Dopo la notte 

di Araujo

Albeggia. È intenso il luccichìo del sole. 

Respirare, vedere 

e nel rimescolìo dei sentimenti 

si risvegliano i dubbi tumultuosi. 

È forse questa l’ora cui si addice 

rimescolare il fondo delle notti 

bianche? 

La nostalgia, se intensa, è dolorosa 

sànguina ed ora 

che la mia età s’è fatta più matura, 

la sensibilità e i desideri 

dell’impossibile 

mi lasciano affogare con un nodo 

di lacrime. 

Forse mi sono immersa in acque fonde 

sin dalle prime luci? 

Rita de Cássia Fernandes Araújo* 

(vers. it. di Renzo Mazzone) 

da Por detrá das gavetas (2008) 

* Rita de Cássia Fernandes Araújo, poetessa brasiliana del Ceará del secondo Novecento, è autrice delle raccolte liriche: Cores (1984), Essêcia (1987), Sementes (1990), Unguentos (1991), Cartas ao Anjo da Guarda (1997), Mulher e terra (2000), Manga Madura (2004), Por detrá das gavetas (2008). 

da “Spiragli”, 2010, n. 1 – Antologia 




Pervigilium Veneris

Scritto presumibilmente tra il II e il III sec. d. C. da un Anonimo siciliano, pubblichiamo il «Pervigilium Veneris» nella versione di Mauro Pisini, gentilmente concessaci. Il poemetto in versi tetrametri trocaici è uno splendido esempio di poesia novella in cui, pur confluendo diversi apporti (Lucrezio, Virgilio, Catullo), l’autore dimostra di possedere una non comune personalità poetica e una nobiltà di sentire difficili da riscontrare in altri poeti di quel periodo. C’è nel poemetto un forte senso della vita e della natura, e il bisogno di partecipare e non essere esclusi da Amore che tutto prende e a cui nessuno può restare indifferente. E questo bisogno è bellamente reso dalla capacità che l’Anonimo poeta ha di creare le immagini e di metterle in risalto attraverso gli abili giochi verbali e lo stesso ritornello che imprimono musicalità e leggerezza a tutto il componimento. 

LA VEGLIA DI VENERE 

È l’inizio di primavera, è già primavera di canto: a primavera è nato il mondo, a primavera concordano gli amori, a primavera si accoppiano gli uccelli e il bosco scioglie la sua chioma grazie alle piogge che lo fecondano. Domani, colei che tesse gli amori intreccerà, tra le ombre degli alberi, verdi capanne con ramoscelli di mirto; domani, Dione, assisa in trono, pronuncerà le sue leggi. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 
In quel tempo, il mare, con il sangue caduto dal cielo, creò da un pugno di spuma, tra le schiere azzurre degli dei e dei cavalli a due zampe, Dione nata dalle acque marine. 
Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

È lei che veste la stagione più luminosa di gemme scintillanti e preme perché diventino nodi turgidi, i bocci aperti al soffio del Favonio, è lei che sparge acque vive di lucida rugiada, lasciate cadere dall’aria della notte. Quelle lacrime brillano e tremano per il peso che le spinge a terra: ogni goccia, con la sua perla, tende in basso, ma trattiene la caduta. Ecco, la porpora dei fiori ha svelato il suo pudore: quell’umore che le stelle disperdono nelle notti serene, all’ alba, ha scoperto i seni virginei da sotto il peplo, umido di brina. È lei che ha ordinato alle rose, ancora vergini, di andare, al mattino, incontro al loro sposo, lei creata dal sangue di Cipride e dai baci di Amore, dalle gemme, dalle fiamme, dalle porpore del sole, non si vergognerà, domani, di sciogliere il suo rossore, nascosto sotto la veste di fuoco, sposa in virtù di un’unica promessa. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

