La sindrome di Stendhal 

È nostra intenzione apportare un contributo integrativo alla comprensione e alla terapia della cosiddetta”Sindrome di Stendhal”, ossia della serie di sintomi che possono scatenarsi per l’eccessiva emozione provata di fronte a un capolavoro. illustrata dalla Magherini nel suo libro che porta lo stesso titolo. 

Prenderemo come schema di riferimento la “psicoterapia archetipica” di James Hillman e la critica che egli muove alle categorie di derivazione analitica e agli approcci terapeutici tradizionali. 

Le opere d’arte che inducono alla sindrome invadono, per così dire, “inflazionano” l’osservatore con la loro bellezza estetica. Spiegare, però, lo smarrimento che colpisce l’individuo in termini di riemergere alla coscienza di conflitti latenti, di situazioni familiari irrisolte, di ritorno del rimosso, sembra piuttosto riduttivo sia a livello conoscitivo che terapeutico. Infatti, cosa rappresentano queste opere? Cosa connotano in maniera così violenta da provocare smarrimento. stati confusionali. crisi di pianto. sintomi fisici quali sudorazione. tachicardia. vertigini. angosce e vomito? 

I temi che esse trattano sono per lo più di carattere mitico, religioso, eroico, fiabesco, in una parola: numinoso. Vanno a toccare dimensioni psichiche arcaiche trascendenti le mere esperienze personali. dimensioni “archetipiche”. Muovono grande “commozione. intendendo con Frobenius per commozione un fatto emotivo tale da porre in atto una potenzialità psichica che è in stretto rapporto con la sua determinante fisiologica, (ricordando che psiche e soma hanno un nesso di contemporaneità e non di causalità). 

Per meglio comprendere tali processi appare opportuno rifarsi ad un concetto di inconscio che tenga conto del mitico. del religioso. del numinoso: rifarsi alla Grecia arcaica al fine di riscoprire gli archetipi della nostra mente e della nostra cultura, rileggere la Grecia come metafora del nostro mondo immaginale che ospita gli archetipi sotto forma di dèi. 

Venticinque secoli or sono nel bacino del Mediterraneo si viveva al modo del dio Pan, il cui mondo include: masturbazione, stupro, panico, convulsioni e incubi. Nell’epoca attuale si vive al modo di Cristo, negando o, continuamente mortificando e condannando, le istanze pulsionali. In epoca arcaica si viveva nella dimensione dello straordinario, dell’eccesso, dell’illimitato, dell’inconscio, dell’Es. Ora si vive nella dimensione dell’ordinario, della misura, del limitato, della razionalità, dell’io. 

Nell’antica Grecia la religione olimpica venne via via soppiantando la religione orfica e misterica; alle divinità terrestri, sotterranee e marine delle popolazioni autoctone vennero man mano sovrapponendosi le divinità celesti delle nomadi popolazioni arie che conquistarono la Grecia. La dimensione dionisiaca del sentire e degli istinti andò sempre più affievolendosi per lasciare il posto alla dimensione apollinea con i suoi ideali di equilibrio e di armonia. 

In seguito, vi fu l’avvento di Cristo, della tradizione giudaico-cristiana che ancor più tentò di reprimere e condannare l’istintualità identificando il dio Pan con il diavolo. – 

Cristo è l’opposto di Pan. Mentre l’uno ha la corona di spine, il torace glabro, i piedi trafitti ed è asessuato; l’altro ha le coma, il torace villoso e virile, gli zoccoli, ed è potentemente fallico. Pan rappresenta l’istintualità dirompente, la corporeità; Cristo la spiritualità, la mente, il logos. 

La contrapposizione tra la dimensione di Pan e quella di Cristo parrebbe riflettere la scissione della psiche responsabile di tanti eventi patologici. Tale scissione della dimensione psichica durerà fino al Settecento quando si avrà il primo tentativo di recuperare la libertà degli istinti, di riunire mente e corpo attraverso il libertinaggio che diverrà una filisofia di vita. Seguiranno, però, romanticismo e idealismo che, con le loro caratteristiche superegoiche, soffocheranno le istanze libertine sostituendole con gli ideali di famiglia e amor di patria. 

La psicanalisi, con l’introduzione del concetto di inconscio come sede delle pulsioni, sarà il secondo tentativo libertario di recupero di una concezione unitaria della psiche. Tuttavia il pansessualismo freudiano andrà a scontrarsi con la morale vittoriana dell’epoca che fortemente ne condizionerà lo sviluppo. D’altra parte, la pretesa delle psicanalisi di essere una teoria esaustiva della realtà psichica trova un limite già nelle sue premesse. Infatti il porre la centralità e l’universalità del complesso edipico e lo spiegare tutta la realtà psichica in termini di libido e inconscio personale porta a escluderne tutti gli altri aspetti rappresentati dai simboli. 

