BIAGIO SCRIMIZZI, ViZiai supra ‘na nuvula, Ila Palma, Palermo, 2007. Prefazione di Pino Giacopelli.

La capacità espressiva del dialetto e la poesia di Biagio Scrimizzi 

Biagio Scrimizzi, programmista-regista alla Rai, autore di testi radiofonici e televisivi, ma soprattutto poeta innamorato della parola e affascinato dal ritmo, ci conferma con questa silloge la capacità del dialetto di raccontare ed esprimere, in modo autentico e persuasivo, mondi geografici e interiori. Ci si chiede allora: ma di che cosa parlano queste poesie? L’uso del dialetto potrebbe, infatti, fare pensare a descrizioni ed evocazioni di luoghi, storie, sentimenti radicati nella Sicilia di Scrimizzi. Invece no. O meglio, sì ma in misura assai contenuta. I temi su cui sono prevalentemente incentrate queste poesie sono la natura, gli affetti e i ricordi, la personale visione del mondo del poeta. A una prima lettura ci si rende conto che il poeta va diritto al cuore dei sentimenti universali di ogni tempo; va oltre i confini del luogo natio senza prescinderne, senza abbandonare il viatico materno, primigenio, la salda piattaforma da cui scrutare e leggere il mondo, esprimendolo e infine comunicandolo. Un mondo ampio, perciò, e un dialetto che ci conduce nella lingua transazionale della poesia. Lo sguardo al cielo, all’orizzonte (i versi di questa silloge sono ali di vento, nuvole) potremmo anche dire, e i piedi ben piantati in terra: la stessa che lo ha originato e nutrito. 

Qua e là, poi, oltre a un susseguirsi di immagini e colori di suoni, scenari naturali colti nella loro dinamicità, nel poeta si fa largo quel filo allusivo a lui così congeniale, con cui riesce a stabilire un vincolo affettivo di comunicazione con gli altri. Ne sono spia testi come funci l’autunnu, Unni li to paroli, Aprili chi mori, La cannata tu sì, dove con una concentrazione straordinaria, la condizione umana ci viene offerta con una intensità poetica e figurativa raggelante e sublime al tempo stesso. 

La scrittura di Scrimizzi è sobria ed essenziale, vi s’intuisce un lungo lavoro di selezione e sottrazione; la sobrietà dei versi sembra rispecchiare quella del poeta, il suo forte senso etico, qua e là affiora, parimenti a una serietà di fondo che nasce, probabilmente, più da un sentimento tragico della vita che da un senso ilare o gioioso. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 61-62.




ANNA MAIDA ADRAGNA, Spremute di limone. I racconti di Vallebianca, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a Palma, Palermo – Sao Paulo.

«Si cunta e si raccunta» e il lettore diventa personaggio del racconto 

«Si cunta e si raccunta …» è il refrain di un nuovo libro della scrittrice palermitana Anna Maida Adragna, che ha già al suo attivo, come poetessa, ben dieci pubblicazioni. 

Spremute di limoni, questo il titolo della raccolta di racconti che presentano con sapiente ironia uno spaccato di vita vissuta a Vallebianca, borgata immaginaria di una città mediterranea, caratterizzata da una intensiva produzione di agrumeti, in un arco di tempo che risale fino ai primi del novecento. Sono trentacinque racconti straripanti di sicilianità. 

Basta aprire a caso una pagina di questo volume ed ecco diffondersi un gradevole profumo di limone, protagonista sempre implicito, spremuto con mani abili e affabili, che riproduce metaforicamente, essendo tra gli agrumi quello che produce contemporaneamente frutti e fiori in tutte le stagioni, un percorso all’indietro che si rinnova nello scorrere del tempo e della memoria. C’è il ritorno ai gesti semplici che fanno grande la vita, filosofia genuina alla base della felicità a cui ambisce ogni creatura umana. 

Basta pensare alla serenità di Saro e Giovanna, i due coniugi che in modo più o meno diretto sono i veri protagonisti dell’intera raccolta, presentati come i due autentici supervecchi contenti e felici anche della loro età avanzata, perché «vuoi dire che non siamo morti giovani». Le loro vicende si intrecciano, in un carosello di situazioni sempre efficacemente delineate in chiave satirica, a quelle di personaggi senza dubbio originali, come ad esempio lo stravagante Tano, debole di mente, guarito grazie alla misteriosa sparizione di un orologio. 