La dea, in persona, ha comandato alle Ninfe di andare nel bosco di mirto, il fanciullo accompagna le vergini, tuttavia, non si può credere che Amore resti in ozio, se avrà portato con sé le frecce. Comunque, andate, o Ninfe, Amore ha deposto le armi, ora, non può colpire. Ha l’ordine di andare inerme, ha l’ordine di andare nudo, per non recare danno né con l’arco né con le frecce e neppure con il fuoco. Però attente, o Ninfe, perché Cupido è bello: Amore è tutto in armi, proprio quando è nudo. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

«Venere, con uguale rispetto, manda a te noi vergini. Di una sola cosa ti preghiamo: concedi, o vergine Delia, che il bosco sacro non sia macchiato dal sangue delle fiere uccise. Lei stessa vorrebbe chiederti questo, se potesse piegare il tuo pudore, e vorrebbe che tu venissi, se ciò fosse permesso a una vergine. Allora, per tre notti di festa, vedresti danzare nelle tue valli, tra corone di fiori e capanne di mirti, i loro cori uniti ai capi di un unico gregge. Non mancherà né Cerere né Bacco né il dio dei poeti. La notte non deve essere sprecata, ma vissuta come una lunga veglia di canti: nel bosco regni Dione, tu, Delia, ritìrati.» 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

La dea ha dato ordine di innalzare un palco con i fiori di Ibla: da lì, detterà le sue leggi, intorno siederanno le Grazie. Tu, Ibla, mostra tutti i fiori e ciò che la primavera ha donato, tu, Ibla, indossa il tuo abito di gemme, tanto grande, quanto la pianura dell’Etna. Saranno qui le vergini dei campi, le vergini dei monti e quelle che abitano i boschi, le sacre radure, le sorgenti. A tutte la madre del fanciullo alato ha ordinato di prendere il proprio posto e diffidare di Amore, ora che è nudo. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 
«… Conceda le ombre più verdi ai fiori appena nati … » 

Domani, sarà il giorno in cui Etere celebrò per primo le sue nozze e, affinché Giove potesse creare i raccolti con le piogge di primavera, l’acqua della vita penetrò il seno della nobile sposa, perché, unita al suo corpo potente, nutrisse ogni seme. Così, con il respiro che tutto penetra e con la forza che nasconde in sé, ella governa, poiché è madre, il sangue e il cuore delle cose tanto da infondere la sua potenza in ogni luogo, attraverso i canali per cui passano i semi. Questo ordinò, perché il mondo conoscesse la via della vita. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

È Venere che ha portato i discendenti dei Troiani tra i Latini, è Venere che ha dato in sposa al figlio la vergine di Laurento e, ora, dà a Marte la vergine pudica sottratta all’ ara. È Venere che ha propiziato le nozze tra Romulei e Sabini, da cui generò Ramni e Quiriti e, per la prole dei posteri di Romolo, Cesare, padre e nipote. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Il piacere feconda la campagna, la campagna sente Venere: Amore stesso, figlio di Dione, si dice sia nato in campagna. Mentre la terra lo dava alla luce, lei lo strinse al seno e lo fece crescere tra i baci delicati dei fiori. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Ecco, sotto le ginestre, i tori già adagiano il fianco, tutti sono protetti dai loro patti d’amore. Ecco capri e pecore insieme, ecco gli uccelli canori, cui la dea ha imposto di non tacere. Anche i cigni loquaci mormorano negli stagni, con canto rauco, cui fa eco, all’ombra di un pioppo, la fanciulla di Tereo, tanto che i sentimenti d’amore sembrano essere cantati da un suono dolce, melodioso e diresti che perfino sua sorella non si debba lamentare del marito barbaro. Quella canta, noi restiamo in silenzio. Quando verrà la mia primavera? Quando farò come la rondine e potrò smettere di tacere? A causa del silenzio ho perso la mia Musa e Febo non mi guarda più. Così, anche Amicla, poiché taceva, fu uccisa dal silenzio. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Mauro Pisini

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 27-29.




Pace e pacifismo nell’età augustea 

La storia dell’ antica Roma, già a partire dalle sue origini, fu una storia di avvenimenti bellici. 