Il ridurre il simbolo a segno, a mera espressione della pulsione sessuale, fa perdere di vista l’enorn1e ricchezza di significati che nel simbolo è insita. Sarà poi Jung, con l’introduzione del concetto. di inconscio collettivo come sede degli archetipi che restituirà al simbolo la sua pregnanza riconoscendo ad esso la molteplicità dei suoi significati e le potenzialità terapeutiche di cui eportatore. La concezione junghiana valorizzerà ancor più le funzioni dell’inconscio rispetto a quelle dell’Io. Diversamente da Freud, Jung porrà nell’inconscio e non nell’Io la motivazione a sperimentare per conoscere. L’Io invece sarà deputato ad interpretare, coordinare, dedurre e mettere ordine nell’esperienza. 

Anche a livello terapeutico ne consegue una rivalutazione dell’inconscio rispetto all’Io. Nelle terapie centrate sull’Io è l’interpretazione ad avere il ruolo principale e la parola a costituire l’elemento basilare di comunicazione. Ma la parola nata dall’esigenza di dialogare, comprendere, definire, distinguere, comunicare, ci danna di fatto all’incomunicabilità: il significato che le viene dato da chi parla è diverso da quello attribuitole da chi ascolta. Così nel setting, paziente e terapeuta utilizzano la parola l’uno per tentare di esprimere il proprio disagio psichico, l’altro per diagnosticare e interpretare. La parola è il linguaggio dell’Io, non dell’inconscio. 

Nella terapia junghiana, invece, la comunicazione è veicolata dall’inconscio che si esprime attraverso i simboli. Diversamente dal linguaggio verbale che usa le categorie della logica, il simbolo si esprime attraverso il linguaggio analogico, paradossale. 

I simboli sono produzioni immaginifiche, rappresentazioni indistinte, metaforiche ed enigmatiche della realtà psichica. Il loro significato è unico ed individuale, pur essendo, allo stesso tempo; partecipe di un immaginario universale. Se debitamente utilizzati nel processo terapeutico, essi facilitano la transizione da un atteggiamento o uno stato psicologico ad un altro, dando nuovo senso alla nostra vita. 

La valorizzazione del simbolo come strumento di comunicazione e di cura è ulteriolmente confermata e potenziata dalla “psicologia archetipica” di Hillman, in cui la mitologia assume una posizione centrale. Hillman ha fatto un attento esame delle figure mitologiche e dell’evoluzione che esse hanno subito nella tradizione; si è soffermato sul tipo di immaginazione che queste figure hanno ispirato nel corso della storia – nella letteratura, nell’arte, nella filosofia e nei comportamenti che, neitempi antichi venivano compresi come frutto dell’intervento di Pan, di Artemide, di Dioniso o di Saturno. 

La concezione di Hillman si fonda sul presupposto che ogni patologia sia associabile ad una determinata divinità, i diversi dèi, a suo parere, personificherebbero certe specifiche sindromi archetipiche e allora tra esse potremmo, a ragione, far rientrare la nostra sindrome di Stendhal. Esse appartengono al “mondo immaginale” per dirla alla Corbin, cioè, ad un mondo di immagini specificatamente psichico con le sue strutture, i suoi processi, toni emotivi e raffigurazioni drammatiche: il mondo della psiche e degli archetipi. Tale mondo di immagini rappresenta il tramite fra il mondo personale dell’Io cosciente e il mondo del comportamento istintuale e della vita biologica. 

Il comportamento patologico è, per Hillman, una rappresentazione mitica, una mimests di un modello archetipico. Il mito rivela la psicopatologia come una modalità essenziale alla vita psicologica, ogni archetipo contiene la propria patologia: pathos, la sofferenza, è essenziale alla sua natura non meno dilogos, il suo significato. H1llman sottolinea, inoltre, l’attività creativa della fantasia, l’attività di “creazione dell’anima” che si plasma sui modelli archetipici forniti dalla mitologia. È attraverso l’esame psicologico del processo vitale di questo mondo archetipico così come esso è forgiato dalla fantasia che è possibile cogliere il “significato” specificatamente valido per l’individuo. 

Risulta evidente come ciò ben si differenzi dalle “interpretazioni psicologiche” che, parlando il linguaggio dell’io, non quello della psiche, fanno perdere il significato e la ricchezza di possibilità terapeutiche che il comportamento “patologico” ci offre. Infatti il comportamento è sempre strettamente legato all’immaginale, all’attività della fantasia, e se l’interpretazione blocca la strada alla fantasia blocca anche il processo terapeutico. 

Ritornando alla Grecia antica troviamo conferma dell’impatto delle arti visive sull’anima, nell’atteggiamento originario che il greco antico usava per cogliere il mondo: l’atteggiamento contemplativo, visivo. Di qui il privilegio della vista sugli altri sensi, nonché una svalutazione culturale del mondo dell’azione e del lavoro. Stesso atteggiamento ritroviamo anche nei misteri: solo chi li ha contemplati è “tre volte felice” e l’iniziato si chiama mystes (donde il nome di mistero), perché stringe gli occhi per vedere più lontano (come fa appunto il “miope” – una designazione di identica derivazione linguistica) oppure, secondo un’altra spiegazione, chiude gli occhi del corpo per vedere con quelli dell’anima. 