Il racconto per Anna Maida Adragna ha una forza liberatrice e purificatoria, e trova la sua più perfetta espressione in una prosa poetica leggera ed elegante, dove tutto non è quello che sembra e dove l’epilogo si trova solo alla fine del viaggio. È la «storiella» che si raccontava un tempo, seduti a tavola, provando meraviglia, ansia, sensazioni : «Le risate allora costavano poco e condivano riccamente lo scorrere del quotidiano.» Echi lontani di memoria, frammenti di un vissuto personale che generosamente l’ autrice ci regala, conducendoci nei salotti di un’altra epoca, dove odori e sapori si fondono in una perfetta sintesi, dove tenui colori di vita ne compongono un quadro dolcemente pieno di emozione. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 55.




ANNA BELLINA ALESSANDRO, Diario impertinente, collana di narrativa «Meridiana», Ila Palma, Palermo, 2007. 

 Questo Diario impertinente è la quarta prova letteraria di Anna Bellina Alessandro, già autrice delle sillogi liriche Anna e Anna (a due voci, con la Maida Adragna), Ho toccato la corda pazza dell‘amore, e di una raccolta di poesie in dialetto siciliano, Caminu di la vita. È un diario scritto in punta di penna, in uno stile lineare, semplice e al tempo stesso raffinato, intimo ma anche razionale, che incuriosisce, intriga, fa riflettere e apre al dialogo. 

Fin dalle prime pagine, colpisce lo sforzo di ricordare, di non voler dimenticare nulla: felicità, attese, gioventù,sorrisi, emozioni, morte e pianto; e ancora, come sostiene l’autrice, abbracci e qualche schiaffo che la vita le ha dato. Tutto custodito come in uno scrigno prezioso segretamente chiuso che ora l’autrice apre al lettore per condividere «i cari anni della sua infanzia; anni insostituibili, impareggiabili: sono i giganti immobili del suo pensiero, il rifugio, il relax, il pozzo incantato da cui attingere acqua limpida, mani fresche da poggiare sulla fronte che scotta». 

C’è, in questo Diario, l’autrice bambina, vagabonda del pensiero, che guarda il mondo con gli occhi curiosi e attenti, con la disinvoltura frutto di una felice ingenuità, con l’anima lieta e gioiosa delle cose semplici e belle, con il coraggio di affrontare situazioni di ogni tipo. C’è la donna che inizia a capire che la vita è tutta un senso, il senso di viverla in tutti i suoi passaggi, il senso dato dall’amore che lei definisce «il contagio sano di un sentimento, che ha un’immunità ben delineata». Quell’amore puro e semplice fatto di calorose e piacevoli lettere ora sostituite dagli sms sterili e freddi, privi d’attesa, orfani di personalità. C’è ancora la moglie che si scopre a volte impotente e sconvolta, la mamma che si sente indifesa da un mondo ora pieno di indifferenza, ma non smarrita perché comunque la «vita rimane così bella e con amore la voglio possedere follemente, pur sapendo che da ogni finestra non si può vedere tutto un panorama. Mi accontento di ciò che possono guardare i miei occhi sempre bruciati di amore per il bello». C’è anche la nonna preoccupata per i giovani che rifiutano sia la realtà che i sogni e ancora più tristemente la speranza. 

L’autrice ci porta ad acute riflessioni sui valori attuali; un mondo sfasciato, fatto di invidia e distruzione, indifferenza e ignoranza, che l’autrice definisce una cella la cui chiave si è perduta. Quale allora la chiave per aprirla? Bisogna, dice la Bellina, recuperare la coscienza, perché è proprio la carenza di questo dono che ci ha traditi, annullandoci. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 60-61.




INVENZIONE DELLA NOTTE 

Io da questo silenzio, io dal buio 
costruisco la notte, 
la mia notte privata ed esclusiva. 
Inventare le stelle a me non serve, 
esse nascono e brillano per sé. 
A mezzanotte una luna triste 
all’orizzonte mostra la sua faccia 
d’argento, ed io 
sento un brivido in me. 
Una lacrima scende dai miei occhi. 