La guerra costituì la cifra identificativa della società romana, lo status belli, pressocchè permanente, costringeva continuamente ogni cittadino valido ad indossare le armi per la conservazione di Roma. Il legame indissolubile tra il civis romanus e lo Stato faceva quindi del campo di battaglia il momento per eccellenza in cui dimostrare la propria virtus. La storia degli antichi romani fu intessuta di episodi di coraggio militare e di devozione verso la patria: Orazio Codite, Muzio Scevola, Attilio Regolo solo per citarne alcuni, tutti attestanti il fatto che per l’antico romano fosse “dulce et decorum pro patria mori1”. Le prime guerre combattute dai romani furono di difesa, esse furono causate dalla pressione esterna e dal desiderio dei romani di conservare la propria identità, poi si aggiunsero le mire espansionistiche ed imperialiste: dalla data della mitica fondazione (753 a. C.) alla fine del II secolo a. C. Roma, di guerra in guerra, di vittoria in vittoria, diventò la “caput mundi”. Ma già nell’ultimo scorcio del II secolo a.C. la situazione si modificò: a contatto con le mollezze dell ‘Oriente e con il “Bello” dei greci, i romani cominciarono ad amare il benessere, il lusso ed a sentire la guerra come qualcosa di estraneo. Ad acuire questa situazione fu, nel corso del I secolo a.C. l’aggiungersi di guerre civili a quelle esterne, le guerre fratricide spinsero infatti la maggior parte dei romani a deprecare la guerra e ad anelare la pace. Nell’ incipit del De rerum natura Lucrezio chiede a Venere di fungere da intermediaria fra il mondo umano ed il dio della guerra, Marte, perchè soltanto la “genetrix Aeneadum” avrebbe potuto procurare ai romani una pace serena. Ma fu soprattutto nell’ultimo scorcio di repubblica che gli intellettuali, interpretando il comune malcontento, sottolinearono il loro distacco dallo Stato e vagheggiarono paradisi di pace. Virgilio, nell’ ecloga I, trasferisce nel microcosmo bucolico il dramma delle guerre civili, l’impius miles e il barbarus entrano in possesso delle altrui terre ben coltivate: “ecco fino a qual punto la discordia civile ha spinto i miseri cittadini2” . Analogamente Orazio, nell’ epodo VII, definisce i cittadini “sce1esti”, perchè ancora una volta corrono ad indossare le armi e sposano la causa della guerra fratricida. Dall’impossibilità di realizzare una serena pax nell’Urbs, emerge un diffuso desiderio di fuga, di necessità di rinnovamento e di una palingenesi. Nell’epodo delle “isole fortunate”, Orazio invita la pars melior dei cittadini ad una fuga dal reale, ad una sorta di esilio volontario collettivo nelle isole dei beati. Il messaggio di Orazio è cupamente pessimista (altera iam teritur bellis civili bus aetas3), il repubblicano deluso non vede alcuno spiraglio di speranza attorno a sé e fa una proposta disperata: fuggire via dalla patria per raggiungere le terre incontaminate dove è perenne l’età dell’oro. Più ottimista è Virgilio nella quarta egloga in cui si profetizza la nascita di un puer messianico che avrebbe riportato in Italia la pace e l’età dell’oro. Questo utopico ritorno dell’età dell’oro, (iam redeunt Saturnia regna), motivo topico nella letteratura di quei tempi, e la profetica annunciazione della venuta di 

1 – Orazio, Carmina, libro III, 2, v. 13. 

2 – Virgilio, Ecloga I, vv. 71-72. 

3 – Orazio, Epodo XVI, v. 1

un nuovo “magnus ordo saeclorum4” riflette la speranza di pace (poi disattesa) riposta nell’ accordo di Brindisi e la fiducia nella possibilità di riscatto da una situazione di corruzione e di guerra. 