Pensare e vedere erano. per gran parte, sinonimi. Vedere le opere d’arte è pensarle, è coglierne il profondo significato psichico. Il linguaggio dell’arte è come quello del sogno, come quello del mito e della religione. Anche nell’arte classica, così come nel sogno, la psiche si personifica attraverso figure mitologiche: déi, eroi, ninfe, demoni. 

Ora se l’arte, produttrice di simboli per antonomasia. può scatenare una sindrome con manifestazioni così violente come quelle da noi prese in esame, se essa è capace di determinare una “defaillance” dell’Io che promuove l’emergere degli archetipi dell’inconscio collettivo espressi attraverso i simboli, sarà proprio ai simboli che dovremo appellarci, nella terapia, per metterei in comunicazione con l’inconscio dell’altro. 

Se vogliamo comprendere e curare la sindrome dovremo entrarci in rapporto, entrare nel delirio del paziente utilizzando un linguaggio comune: il linguaggio del simbolo, appunto, il linguaggio del mito. Esso ci offre, infatti, un validissimo strumento di conoscenza: la possibiltà di esprimere affinità con l’altro, di entrare nella sua stessa dimensione psichica laddove invece l’analisi, legata al nosografico, ci porta a evidenziare una rassicurante “diversità” dall’altro etichettato come “patologico”. Si fa una diagnosi di “diverso” perché non si può accettare come propria la patologia. Anche Basaglia sottolineava la necessità di “attraversare il delirio” anziché contrastarlo. 

La sindrome di Stendhal, a nostro parere, non può essere compresa e curata se si considera l’uomo come una congerie di pulsioni più o meno cieche, se si riduce l’analisi delle componenti costitutive dell’essere umano ad una sorta di addizione pulsionale che lo priva della sua dimensione psichica globale. Solo con il recupero di una concezione unitaria della psiche potremo essere in grado di utilizzare l’esplodere della crisi, dello stato confusionale, del panico per curare e rimettere in moto risorse energetiche capaci di far riprendere all’individuo il cammino verso la realizzazione del proprio Sé. 

La recente recrudescenza della sindrome da noi presa in considerazione sembra andare di pari passo con il riemergere, nella nostra epoca, della dimensione dello straordinario, degli eccessi, della violenza, dell’oscenità. È indicativo il fatto che i casi riportati dalla Magherini riguardino maggiormente persone provenienti dai Paesi nordici, Paesi in cui l’elevato senso del sociale ha teso ad uniformare sempre più i comportamenti alle regole del vivere comune condizionando, se non soffocando, la personalità individuale intesa come tendenza formativa della psiche. 

La crisi indotta dalla sindrome può essere letta come espressione della necessità di oltrepassare i limiti dell’ordinario, come aspirazione della trasgressione, alla rottura degli schemi comportamentali abituali, come urgente spinta a riscoprire e realizzare tendenze psichiche profonde. D’altra parte, tuttavia, di solito ciò che si desidera, comportando un cambiamento. La paura crea panico, suscita la dimensione del dio Pan. Allora, nella terapia, la parola che cura è quella che ci fa entrare nella dimensione del dio, è la parola escatologica che permette il riattivarsi del mito inteso come metafora dell’archetipo. Se leggiamo la regressione a comportamenti archetipici che ha luogo nel delirio non semplicemente come tentativo di fuga dalla realtà ma come spunto per la ricerca di nuove vie esistenziali, potremo usare il delirio a fini terapeutici. 

Come i suoi antenati, l’uomo moderno è capace di forgiare miti; il terapeuta allora potrà adoperarsi per far rivivere al paziente il mito, per fargli mettere in scena drammi secolari basati su temi archetipici onde farli emergere alla coscienza e liberarlo dalla loro inflazione; egli svolgerà funzioni di psicopompo: esprimendo affinità con il paziente lo accompagnerà nel suo delirio, sviluppando Eros (e non la neutralità affettiva della psicoanalisi). Per contro il paziente, attraverso i simboli, attraverso l’espressione dell’attività fantastica, immaginale (da imago) della sua anima, potrà esprimere il suo disagio e cogliere il perché della sua sofferenza, il perché della scissione che si è venuta a creare tra i suoi comportamenti e le sue tendenze psichiche profonde. Seguendo la via dell’affinità, dunque, il terapeuta accompagnerà il paziente nel suo cammino dal pathos al logos. 

La rivisitazione della propria personalità di base nella vivida realtà con cui le immagini sono vissute nel delirio, infatti, sarà capace di operare una reintegrazione dell’Io a livelli superiori e di promuovere il risolversi della patologia in una riarmonizzazione tra inconscio e coscienza, tra psiche e soma, dando nuovo dinamismo al cammino verso l’individuazione. 

Laura Viaggio

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pagg. 5-10.




