Entusiasmo sconvolto
Erano trascorsi tre mesi dacché ero uscito dal seminario. Avevo terminato gli studi teologici ed aspettavo una sistemazione: a ventiquattro anni, dopo aver dedicato il periodo più bello della vita agli altri, ne avevo diritto. L’avvenire, però, non si presentava roseo e le condizioni in cui versavo non erano, certo, le più adatte a prospeltam1i un futuro quale avevo desiderato e sognato durante i tredici anni trascorsi in seminario: l’ordinazione sacerdotale, fissata per il primo di agosto, era stata sospesa a mia insaputa.
Volendo essere al corrente delle cause che avevano determinato una decisione tanto repentina ed inattesa quanto grave, il vescovo mi rispose: “Non siete voi, figliuolo, a scegliere: è la Chiesa che vi chiama; e voi dovete rispondere. Non siete voi a proporre, ma la Chiesa, io, a decidere. Aspettate. Potranno passare due, tre, quattro mesi, forse un anno. È un periodo di prova che voglio da voi. Lo chiedo io. lo chiede la Chiesa, lo chiede Cristo. È lo spirito del Concilio, questo”.
La risolutezza, con cui pronunciò le ultime parole, mi fecero capire che non c’era da sperare se non che la ‘tempesta si calmasse.
“Sono stati spediti tanti inviti, eccellenza … “, sibilai con un fil di voce, temendo di infastidirlo e di scatenare una reazione difficilmente contenibile. Tirò un sospiro profondo; avrebbe voluto investirmi con una valanga d’improperi, ma si frenava e controllava come non mai, come potei intuire dal rumore dei denti stretti e dalla labbra nervosamente compresse. “Trovate una scusa qualunque. Sapete scrivere bene, voi. Vi dilettate di letteratura e, come mi è parso di capire, le parole non vi mancano”, disse e continuò con amara ironia: “Inviate una poesia, magari. .. “.
“Va bene”, risposi a fior di labbra. “Aspetterò come vuole il Concilio”. Baciai l’anello ed uscii senza chiedere la benedizione, cui teneva più della riverenza e della genuf1essione. Il vescovo divenne più cupo e nervoso; avrebbe voluto rimproverarmi, e l’occasione era buona, ma si controllò, chiudendo di nuovo violentemente le labbra.
Fu un colpo terribile. Crollarono tutti i sogni e le illusioni che mi avevano creato in seminario e mi trovai in fondo ad un baratro. Dimenticai di colpo il discorsetto preparato per chiarire alcune divergenze e malintesi. Ero confuso e, quando lasciai il vescovo, la mente era schiacciata da due pensieri, uno più orribile dell’altro: resistere o dimettermi.
“Io mi dimetto!” fu la prima reazione mormorata a denti stretti, mentre chiudevo la porta dell’anticamera. Attraversando una lunga sala riccamente tappezzata, ove su panche addossate alle pareti era gente in attesa d’essere ricevuta, incominciai un utopistico soliloquio ed una furibonda e spietata requisitoria contro il vescovo e quanti avevano, con calunnie e frecciatine, contribuito alla inattesa e drammatica decisione. Quando non riuscii a trovare una parola adatta per dipingere quel viso ipocritamente atteggiato ad un affettato pietismo e quegli occhi grifagni penetranti come lame, che avevo appena lasciato nello studio tappezzato di damasco rosso, ove, con semplicità e pacatezza mi era stato creato un dramma ed un trauma difficilmente guaribile, fui assalito da un altro pensiero, più terribile del precedente: ” Gli invitati… Mille partecipazioni… Un paese in attesa. Quanti soldi sprecati e gettati al vento!”.
Camminavo adagio, trascinando i piedi sul pavimento di marmo levigato, lucido e cerato. Quanti erano ad attendere mi guardavano con una certa pietà: e, arguendo dal mio stato quanto il vescovo mi aveva detto, guardandosi negli occhi, mormoravano, tentennando la testa: “Povero giovane…… Il mio dramma aveva fatto il giro della diocesi, come potei desumere dallo sguardo dei preti lì presenti. Quegli stessi, che qualche giorno addietro, in occasione del diaconato, mi avevano osannato e festeggiato, non mi degnarono d’uno sguardo e d’una parola. Il loro silenzio e il sorriso malizioso con cui mi seguirono fino all’uscita mi fecero sentire un verme, un essere spregevole, reo eli non so quale delitto. Quelli, certo, non erano santi: di tutti conoscevo episodi poco edificanti, che, probabilmente, non erano giunti all’orecchio del vescovo.
Mentre scendevo le scale di mam10, fui assalito da un altro pensiero, che m’inchiodò dov’ero, sospeso tra un gradino e l’altro: “E gli invitati che verranno per il primo di agosto dove li metto? Questo, forse, il vescovo non lo sa”.
Mi venne il capogiro, la borsa mi cadde di mano e si fermò sul pianerottolo, a pochi gradini da me. Mi accasciai sulla ringhiera di marmo e, con la faccia tra le mani, immaginavo lo scontento degli invitati: alcuni avevano anticipato, altri posticipato le ferie, altri vi avevano rinunciato.
