una poesia insolita dunque che nel ritmo veloce e incalzante dà la misura di un itinerario mentale in cui i pensieri convergono nella loro schietta complessità dettando cifre, segni, suoni. C’è in questo straordinario tessuto narrativo (qui si raccontano i volti, i gesti, le voci, le strade, i muri, i corpi) un uso sapientissimo del verbo, mentre ben di rado la Stecher indulge all’aggettivo, quasi rifiutandovisi, con un effetto d’incredibile purezza linguistica al cui interno nulla vi è di superfluo, di lustro, di ozioso, neppure un sospetto di barocchismo poetico, neppure l’ombra di una coloritura romantica, nessuna concessione alla «bella immagine». Una poesia quindi che pur non ricorrendo ad alcun trucco intellettualistico e anzi proprio a causa della sua linearità lascia intravedere un complesso mondo di struggenti emozioni, di pensieri, di idee, di dolore. E lungo i percorsi di questa affascinante trama il poeta altro non è che un giocoliere elegante e raffinato che i fili del discorso recupera da remote distanze snodandoli e riannodandoli secondo geometrie sottili e ariose. La sua passionalità risentita, già trattenuta nella misura del verso: «Posso arrivare ad odiarti / se all’improvviso irrompi / nella mia solitudine… », si stempera nell’ironia (che, lo si è già detto, è il connotato di maggiore spicco della Stecher), in un’ironia di una qualità non sempre facile a definirsi, più vicina, spesso, a un’irrisione scanzonata o a una disperazione allegra (o allegria disperata?) piuttosto che a distaccata malinconia. 

C’è una sorta d’impetuosità nella cadenza spesso precipitosa del racconto poetico che procede – appunto – a perdifiato, adagiandosi a tratti in una musicalità dolcissima e commossa. Si legga, ad esempio, la splendida poesia dedicata alla madre, dal finale insospettatamente drammatico: «C’erano i maribù / nei miei giorni d’infanzia / voli bassi d’aigrette / e uccelli del paradiso favolosi», in cui sembrano aleggiare in una trasparenza d’acquario figure d’incantevole levità. Ma moltissime altre ve ne sarebbero da citare, nelle quali certe lampeggianti immagini ti colgono di sorpresa lasciandoti in uno stupore che è quasi stordimento: «mentre seduto in poltrona / guardi i cari parenti / cogli occhi tondi di chi / la mente tiene a parcheggio / in altri spiazzi». Qui la scelta tutt’altro che casuale di termini di uso spicciolo squarcia i veli dell’innocuità, mettendo a nudo scenari sotterranei, situazioni esistenziali note a chiunque, ma valle a dire in poesia anziché in un discorsetto volgare tra amici, senza trovarti intrappolato in forme e modi sciatti, insulsi e implausibili, specie se – appunto – non si ricorre ai rimedi ingegnosi del manipolatore di parole che crede di sistemare tutto con qualche bell’aggettivo ridondante messo al punto giusto. 

Ebbene la Stecher, con la sua «semplicità» svagata tanto da apparire casuale, illumina di bagliori incandescenti certi dettagli minimi. isolandoli in un cerchio di fiamma, con effetti a dir poco sorprendenti. Quanti altri poeti contemporanei, più o meno noti per le loro fumose acrobazie mentali, riuscirebbero a dare. magari in una sola immagine, in uno scorcio rapido, il senso dell’incombente crudeltà sottesa ad ogni evento o fatto insignificante, ad ogni più informe apparenza? 

Le poesie della Stecher, spoglie e deserte come un’alba fredda, riaccendono memorie, ridestano rimpianti e nostalgie e – strano, no? – c’inchiodano a un presente tanto più minaccioso quanto meno ne scorgiamo le insidie nel suo grigiore compatto e rassicurante. La crudeltà dunque, ci suggerisce il poeta, è nelle cose che ci guardano ferme mentre dentro di noi tutto crolla in schianti silenziosi. ma la vita continua, si capisce. anche se può accaderci di perdere qualche appuntamento: «Cosicché guardo gli altri / procedere spediti / e che bella mostra fanno / che grato tintinnio / tra il metallo cromato / nell’allegra foschia / del polverone!» 