Ionesco e la critica

 Ionesco e la critica 

Ionesco, agli inizi della sua carriera di drammaturgo, era rimasto disorientato e abbastanza risentito per un certo modo di fare critica. Non aveva tutti i torti, perché spesso tutt’altro si fa che criticare un’opera o, nell’insieme, un autore. Criticare, checché ne dicano i professori, è sapere ascoltare con umiltà e mettersi nelle condizioni di sentire ciò che l’autore dice attraverso la sua opera. Così facendo, se si troverà dinanzi a un vero interlocutore, il critico – io direi il lettore – ne sarà affascinato e ne gusterà l’arte, perché quello gli parlerà direttamente al cuore e lo esalterà nell’anima e nel corpo. Al contrario, si troverà come dinanzi a un muto, mancherà ogni tipo di allusione e vano sarà il tentativo di stabilire un qualsiasi dialogo. 

L’autore, capace di tenere vincolato a sé il fruitore, e di esaltarlo, è quello che diciamo vero artista, che – a sua volta – opera nella piena libertà, lavorando la materia grezza della sua fantasia e dei suoi sogni, avendo cura soltanto del suo lavoro. Il vero artista non è affatto come i politici che, già fin dall’inizio, devono essere inquadrati in questo o in quel partito e in quella corrente; egli è veramente libero e opera incurante di ogni movimento o 

corrente, lasciando, appunto, che siano i critici a interessarsene e a perdersi poi in un labirinto di parole vuote. Venditori di fumo, piuttosto che mediatori d’arte tra l’autore e il suo pubblico. 

Ciò che è capitato inizialmente a Ionesco è stata un’incomprensione tale da far gridare allo scandalo. I critici, più disorientati che mai, pensarono all’arrivo di una nuova barbarie, e netto fu il loro rifiuto nei confronti di quello che poi verrà detto «nuovo teatro». E gliene dissero di tutti i colori. Lo presero per un provocatore (in senso negativo – s’intende -, perché positivamente a tutt’altro porta l’opera di Ionesco), per un dilettante e un imbroglione. Ma non mancarono quelli che lo apprezzarono e lo incoraggiarono fin dalla prima rappresentazione di La cantatrice chauve, riconoscendolo come drammaturgo. E André Breton, per fare un nome, andava dicendo e scrivendo che questo tipo di teatro era proprio quello che mancava al surrealismo che già aveva avuto una poesia e una pittura surrealiste, ma non un teatro (1). 

Noi non percorreremo tutta la bibliografia critica, ché sarebbe troppo lungo: ci limiteremo a citare alcuni saMi che riteniamo abbiano contribuito enormemente a far conoscere e a far comprendere l’uomo e l’artista Ionesco. 

Già nel 1954 Jacques Lemarchand. nella sua prefazione al l° volume del Thédtre d’Eugene Ionesco. dopo essere stato dei primi più accaniti sostenitori della Cantatrice chauve. dice di essere attratto da questo genere di teatro che diverte “perché i suoi personaggi assomigliano a noi indistintamente, agli uomini importanti e a me, – di profilo, – ed è proprio il nostro profilo che egli lancia con brio in queste avventure impreviste, imprevedibili in apparenza. e che spesso riconosciamo addirittura più vere di tutte quelle che ci sono potute capitare». E, avvicinandosi alla conclusione, scrive: «Il teatro di Eugenio Ionesco è sicuramente il più strano e il più spontaneo che ci abbia rivelato il nostro dopoguerra… Esso rifiuta la leziosità drammatica. e con tanta naturalezza che non c’è nemmeno verso di scorgere una “provocazione” – ciò che accomoderebbe tutto – in questo rifiuto». 

Lemarchand individua fin dalle prime opere di Ionesco qual è la motivazione profonda del suo teatro, la quale non è certo quella di fare arte per arte, o di rimpiazzare col suo un certo modo di fare teatro. E quello che meravigliò, e stordì i primi spettatori e i critici, fu proprio la mancanza di un riferimento concreto al reale, mentre, a guardarci bene, era la realtà umana nella sua essenza che veniva loro imposta. Lemarchand intuì lo sforzo di Ionesco di voler cogliere nelle sue sfaccettature l’uomo, presentandolo così come egli è, e non nelle sue apparenze fittizie. 

Ionesco porta sulle scene i mali della società di cui l’uomo è lo specchio fedele (la rozza banalità dilagante, il conformismo, la solitudine, la violenza) e in cui si dibatte per trovare una sua identità e tutelarla dalle quotidiane oppressioni della vita e dalle invadenze della materialità che tende a uniformarlo e a renderlo un oggetto. 

È un discorso nuovo, e come tale, ci vorrà tempo prima che venga accettato. Ora, magari, siamo abituati a questo genere di teatro, ma negli anni Cinquanta fu considerato strano, perché diverso in ogni aspetto dai precedenti, e persino dissacrante di una consuetudine teatrale universalmente accettata. Dalla messa in scena dei Sei personaggi in cerca d’autore a quella della Cantatrice chauve erano passati trent’anni e molte cose erano cambiate. Se dal punto di vista prettamente scenico Pirandello aveva trovato soluzioni che verranno attuate e fatte proprie dal «nuovo teatro», e da quello della rappresentazione aveva dato risalto ai personaggi con tutte le loro problematiche. Ionesco opera sul linguaggio, disarticolandolo, e dà grande rilievo agli oggetti. facendo tutto procedere in maniera illogica e priva di un significato apparente. Da qui l’imbarazzo e la difficoltà di capire il testo, da qui anche la taccia di assurdo che questo teatro inizialmente dovette meritarsi. 