Tale fiducia si trasformò in un dato di fatto dopo la vittoria aziaca. Il princeps Ottaviano Augusto si propose ai cittadini come il restauratore di antichi valori etico-religiosi e come colui che aveva saputo mettere fine al “furor” delle guerre civili ed aveva realizzato la “pax parta victoriis”. Lo stesso Augusto nelle Res gestae, si vantò di avere chiuso per ben tre volte il tempio di Giano Quirino che “prima che io nascessi dalla fondazione di Roma, rimase chiuso due volte in tutto5”. La pax augustea divenne uno slogan politico di cui si fecero interpreti in maniera particolare, gli intellettuali del circolo mecenaziano. Augusto, infatti, ben consapevole dell’importanza delle lettere al fine di orientare la mentalità e di creare intorno a sé consenso, cercò in ogni modo di garantire una produzione letteraria in sintonia con l’ideologia dominante. C’è da dire che questo non gli costò grandi sforzi, visto che il suo programma di restaurazione morale e di generale pacificazione era molto gradito ai romani, desiderosi solo di uscire dall’epoca delle guerre civili. Quella di Virgilio o di Orazio non fu però piaggeria, ma reale e sentita condivisione di un programma. Nell’ Eneide virgiliana la pax augustea è intesa come punto di arrivo di un doloroso6, ma necessario, periodo di guerra, termine fatale voluto dal destino, secondo la solenne formulazione di Anchise nel libro VI dell’ Eneide:”regere imperio populos….. pacique imponere morem7″. Nel libro I dell’ Eneide è Giove in persona a profetizzare la missione di Roma e la venuta di uno “Iulius” grazie al quale cesseranno le guerre:”posate allor le guerre, il fiero tempo s’addolcirà: la Fè candida e Vesta, Quirino col fratel Remo daranno leggi, saran con ferrei serrami chiuse le dure porte della Guerra; dentro il Furor bieco, assiso sopra l’armi crudeli e avvinto a tergo da cento bronzei ceppi, orribilmente fremerà con la bocca sanguinosa8″. Efficace ed icastica è questa immagine del Furor, personificazione della guerra, incatenato e rabbioso su cui vince la Pax voluta dal princeps Augusto. Nella rassegna degli eroi del libro VI, Virgilio paragona Augusto a Saturno, la lunga pace e la grande prosperità del principato augusteo appaiono agli occhi del poeta la realizzazione di quell’età dell’oro di cui si vagheggiava il ritorno nell’ecloga IV. Augusto è quindi il rifondatore dell’aurea aetas, in questa immagine leggendaria si cela tutta l’ammirazione di Virgilio per il principe: “Questo è l’uomo che ti senti promettere, l’Augusto Cesare, figlio del Divo, che fonderà di nuovo il secol d’oro nel Lazio per i campi regnati un tempo da Saturno9” . La celebrazione dell’ impero augusteo 

ricorre ancora nella chiusa del libro VIII. La descrizione dello scudo di Enea del libro suddetto diventa una lezione di storia romana e completa l’esaltazione dell’impero di Augusto che proprio negli episodi e nei personaggi esemplari dell’antichità cerca le sue radici. Al centro del mitico scudo c’è la rappresentazione della battaglia di Azio, l’evento che segna l’ascesa definitiva del grande Augusto, chiudendo il capitolo sanguinoso della storia di Roma e dando inizio ad un lungo periodo di pace. 

4 – Virgilio, Ecloga IV, v. 5. 

5 – Res gestae Augusti, 13. 

6 – Cfr. L. Canali, L’essenza dei romani, Virgilio. 

7 – Virgilio, Eneide, libro VI, vv. 851-852. 

8 – Virgilio, Eneide, libro I, vv. 291-296. 

9 – Virgilio, Eneide, libro VI, vv. 791-794. 

Anche nella produzione letteraria “impegnata” di Orazio, ricorrono i motivi 

dell ‘esaltazione della pax e dei miti dell’età augustea. 