Horta Anderson Braga

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




 Incomunicazione / 2 

È mia compagna questa lampadina 
anche se fredda 
e fa luce per me con ironia, 
mi rischiara ma è falsa: mi rivela 
poveri arredi 
che ri vestono e adornano il mio nulla. 
Colora l’apparenza delle cose 
appena, mentre cerco di scoprire 
invano 
il mistero che ho presentito altrove. 

Anderson Braga Horta 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




 HAICAI 

Tremò la notte 
e cadde di repente 
dalla mano sinistra del divino. 
Cercare è realizzarsi. 
Trovare il senso delle cose è chiudere 
ad una ad una tutte le finestre. 

Anderson Braga Horta 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




ERANO COME CREATURE UMANE

Erano certe formiche grosse d’un colore rosso-scuro. Infestavano la mia scrivania. Temetti che potessero recare 
seri danni alle mie carte e ai libri. Per giunta, avevano temibili aculei. Corsi ai rimedi spargendo veleno nei punti strategici. 
Una sera le trovai ammucchiate in un circolo piccolo ma compatto, in mezzo al tavolo. 
Erano come ragazzini attorno a un giocattolo. 
Confabulavano? Discutevano la situazione? Erano come creature umane. 
E il veleno, il veleno infallibile che avevo sparso ben bene in tutta la stanza? … Ero disperato. Oggi, al ricordo di quel che combinai, non so perché, penso a Pearl
Harbour. 
Le attaccai. Le pestai. La feci finita con quella razza. Esaurii tutte le imprecazioni. Ma erano come ragazzini attorno a un giocattolo. 

(da «Livro na rua», n. 2, Thesaurus, Brasilia)
Horta Anderson Braga 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 53.




PER EMANUELE LA STRETTA DELLA MANO

La tua stretta della mano
è dolciura di paradiso, è festa
e riso. Nel mio animo
nascono margherite (-ite
-ite a raccoglierle) e sfumare
di sole e
di viole.
Da te a me passano centinaia
per non dire migliaia
di piccolissime Deità,
le quali mi riempiono tutto il corpo
che scintilla e brilla
in un vero
arcobaleno lunare
che in sé agglomera antichissime memorie
e il cuore ne gode
in una sconfinata infinità.
Giuseppe Bonaviri

(L’arcobaleno lunare, Palermo, Thule, 2009)

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 16.




Natura e colore in Luigi Marcucci 

Nel complesso e contraddittorio panorama dell’arte contemporanea una posizione di non secondaria importanza acquista la presenza di Luigi Marcucci, un nome, come tanti, sconosciuto al grosso pubblico, ma noto a quanti apprezzano il tracciato preciso dei suoi paesaggi, ispirati ad un impressionismo tutto soggettivo, lontano dai rigidi schemi d’una logorante, asfittica ed esausta tradizione scolastica. 

Parlare, oggi, d’un artista che coltiva con amore e dedizione la pittura e avanza sicuro nel complesso mondo dell’arte contemporanea, è estremamente arduo e difficile e per i risvolti non sempre chiari e per le antinomie che ogni corrente e manifestazione necessariamente genera e vivifica. Ma parlare di Luigi Marcucci, che non pochi hanno apprezzato in diverse mostre e concorsi di pittura, consente al critico, anche più severo ed esigente, di leggere manifestazioni artistiche non ancora inquinate da esperienze e da ispirazioni pseudoculturali che. in un impasto cromatico non sempre chiaro e lineare, rivelano spesso mancanza di senso artistico e di ispirazione e, soprattutto, di gusto non solo nella scelta, ma anche nella trattazione degli argomenti; permette a quanti amano il paesaggio e la natura morta di immergersi in un’idillica campagna ancora vergine, dove l’uomo ritrova per un attimo se stesso, in stretto contatto con la parte più intima della sua psiche. 