Il teatro di Ionesco non solo rompe i ponti con la tradizione, ma pretende che la disposizione dello spettatore sia di uno che rinunci al divertimento fine a se stesso. Insomma, il teatro non è più un posto ove si sciorinano soltanto i panni altrui e la partecipazione è disinteressata, come se non si fosse minimamente toccati dal dramma proposto: esso è divenuto ormai lo specchio della nostra esistenza che costringe a vedere quello che non si vorrebbe, visto che si stenta a riconoscersi in quello che realmente si è. Ma questo ha comportato il non volerlo accettare e ha fatto sì che venisse considerato come assurdo, mentre assurdo non è, se si tiene conto della precarietà della vita odierna. Certo, può sembrare contraddittorio, come lo stesso titolo della Cantatrice chauve, non notando sulla scena una cantante, e tantomeno calva. Lo stesso potremmo dire dell’uomo di oggi che è nella solitudine più nera, nonostante sia più che mai a contatto col suo prossimo e abbia una vita abbastanza frenetica. Egli vive di apparenze e si mostra quello che non è: finge e s’immedesima bene nella sua finzione che a lungo andare lo tradisce, e scoperto, si difende a spada tratta e insiste nella sua testardaggine. Come non si accetta nella vita. non si riconosce nelle rappresentazioni del «nuovo teatro» che, rifuggendo da ogni tipo di sofisticheria drammatica, ce lo presenta nella sua misera nudità. 

Jacques Lemarchand, senza niente indulgere all’amico, riconosce la grande validità della sua opera, e questo suo giudizio troverà – come avremo modo di constatare – riscontro in tutto il teatro ioneschiano. 

Gabriel Marcel è tra quelli che criticheranno negativamente le pièces di Ionesco, specialmente le prime. In un suo saggio apparso nel 1958, La crise du thédtTe et le crepuscule de l’humanisme, considerato che i nuovi drammaturghi 

sono stranieri trapiantati in Francia, parla di « sradicati di cui si potrebbe dire che il pensiero si muove in una specie di terra di nessuno. Un Bechett, un Adamov, un Ionesco, in realtà, vivono ai margini della vita nazionale, quale essa sia, e questo fenomeno di non appartenenza è legato a certi caratteri distintivi della loro opera. Sono dei nuovi arrivati, e con ciò bisogna intendere, non diciamo solamente quello che potrebbe risultare ingannevole, dei diseredati, ma degli uomini che rifiutano ogni eredità… Le opere di questa avanguardia sono in linea di massima espressioni rivelatrici di quella che chiamo qualche volta la coscienza sogghignante». 

L’impressione che si ha a leggere il saggio di G. Marcel è quella di uno che non solo è insofferente a ogni novità, chiuso com’è nell’orto tradizionale, ma che non riconosce all’arte una patente internazionale, facendo differenza e valutando le opere in rapporto al luogo di origine dei singoli autori. Questo è grave in una Francia che predicò la cultura come mezzo di elevazione dei popoli. Vero è che, negli anni a cui ci riferiamo, il nazionalismo era più che mai acceso (lo è tuttora, forse un po’ meno), ma nessuno poteva pensare che si sarebbe arrivati al punto di discriminare autori validissimi che stavano in quel periodo vivificando il teatro. sforzandosi di trovare vie nuove e una nuova credibilità, solo perché stranieri d’origine. 

Gli autori nuovi stavano portando avanti un discorso di rottura con la tradizione, e in questo solo trovavano il loro punto in comune, perché ognuno di essi poi avrebbe sviluppato tematiche proprie; ciò non deve essere considerato motivo di debolezza. bensì pregio e segno di vitalità. 

L’avanguardia degli anni Cinquanta non fu una moda, ma una scelta che in maniera diversa fu portata sino in fondo. Le mode non durano e nel giro di una o due stagioni diventano sorpassate. Le scelte, se sono valide, trovano conferma e si consolidano nel tempo, com’è avvenuto col teatro di Bechett e di altri, Ionesco compreso. i quali – ciascuno a suo modo s’adopereranno a portare sulle scene l’uomo nella sua realtà più profonda, più vera e niente affatto assurda. dando così il via non al “crepuscolo” ma al consolidarsi di un nuovo umanesimo. 

Ionesco non deride l’uomo, ciò che a primo acchito potrebbe sembrare, anche se lo presenta dimesso, trasandato, e apparentemente fuori della normalità, e non fa ironia; se presenta così l’uomo, è perché vuole riportarlo entro i confini dell’umano, da cui si è allontanato. Nuovo don Chisciotte contro i mulini a vento? Forse; intanto, il teatro di Ionesco, dalla prima all’ultima pièce, testimonia la volontà del suo autore di superare l’angusta realtà con una ricerca. condotta in prima persona, tesa a ridare un valore alla vita, tormentata com’è dai mali che s’accompagnano al progresso. 