La rivendicazione, in più circostanze, della , da parte del poeta venosino, non lascia dubbi che le sue espressioni di stima per il princeps che ricorrono nelle odi ci vili e nel Carmen speculare nascano da una sincera ammirazione per l’ uomo, a cui va ascritto a merito il ristabilimento della pace e lo sforzo di rendere migliore la società romana. Esemplificativa, a tal proposito, è l’ode XV del libro, IV testo in cui sono presenti tutti i temi che furono al centro dell ‘ ideologia del principato: la maestà dell’ impero, il ritorno alle virtù degli antichi, la rifondazione morale, la pace interna ed esterna: “tua, Caesar, aetas …. vacuum duellis Ianum Quirini clausit10”. Il poeta ormai è libero dall ‘angoscia e dalle apprensioni per la res publica e come l’ara pacis augustae che si stava proprio allora erigendo, anche questo carme è un “monumento” riconoscente alla pace. Anche se in alcuni passi Orazio cede alle convenzioni ed alle “menzogne11” del regime, non si può negare che il poeta esprima sentitamente la certezza che la pace instaurata da Augusto sarà garanzia di potenza e gloria imperitura per Roma. Il tema ricorre ancora nel Carmen speculare che, più che come inno religioso, va letto in chiave politica, come adesione totale al programma politico di Augusto ed alla pax da lui ristabilita. L’auspicio virgiliano del ritorno dell ‘età dell ‘oro per Orazio si è adesso concretizzato, l’età augustea ha portato “Fede e Pace e Onore, il Pudor prisco e la Virtù negletta12”. Augusto viene dipinto come colui che ha ristabilito la pace interna e che difende Roma dai nemici esterni: “già per mare e per terra teme il Medo la sua man e le latine scuri; già Sciti ed Indi pur testé ribelli, chiedono leggi”. Agli occhi del poeta venosino, indubbiamente, l’effetto più positivo che l’avvento del princeps aveva recato a Roma, dopo tanti anni di guerre civili, era la pace. Essa era per Orazio il presupposto necessario perché il mondo fatto di sereni campi e cristallini ruscelli potesse sussistere. Il tema dell’ aspirazione alla pax, pur se con toni e finalità diverse, ritorna anche nella produzione elegiaca di età augustea. L’elegiaco Tibullo, poco favorevole ad Augusto, esprime una sentita deprecazione delle guerre e degli impegni militari, la guerra gli appare come una sventura terribile e senza rimedio: “quis fuit horrendos primus qui protulit enses?13”. Il poeta vagheggia nei suoi versi una vita modesta e serena (me mea paupertas vita traducat inerti), vita di cui la violenza della guerra è la negazione. Quello espresso da Tibullo è un pacifismo agreste, egli celebra la Candida Pax dei campi, l’unica a consentire la serenità della vita e la realizzazione del sogno d’amore. Pur non essendo allineato alla politica augustea, Tibullo esprime opportunamente le istanze di pace e di serenità proprie di quel periodo, alle quali va aggiunto un influsso ineludibile della tradizione epicurea. La stessa vocazione alla pace ricorre nei versi dell’elegiaco Properzio, interamente occupato nella propria vita sentimentale, che lo porta al ripudio di ogni impegno militare. In entrambi gli elegiaci si riscontra l’attacco nei confronti della guerra considerata come mezzo per arricchirsi: “divitis hoc vitium est auri14”, afferma Tibullo, e analogamente per Properzio è l’invisum aurum la molla che spinge i milites ad 

10 – Orazio, Carmina, libro IV, 15, vv. 8-9. 

11 – Cfr. Mocchino in Odi ed Epodi, Milano, 1942. 

12 – Orazio, Carmen saeculare, vv. 53-56. 

13 – Tibullo, Elegie, libro I, 10, v. 1. 

14 – Tibullo, Elegie, libro I, 10, v. 7.

imbracciare le armi. Properzio spoglia delle motivazioni ideali la spinta alla guerra, svelandone la vera matrice: l’avaritia. Egli si sente invece vocato all’amore, alla pace, il suo ideale di vita lo porta a deprecare qualsiasi forma di bellicismo: “pacis Amor deus est, pacem veneramur amantes: stant mihi cum domina proelia dura mea15”. Pur facendo parte dell’ entourage augusteo il poeta non canta i valori che la propaganda ufficiale voleva vedere esaltati, perchè gli manca una coscienza civile. Ma, come in tutti gli altri intellettuali di quell’ epoca, ricorre anche nella sua produzione letteraria il motivo della pax. 