Queste componenti, primarie per l’aggettivazione d’un complesso e, sovente, indecifrabile mondo interiore, da cui prende vita e via ogni movimento esteriore, sottendono un’accurata ricerca. sceverando quanto non è pertinente con i moti propri della psiche colta nella sua diacronica realizzazione. La lettura e scelta dei temi è dettata dal moto interiore, cui sono legate vicende ed esigenze che, non di rado, rimangono oscure allo stesso operatore finché non realizza con il suo linguaggio quanto urge e travaglia il SUO spirito creativo. È, questo, quanto si può leggere nella pittura di Luigi Marcucci, che alterna a periodi di pacata riflessione momenti d’impulsiva e rapida realizzazione, con tratti sicuri e incisivi tendenti a innervare e rendere immediatamente leggibili gli incontrollati moti d’una natura non ancora doma dal razionalismo di schemi precostituiti. 

Lo studio accurato del vero, esaminato con impressione ed esattezza quasi fotografica, offre all’Artista una tavolozza piena di cromie, che, ora calde, ora tenue, ora violente si fissano sulla tela di getto, filtrate da un’innata sensibilità, avvezza ad avvertire anche le sfumature più impercettibili. Nascono così i meravigliosi paesaggi, che si colgono al primo chiarore d’un frizzante mattino di novembre o nell’impercettibile penombra della sera o nelle assolate giornate agostane. Nel rendere l’esatta volumetria delle case l’Artista si ispira, per lo più, all’Ottocento italiano, senza legarsi ad una corrente o ad un maestro preciso. Tutto è mediato dal contatto continuo con l’ambiente, vissuto sempre con drammatica concentrazione, e quando il paesaggio sfuma nelle tenui nebbie mattutine e quando evoca la selvaggia solitudine di distese inondate di luce. I morbidi contrasti tonali, che inondano l’opera e disvelano, in volumi tendenti verso reali punti focali, costituiti, per lo più, da chiese o cascine con i segni tangibili della laboriosità e presenza umana, rivelano l’intenso travaglio interiore: la luce soffusa di tenui paesaggi tipicamente virgiliani, che, vibranti di intensi e vigorosi contrasti tonali, ammorbiditi da un’equilibrata fuga d’alberi e case, trasmettono viva la sensazione d’una ricerca di un pacato equilibrio sempre teso alla sublimazione di una realtà che, dominata e sconvolta dalla contingenza, si presenta allettante nelle sue periodiche e necessarie evoluzioni. 

Si legge nell’opera pittorica di Luigi Marcucci un equilibrato sviluppo diacronico della tematica propria di un’indole spontaneamente e naturalmente portata alla riflessione sui più autentici valori della vita: non a caso nelle opere espressivamente più mature e più vive per la solita impostazione e rappresentazione figurale e volumetrica, il punto focale è rappresentato dalla chiesa, dalla cascina o dalla sofferta espressione del Cristo flagellato o dallo sguardo perduto nel nulla d’un anziano che attende appoggiato alla balaustra o al balcone ciò che non verrà più: la vita. Proprio in questo punto, in cui convergono e in cui dipartono dense sintesi di travagliata meditazione, le coordinate che sfociano nell’affermazione inconscia del Principio regolatore e dell’esistenza e dell’ispirazione. 

Nell’opera di Luigi Marcucci domina la complessa e sofferta affermazione della dimensione umana, che, sottesa al luminoso colore d’un ricco impasto cromatico, svela un profondo travaglio interiore, non sempre appagato, ma dominata da sentimento e intelligenza. La materia, trasfigurata dall’ispirazione, ricrea effetti propri d’una sensibilità ignota alle elucubrazioni accademiche su problemi pseudoesistenziali, che rendono l’opera pressocché illeggibile e indecifrabile per la sua collocazione fuori dei limiti dianoetici facilmente accessibili. 