G. Marcel difende a spada tratta il teatro tradizionale. «Vediamo qui verificarsi il ritorno a una specie di stato bruto. […] uno stato decaduto. […] Il teatro di cui si parla è un prodotto di disassimilazione». E, per dare credito alla sua affermazione, cita un saggio di Ionesco, Espérience du théatre, pubblicato nel febbraio del 1958, dove il drammaturgo, nel vivo della polemica, si lascia prendere la mano da una critica altrettanto pungente contro il teatro tradizionale, non risparmiando nessuno, tenendo conto solo dell’idea che si era fatta. secondo cui, «il teatro non è il linguaggio delle idee», e la sua riuscita consiste nel dare grande risalto agli effetti: «Spingere il teatro al di là di questa zona intermediaria che non è né teatro né letteratura, è restituirlo alla sua funzione, ai suoi confini naturali». E fa il nome di autori più o meno lontani nel tempo. Noi vorremmo solo ricordare che ogni autore vive e risente dello spirito della sua età, per cui, chi viene dopo è sempre avvantaggiato dalla ricerca altrui. A Pirandello (a parte che apporti positivi sono anche negli altri autori), pur accusato di essere troppo discorsivo, possiamo negare il merito di aver rivoluzionato l’arte teatrale? La stessa avanguardia. il «théàtre nouveau» in genere, Ionesco, non gli devono veramente molto? Pirandello, con la prima dei Sei personaggi in cerca d’autore, ebbe la stessa delusione che subirà trent’anni dopo Ionesco con La cantatrice chauve. Poche le presenze, moltissime le reazioni del pubblico e della critica. 

Il nuovo incontra difficoltà a essere accolto; è oggetto di incomprensioni e di tante riserve. come quelle di G. Marcel, che è portato a chiedersi, a un certo punto, perché sta accordando tanto spazio a questo teatro: non si spiega perché tanti spettatori cominciano a seguirlo. E trova la spiegazione nella stanchezza e nella loro capacità di sopportazione, così come avviene in certe riunioni che si protraggono fino a notte inoltrata: «In realtà, non si ha più niente da dire, non se ne può più, ma non si ha neanche il coraggio di separarsi, di fare lo sforzo necessario per uscire, per andare a coricarsi, e allora, si comincia a fare e a dire stupidaggini». Un modo come un altro per uscire da una rigida presa di posizione come questa, in cui il critico si ostina a non volere riconoscere una pur minima validità a un teatro che, nuovo in ogni suo aspetto, ha tutte le qualità che ci vogliono per imporsi e per farsi amare. 

Il teatro di Ionesco, che non ha niente di drammatico, si ascrive nell’ambito della farsa dove il comico più che muovere al riso disorienta perché non si riesce a capire bene l’obiettivo che l’autore vuole raggiungere. Tutto questo fa sì che lo spettatore rimanga fino all’ultimo come sospeso tra la realtà e il sogno, e solo quando tutta la matassa creativa si dipanerà dinanzi ai suoi occhi, allora vi riconoscerà la cruda realtà, spoglia da ogni conformismo, e avrà maggiore consapevolezza del suo io, quell’io che viene meglio preso in considerazione, e non ridicolizzato, come sembra a Marcel, come se Ionesco, lui tanto amante della vita, avesse fatto propria la filosofia del non-essere. 

Tra il giugno e il luglio dello stesso 1958, l’ “Observer” ospitò un acceso dibattito sull’opera di Ionesco. Il punto di partenza di questo dibattito (Ionesco interverrà con due scritti che avremo modo di ricordare più avanti) fu dato da un articolo di Kenneth Tynan dal titolo: «Ionesco: uomo del destino?», dettato dall’ammirazione per il drammaturgo delle Chaises, che proprio in quei giorni venivano rappresentate al Royal Court Theatre di Londra, e dalla meraviglia che il successo andava oltre le aspettative. Quell’ammirazione, da una parte, e questa meraviglia, dall’altra, spingono la Tynan a chiedersi se non ci si trovi proprio dinanzi a un «messia», e dove voglia arrivare l’autore con la sua «evasione dal realismo». 

L’incomunicabilità che è ne Les chaises può non essere condivisa («Questo mondo non è il mio, ma riconosco si tratti di una visione completamente legittima, presentata con molto equilibrio immaginativo e audacia verbale»), ma – sempre secondo K. Tynan – «il pericolo comincia quando lo si presenta come esemplare, come il solo accesso possibile verso il teatro dell’avvenire, – questo lugubre mondo da dove saranno escluse per sempre le eresie umaniste della fede nella logica e della fede nell’uomo». 