Totale quindi è il suo disinganno di fronte al dissolversi di tutte le speranze, ma c’è come un sorriso di amaro divertimento sospeso tra rigo e rigo, quasi nulla avesse veramente importanza tranne il semplice fatto di vivere (o sopravvivere) tra mestizie e furori, disfatte e rivalse. 

Si vorrebbe aggiungere. a conclusione di queste note, che la singolarità e l’originalità di questa scrittura si trova persino nella scelta del titolo. Quale Nobel Bettina, che sottintende un lungo discorso e che si attanaglia mirabilmente, col suo sarcasmo gentile e desolato, allo stile di tutta la raccolta. 

Isabella Scalfaro 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 52-54.




 QUESTO VOLTO DI TIGRE 

O Dio, sapendo che ci sono cento 
e più bilioni di galassie in giro 
ed in ognuna 
più di cento miliardi d’altre stelle, 
come non aver fede? Ed io potrei 
spiegare un universo come questo 
fantastico, che con i suoi misteri, 
il suo linguaggio 
ed il suo modo d’essere 
va al di là dell’immaginazione? 
lo so 
che nessuno risponde al mio chiamare 
e niente 
indica che il mio grido è stato udito. 
Cerchiamo di pensare: 
nell’universo noi saremmo soli? 
Perché non c’è risposta? 
Siamo forse un errore nel progetto? 
Siamo nel gioco, o siamo di riserva 
per qualcosa più in là, 
chissà se un giorno?… 
Tu non interferisci in questa angoscia? 
O ne approfitti e stai 
a ridere di noi? Non meritiamo 
misericordia? Siamo irrimediabili 
e perduti nel tempo, nella luce, 
nell’ ombra, nelle tenebre, l’ignoto? 
Dimmi, se vero esisti, perché questa 
tua maschera di tigre non si svela 
nell’infinito dei tuoi anni-luce? 
Tu forse hai fruito 
di questo nostro dubbio secolare. 
Forse il mistero di quest’universo 
o il suo miracolo 
sarà il nostro castigo, e noi saremmo 
venuti qui dal cielo per goderci 
il privilegio di svelarlo un dì? 
Con tutto, io so che ancora 
noi non siamo nemmeno all’albeggiare 
del Paradiso in terra … 

Joao Baptista Sayeg 

«L.B .» n. 45, 2007

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 47.




 LA VITA NON È SOGNO 

Guardai il cielo quella notte e vidi 
il passato, cadevano le luci 
fredde di stelle, 
che io non so se esistano davvero 
ovvero se lì ci sia un futuro. 
È assurdo immaginare; ma per loro 
il futuro ero io, nella grandezza 
dell’universo, 
io ch’ero riuscito a intravedere 
nella distanza il tempo e la certezza 
d’una esistenza fisica/reale: 
la vita 
non può essere sogno (forse il sogno esiste?), 
tutto è reale, pure se infinito 
mistero del creato e le sue stelle … 

Joao Baptista Sayeg 

(Trad. di Renzo Mazzone)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 51




VULCANO

Trasparenze smeraldine 
scendono 
in vulcano capriccioso 
risvegliano 
fumi condensati 
sapori antichi 
rapiscono 
lancette corrose 
sensi 
umano oblio 
investono 
presenze incontrollate 
universi surreali. 
Rievocano favori 
tra pareti 
di smania vissuta 
edere 
bambole incantate 
valli profumate. 

Elena Saviano

(da Trasparellze slI/eraLdille. Thule. Palermo. 2001)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 44.




VILLA INCANTATA 

La penombra 
ascolta 
sussurri di foglie stinte 
narrare 
il verde degli anni 
incamminare 
viali alberati 
all’aroma 
di glicini e roseti 
intiepidire 
spoglie animali 
nell’ abbraccio eterno 
zittire 
lo strinire di cicale 
all’ ascolto del poeta. 
La parola 
miscela 
canicola e arsura 
il Gattopardo 
riposa stanchezze scrittori e 
trachettili fatati 
addolciscono 
tele umane 
balli di gnomi 
koboldi e farfalle 
gestiscono segreti. 
La notte si sveglia 
al passare dei palesi 
Raniero, Lucio 
e Papilio 
nel cerchio di Ippocrate 
sottendono conoscenze 
sottratte all’ Ade 
cosparse come cipria 
sulla pochezza del mondo. 

Lucio Piccolo ((da Apis, Pungitopo, Marina di Patti, 2005)