Un motivo topico che, con caratteristiche e toni di versi, costituì senz’ altro la palese espressione di una pressante e comunemente diffusa istanza. 

Anna Maria Angileri 

15 – Properzio, Elegie, libro III, 5, vv. 1-2.




 Oggetti irreparabili, oggetti irrecuperabili

Sono note a tutti le elaborazioni psicoanalitiche che a partire da Lutto e melanconia di Sigmund Freud (1915) hanno consentito di penetrare sempre più in profondità i meccanismi inconsci che sottendono l’emergere di sindromi depressive. 

Ricordiamo i notevoli bisogni di dipendenza e l’accentuata ambivalenza collegati a tratti fondamentali della personalità: la scarsa tolleranza nei confronti fondamentali della personalità: la scarsa tolleranza nei confronti delle frustrazioni; il riattivarsi, a causa della regressione, di posizioni psicoaffettive analoghe a quelle primariamente sperimentate dal lattante nel secondo semestre di vita: la disposizione basica reversiva all’interno delle pulsioni di morte; l’insorgenza di profondi sentimenti di colpa; l’intervento di fattori psicodinamici collegabili alla necessità di autopunizione, espiazione, purificazione, propiziazione. 

A proposito dell’approccio integrato in psichiatria, va sottolineato che a causa di una perdita reale o immaginaria, parziale o totale. di oggetti significativi esterni o intemalizzati. o ancora a perdita di parti appartenenti al Sé corporeo o al Sé psichico, il depresso è una persona che si dimostra particolarmente incapace di ritrovare oggetti sui quali riversare le cariche libidiche di cui ancora dispone. Con altre parole possiamo affermare che il depresso vive una particolare incapacità a gioire di ciò che è ancora vivo e recuperabile piuttosto che il continuare a disperarsi per ciò che è morto o irrecuperabile. 

È suddetta incapacità, spesso ripetitiva e a volte esasperata, stigmatizzabile con la metafora mors mea-mors tua, a costringere il depresso a relazionarsi con le persone che gli stanno a fianco così come un naufrago che non sapendo nuotare si aggrappa all’eventuale soccorritore in modo tale da fargli però rischiare di trascinarlo con sé in fondo al mare, realizzando una condizione che è sintetizzabile con la metafora mors tua-mors mea. 

Gli accentuati sentimenti di impotenza e di impraticabilità terapeutica, pertanto la frustrazione che spesso deve tollerare il curante, qualora sia disposto ad entrare in una relazione sufficientemente profonda con il depresso, sono relativi all’intervento delle dinamiche sopra accennate. 

Di conseguenza possiamo affennare che l’interumano su cui si fonda e si sviluppa il processo psicoterapeutico viene continuamente svalorizzato dal bisogno del depresso che l’altro sia talmente idealizzabile ed onnipotente da assumere le dimensioni sovrumane dell’angelo salvatore, piuttosto che quelle più realistiche del buon salvagente. 

Probabilmente tutto ciò costringe il terapeuta ad aggrapparsi a sua volta ai propri potentati: i modelli teorici di riferimento, le scuole formative di appartenenza, la fannaterapeutica sempre più avanzata ed altodosata. 

Come sostiene Franco Fomari, «azioni terapeutiche di natura psichica partecipano ad ogni rapporto terapeutico, anche quando si tratti di una terapia puramente medicamentosa•. Ma è chiaro che una scelta terapeutica esclusivamente medicamentosa, quale può essere praticata da curanti eccessivamente biologisti, rischia di trattare una parte come se costituisse il tutto e di affrontare il sintomo come se si trattasse di una causa, perdendo di vista l’interezza e la complessità del processo psicopatologico. 