Il teatro di Ionesco, allora, più che ora, non poteva non disorientare, perché in queste prime opere effettivamente non si intravvede alcuno spiraglio; è come se ci venissero presentate delle allucinazioni (tra l’altro poco comprensibili e sul filo di un giuoco verbale molto acceso, che alla Tynan sembrano interessare solo Ionesco), le quali costituiscono la premessa di un lungo straziante itinerario 

destinato a essere ulteriormente proseguito. E ciò che apparentemente sembrava interessare soltanto l’autore, a poco a poco riusciva a coinvolgere quanti gli si accostavano, perché in quel fuori del normale, o del reale, c’era una verità latente e troppo inquietante. 

Fa, comunque, piacere notare che già in quegli anni le pièces di Ionesco varcarono i confini e cominciavano a essere conosciute e rappresentate nei teatri europei. Il 1958 è stata la volta di Londra, ma anche dell’Italia, dove, precisamente a Genova, Paolo Poli rappresentò La cantatrice calva per la regia di Aldo Trionfo, e ad Atene. Ciò significò l’interesse crescente verso quest’autore che, partendo da piccoli teatri parigini, si impose all’attenzione di un pubblico sempre più vasto, conquistando i maggiori teatri del mondo. 

Gilles Sandier, scrivendo di Ionesco nel libro Thédtre et combat, del 1970, a un certo punto, riferendosi alle opere successive del drammaturgo, dà risalto alla retorica e al meccanismo allegorico che le caratterizza e nota una recessione, come se Ionesco, preso dall’idea ossessionante della morte, rinnegasse gli elementi costitutivi dell’antiteatro e, in poche parole, ciò su cui poggiava la sua originalità che consisteva in «una concezione tragica del linguaggio, impotente a esprimere sentimenti e pensieri», e continua: «L’universo favoloso e sinistro che la sua comicità di una volta ci rivelava nel quotidiano ha ceduto il posto a un fantastico di scarso valore e senza pericolo». Ionesco, insomma, stando a quanto afferma Sandier, nella nuova fase del suo teatro dice cose già dette, servendosi, però, di un linguaggio più esplicito, cioè, più letterario e meno poetico. 

Abbiamo scritto che Ionesco disorienta. Così ci troviamo dinanzi a una parte della critica che, dimostratasi indifferente e del tutto ingenerosa verso le opere scritte intorno ai primi anni Cinquanta, cominciò a interessarsi di lui da Rhinocéros in poi, mentre, partendo sempre da quest’opera, un’altra parte di essa (noi abbiamo citato Sandier) ritiene, all’opposto, che Ionesco si sia discostato dal suo modo iniziale di fare teatro, facendo registrare in negativo la perdita della spontaneità che era alla base della sua originalità. A scanso di equivoci, va detto che non c’è stato alcun cedimento da parte di Ionesco. Se è vero che inizialmente Ionesco fu spinto dalla necessità di ridare vigore al teatro, è pure vero che la sua non era soltanto ricerca di nuove formule drammatiche, bensì ricerca spirituale, dibattito aperto soprattutto con se stesso prima che con gli altri: una ricerca che gli permetteva di chiarirsi alcune verità elementari e, al tempo stesso, di servirsi d’un linguaggio più semplice e adeguato a esprimere le conquiste del suo animo. Gli stessi gesti, il moltiplicarsi degli oggetti, le allusioni, saranno ancora presenti e sempre con una funzione di grande importanza per la comprensione; nelle pièces successive, magari, non saranno veri e propri oggetti (come nel Roi se meurt le crepe nelle pareti o le notizie diverse e allarmanti che sopraggiungono dall’inesistente regno, o il proliferarsi delle coma in Rhinicérosl. ma siamo nell’ambito di un equivalente che dice lo stesso il degrado dell’uomo e del mondo odierni. Nonostante questo, a cominciare da Macbett, Ionesco riprenderà il tono parodistico delle prime pièces. 

La tematica è sempre la stessa: l’incomunicabilità, la solitudine, il conformismo, la sete di potere che getta nell’imprevedibile e spinge verso la morte e, ancora, la precarietà della vita e il senso della morte, che annientano ogni illusione; temi che, seguendo uno sviluppo circolare, acquistano via via sfumature diverse. ma che riportano al drammaturgo delle prime opere. Segno di estrema coerenza morale oltre che artistica, grazie a cui Ionesco è, a buon diritto, uno dei massimi esponenti della drammaturgia contemporanea.

Salvatore Vecchio

(1) «Voilà ce que nous aurions voulu faire au théàtre. Nous avons eu une poésie surréaliste, une peinture surréaliste, mais nous n’avons pas eu un théàtre surréaliste, et c’était celui-là qu’il nous fallait».

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 17-24.

 




Tempo presente 

Sono qui a guardare 
diamanti sparsi nell’acqua 
che riflettono raggi di sole 
e il mare di Sicilia 
che traduce l’azzurro del cielo. 
Solo il rude profilo dei monti 
nudi di roccia 
nasconde una città che piange i suoi morti. 
Chi sono quei giovani così disperati 
che hanno paura di vivere 
in un mondo di adulti così degradato? 
che marciano in composto silenzio? 
l fantasmi della nostra coscienza!

Romano Cammarata

 

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 47 




Chi sono? 