Ero sommerso da questi ed altri pensieri, quando mi sentii scuotere per un braccio: “Se non stai bene, vattene al manicomio, così non metti nei pasticci chi non c’entra! Giacché ci sei” sappi che il vescovo ti ha sospeso l’ordinazione. Ora puoi riflettere di più e dedicarti alla fotografia, al disegno, alla musica, all’eloquenza, alla letteratura… Sappi che tutto questo è indegno per un prete. A riguardo il Concilio parla chiaro”.
Come scosso da un lungo sonno, distinsi appena i lineamenti di quel prete, cercando di ricordame il nome. Finsi di non sentire e, senza rispondere, continuai a scendere lentamente le scale.
Saliva allora una ragazza, pallida, emaciata, con le labbra livide e gli occhi incavati. I capelli, lunghi e spioventi sul petto ansimante, coprivano abbondantemente i seni appena abbozzati e compressi sotto una maglietta scura, semitrasparente, Raccolse la borsa, me la porse e, tendendomi la mano, sospirò: “Sono ammalata.. , Ho fame”.
“Non darle niente e mandala via!”, sentii urlare dalla cima della scala. Solo allora conobbi il prete che mi aveva scosso e mi impediva di aver compassione d’un’infelice, forse, più di me , Mentre frugavo in tasca, fissai a lungo quegli occhi tristi, che seguivano il prete allontanarsi imprecando.
“È il prete più cattivo, egoista ed avaro che io conosca. Non mi ha dato mai nulla e mi odia”, disse traendo un sospiro. Spostò i capelli vezzosamente sulle spalle e soggiunse: “Se non vi sentite bene, appoggiatevi a me. È inutile che vada dagli altri preti: lì sono tutti uguali, a cominciare dal vescovo. Eppure la domenica raccolgono le offerte per gli affamati della città”.
Le poche parole bisbigliate tra un sospiro e l’altro mi sollevarono e gettarono nell’animo un raggio di speranza, Non ero solo a soffrire in questo mondo: avevo incontrato una creatura più infelice di me.
Conoscevo bene quel prete: era stato il mio professore di lettere alle medie, era un saccente così presuntuoso che, nonostante i principi cristiani, avevo odiato profondamente. In quel triste momento mi vennero in mente tutte le bacchettate ricevute sulle mani, soprattutto quando avevo i geloni e mi facevano male. Per le sue torture passava per il professore più severo e formativo. Durante tutti gli anni delle scuole medie, nonostante sgobbassi maledettamente, per una parola mormorata e una battuta fuori posto, non mi aveva dato mai la soddisfazione d’essere promosso a giugno. Voleva che abbandonassi gli studi e che andassi via dal seminario. La sua avversione nei miei riguardi era tale che, quando giungeva
il mio turno, pur di non vedermi, si sceglieva di persona i chierichetti, che dovevano servirlo mentre celebrava la Santa Messa. Per me, allora, era un’umiliazione gravissima, anche perché in classe, davanti a tutti i compagni, faceva notare e metteva alla berlina tutti quelli che, secondo lui, erano i miei difetti. Ma avevo un carattere forte e sopportavo tutto in silenzio.
Feci cadere in mano alla ragazza le poche monetine che avevo e soggiunsi: “Adesso non ho più un centesimo, neppure per tornare a casa”.
“Grazie”, disse, diventando rossa in viso. Mi fissò per un attimo stupita ed andò via, scendendo lentamente.
Al pensiero di preparare altri stampati per avvisare gli invitati, di comperare altri francobolli e disimpegnare quanto già impegnato, mi sentivo impazzire. “Ha ragione Dante di subissarli tutti nell’inferno! Che razza infame!”, mormorai frenando un singhiozzo. In tasca non avevo soldi e quei pochi a casa non potevano essere utilizzati: li avevamo chiesti in prestito e dovevamo restituirli. Provai non poca vergogna ed imbarazzo nel trovarmi in quell’ingresso lussuoso e tornare nella mia povera casa, dove aspettavano in ansia i miei genitori, che avevano affrontato già troppi ed enormi sacrifici. A mezzogiorno o a sera, a casa si mangiava una sola volta e, dopo il primo piatto, il pasto era finito. La carne si mangiava solo se moriva qualche gallina e tre volte all’anno: a Natale, a Pasqua e durante la festa del Protettore. I contadini allora conducevano una vita molto misera e la farne era sempre in agguato.
Con un bagliore improvviso, mi si presentò davanti agli occhi una giornata della vita che mi attendeva: sacrifici, umiliazione, farne.
La mattina, quando il sole sorgeva e il vescovo si alzava, io ero già stanco di raccogliere covoni e spighe, di caricare carri di fieno, di paglia e di letame, di zappare. A mezzogiorno, dopo una stentata colazione di pane nero indurito al sole, dovevo raccogliere lumachini per pescare le anguille. La sera, dopo cena, mentre i miei compagni di seminario ed il vescovo sazi e spensierati si intrattenevano davanti al televisore fino a tarda notte sprofondati in soffici poltrone, io studiavo fino a che cadevo addormentato sui libri.
Il vescovo, questo, non lo sapeva ed il Concilio non lo aveva suggellato.
Antonio Orazio Bologna
Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 61-64