Un discorso a parte meritano le nature morte, nelle quali Marcucci riesce a cogliere la straordinaria capacità esecutiva e inventiva, unitamente alla bravura d’interpretare frammenti di natura con una sensibilità e partecipazione pregne d’intenso lirismo. Stilisticamente e coloristicamente ineccepibili, i pezzi di natura morta si impongono per la capacità di svolgere un discorso narratologico mediante una sintassi scarna ed essenziale, basata su linee quasi impercettibili che i diversi volumi, soli o affiancati, emanano con intensità cattivante. Se nei paesaggi e nella struttura iconografica traspare qualche incertezza e durezza. avvertibili immediatamente grazie alla sicurezza del tracciato, nella natura morta Luigi Marcucci realizza con maggior semplicità e con immediatezza un discorso completo. I motivi vengono trattati senza retorica, senza gli orpelli d’un accademismo asfittico, per permettere al fruitore di raccogliere con un colpo d’occhio il complesso mondo interiore dell’uomo e dell’artista. Il discorso, allora, diviene più semplice e stilisticamente più accattivante. Percorrendo questa strada, più che nei paesaggi e nelle rappresentazioni iconografiche. Luigi Marcucci può raggiungere vertici difficilmente eguagliabili per la purezza formale e stilistica con cui esegue quanto l’ispirazione gli detta e impone di realizzare. 

Antonio Orazio Bologna

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 57-59




G. Scursi, Liber carminum

Dopo circa quattro secoli di silenzio, è tornato alla luce, ad opera di uno studioso, che da anni sta profondendo le sue energie alla riscoperta ed alla valorizzazione della cultura fiorita nella parte meridionale dell’Italia nei secoli XVI e XVII, ed in particolar modo della Calabria, l’opera completa di Giandomenico Scursi, forse l’ultimo epigono dell’umanesimo e rinascimento napoletano e meridionale in genere. Di Scursi, medico e poeta, aveva in un paio di occasioni soltanto accennato Vito Capialbi, che, nella prima metà dell’800, parlando di avvenimenti e personaggi di Vibo Valentia, ne riportava due brevi carmi di non ignobile fattura. 

La scoperta del manoscritto autografo, cui nei tempi successivi al Capialbi, non si era data eccessiva importanza, e si credeva addirittura perduto, è opera di G. Scalamandrè. Questi, come si è detto, da tempo si sta dedicando alla scoperta ed alla valorizzazione di poeti ed uomini di cultura fioriti in Calabria nei secoli XVI e XVII; e, prima che gli venisse tra le mani il codice inedito di Scursi, si è a lungo occupato di Domenico Pizzimenti, un altro eminente personaggio di Vibo Valentia, alla cui influenza, che risaliva al magistero del Minturno, Scursi deve molto della sua formazione culturale e poetica. L’ ambiente era piccolo e facili le influenze. 

L’ editore, però, non ha fatto solo opera di trascrizione ed edizione del codice; ma ha profuso impegno ed energie per collocare nella giusta luce un poeta ancora ignoto. Con pazienti e faticose ricerche in archivi pubblici e privati, in biblioteche ed opere di coetanei e conterranei, ha tracciato nell’introduzione un quadro vivo e scientificamente ineccepibile dell’ambiente di Vibo Valentia e di Napoli, dove Scursi ha trascorso gli anni più importanti della sua giovinezza e vi ha assimilato quella cultura che rendeva la città partenopea un centro di primissimo piano e meta preferita di artisti e poeti .. 

Oltre all’ambiente del paese natio, allora un centro ricco e fiorente e commercialmente e culturalmente, Scursi è stato suggestionato soprattutto dal fascino della cultura napoletana, dove ancora viva era l’eco del Pontano e del Sannazzaro. Ma prima di dedicarsi alla lettura ed allo studio di così grandi umanisti, Scursi aveva già una buona conoscenza della poesia latina: Virgilio, Ovidio, Tibullo, Properzio e Marziale sono continuamente presenti nei carmi del poeta calabrese. 

I CV Carmi che Scursi ha affidato al suo manoscritto sono vari, nel contenuto, nell’ispirazione e nella fattura: risentono dei diversi stati d’animo del poeta, dell’occasione e, soprattutto, della persona cui sono dedicati. La loro lettura, comunque è scorrevole e piacevole. 

Un accenno particolare merita la traduzione, condotta con gusto e fedeltà, senza indulgere a rifacimenti personali anche là dove l’intervento dello studioso sarebbe stato necessario. Oltre al verso latino, molto spesso di squisita fattura, il lettore può parimenti ammirare la traduzione, opera poetica anch’essa, non indegna di Scursi. 

Orazio Antonio Bologna