Chi sono? 
Ragazzi, 
Uno, cento, mille e poi? 
Vediamo scorrere numeri che 
Quantificano entità, 
Ma non ci dicono nulla 
Sulla realtà, sulle identità 
Di questi uno, cento, mille, 
Come i consuntivi dei morti in guerra. 
Perché non cerchiamo da subito queste 
Identità perché possano aiutarci ad 
essere realisticamente vivi, per 
Stabilire da ora un rapporto con 
Questi uno, cento, mille. 
Allora sarà più facile contarli, 
Non solo, ma guardarli, conoscerli, 
Capirli e così non saranno più 
Soltanto uno, cento, mille, 
Ragazzi. 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 46




Ho sognato i miei sogni 

Ho sognato i miei sogni. 
Sogni di un tempo lontano 
eppure necessariamente presente. 
Sogni già fatti sofferti o gioiti, 
persone, magie, gesti d’amore. 
Fantasie confuse al reale 
che si concreta al mattino. 
Mi risveglio? Non so! 
Forse è un cadere nel vuoto 
di una vita assiderata, 
che non appartiene a nessuno 
che ti lega i gesti, comprime le idee 
che subito esauste 
creano soltanto 
un nuovo bisogno di sogno 
un bisogno di sognare i tuoi sogni. 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 45




Magellano ’90 

Avevo pensato 
non sognato 
a oceani d’acqua 
a orizzonti lontani 
a rotte complesse 
per approdi intelligenti. 
Ho ripiegato 
sul piccolo mare 
sul traffico interno 
in circoli chiusi 
con approdi a vista 
scontati con burrasche sperate. 
Oggi governo un traghetto 
con l’unica fatica 
ad ogni approdo 
di voltare le spalle 
per ricominciare 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 44.




Fantasmi a Milano 

Nel cortile cercato 
come un traguardo 
Visitato nel buio 
ho trovato i fantasmi 
Lungo il muro su per le scale 
Figure aggrinzite sbiadite 
Di compagni lasciati un giorno lontano 
eppure presente 
Li ho visti necessariamente immobili 
Come il ricordo 
Ho teso la mano non per toccarli. 
Un saluto? Nemmeno 
Cari fantasmi del vecchio cortile! 
Via Commenda ancora ci unisce 
Per come eravamo coi segni sul viso 
Per quello che siamo coi segni nel cuore. 
Viviamo lontani un giorno diverso 
Stasera tornato tra voi 
Col volto bagnato da lacrime e pioggia 
Grido nel buio la mia redenzione. 
Vi lascio leggero con ignoto sorriso 
Appeso a quel muro 
C’è l’altro fantasma di quel che ero io. 

Romano Cammarata

Da Spiragli, anno IV, n.3, 1992, pag. 43




Un sogno

Ho aperto le porte del canile municipale e 
cani senza collare mi sono venuti dietro. 
Poi sono andato allo zoo e ho aperto le 
gabbie, i cancelli e leoni, tigri, orsi e uccelli di 
tutte le specie sono usciti liberi e si sono uniti 
ai cani e insieme siamo andati davanti alle 
scuole e tutti i bambini saltando e ridendo si 
sono confusi con gli animali, poi siamo passati 
vicino alle caserme e i giovani sono usciti senza 
fucili per unirsi a noi, e donne e uomini 
lasciavano le macchine in mezzo alla strada e 
tutti andavamo liberi nella luce per fondare la 
città del sole. 
D’un tratto uomini vestiti di bianco, 
piangendo, mi hanno fermato, portato dentro 
una stanza e legato ad un letto e ora mandano 
via gli uccelli che, dalla finestra aperta, vengono 
a farmi compagnia. 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 42

 




Torno all’isola 

I ricordi 
uccelli migratori 
tornano sempre 
all’origine 
attraverso l’oceano 
della vita passata 
correnti invisibili 
tessono lo spazio 
rotte segnate dal destino 
tomo all’isola 
circondata di ignoto 
cerco un tempo 
uno spazio 
vecchie dimensioni 
Illuso 
il tempo rotolando 
beffardo sulla mia vita 
ha dato a me 
nuova dimensione. 
Non trovo i margini 
i nomi delle cose 
non trovo i simboli 
miti realtà 
e disperato cerco 
vane coordinate 
(Per dare colore al tempo’, pag. 51) 

Romno Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 41




 J. Ben Jelloun, L’écrivain public. Seuil, Parigi, 1983, pagg. 197. 

Lo scrittore marocchino Jelloun, di lingua francese, in questo romanzo, che – come ogni altro suo scritto – sa della sua terra, parla per quelli che in senso letterario del termine .non hanno la parola•. 

Non affronta, quindi, argomenti pubblici, ma espone al pubblico dei suoi possibili lettori la sua esperienza, la sua vita, le città dell’infanzia, la sua infanzia con le privazioni di quell’età, volendo così manifestare qualcosa che, in fondo, non è soltanto vissuta dall’Autore, ma di ognuno di noi, non sempre in grado di palesare agli altri i propri sentimenti e le proprie sensazioni. 

Ugo Carruba