Ma v’è ancor più. Dal momento in cui attribuiamo alla sostanza medicamentosa 

la capacità principale di alleviare o sanare il dolore e il sentimento di vuoto o di svuotamento conseguenti alla perdita, trascuriamo il fatto fondamentale che è l’elemento interumano, che è determinante nel processo psicopatologico, a costituirsi quale fattore basico nel processo terapeutico, quale relazione significativa medico-paziente, anche allorquando la relazione avviene nella forma più semplificata e meno coinvolta quale il limitarsi a prescrivere un farmaco, per il fatto che suddetto gesto assume il valore forte di offerta partecipe all’altro il cui bisogno di aiuto è stato compreso. 

Scrive Nietzsche in Geneologia della morale: “Soltanto quello che non cessa di dolorare resta nella memoria.; ne deriva che il dolore costituisce il più potente coadiuvante della memoria. 

Sin dall’antichità si è fatto ricorso all’uso di sostanze allo scopo di attenuare il dolore e favorire l’oblio. 

Stupendi i versi di Omero nel descrivere il comportamento di Elena, preoccupata con l’arrivo di Telemaco a Sparta del riverberare doloroso in Menelao delle vicende personali che avevano dato avvio alla guerra di Troia. 

“Allora pensò un’altra cosa Elena, nata da Zeus: 

nel vino di cui essi bevevano gettò rapida un farmaco. 

che fuga il dolore e !’ira. il ricordo di tutti i malanni. 

Chi !’ingoiava una volta mischiato dentro il cratere. 

non avrebbe versato lacrime dalle guance, quel giorno, 

neanche se gli fosse morta la madre o il padre, 

neanche se gli avessero ucciso davanti, col bronzo, 

i! fratello o suo figlio e lui avesse visto cogli occhi. 

Tali rimedi e1Ticaci possedeva la figlia di Zeus”. 

Ma il dolore quale situazione limite, da cui pertanto nessuno è escluso, quale significato assume nell’esperienzialità umana? 

Albert Camus nel suo scritto Il mito di Sisifo sostiene: -Le cause di un suicidio sono molte e, in linea generale, le più appariscenti non sono state le più efficaci . Raramente – ma tuttavia l’ipotesi non è esclusa – ci si uccide per riflessione. Ciò che scatena la crisi è quasi sempre incontrollabile. I giornali parlano spesso di ‘dispiaceri intimi’ o di ‘malattia incurabile’. Queste spiegazioni possono essere accettate, ma bisognerebbe sapere se, quello stesso giorno, un amico di quel disperato non gli abbia parlato in tono indifferente. In tal caso quegli è il colpevole poiché il suo atteggiamento può bastare a far precipitare tutti i rancori e la stanchezza ancora in sospensione». 

Nel romanzo I Dolori del giovane Werther Goethe ci fa sentire la tragica condizione del protagonista allorché nel momento di massima disperazione sembra dominato dal prorompere delle pulsioni distruttive. come appare dall’ultima lettera destinata all’amata: -Sì, Lotte, perché dovrei tacere? Uno di noi tre deve scomparire, e voglio essere io quello. Carissima! In questo cuore dilaniato s’è insinuato il furibondo pensiero… spesso… di uccidere tuo marito! …te! …me! …E così sia!» 

Hermann Hesse in Farfalle racconta di un adolescente, amante e collezionista di farfalle, il quale avendo rovinato inavvertitamente una preziosa farfalla, 

furtivamente sottratta ad un compagno di scuola, si rende conto per la prima volta nella sua vita delle potenzialità distruttiva dell’ uomo: «Scorsi sulla tavoletta la farfalla rovinata… l’ala spezzata era stata stesa con cura e posta su un’umida carta assorbente ma era irrecuperabile; e poi mancava anche l’antenna… Fu li che capii per la prima volta che non si può mettere a posto ciò che è stato rovinato. Me ne andai e fui contento che mia madre non mi chiedesse nulla, ma solo mi diede un bacio e mi lasciò incace. Prima però andai di nascosto in camera da pranzo a prendere la grande scatola marrone. La posi sul letto e l’aprii al buio. Ne estrassi le farfalle una dopo l’altra e con le dita le schiacciai e le ridussi in polvere e brandelli». 

In Pianto di Sirena Jun’lchiro Tanizachi racconta la fiaba di una sirena che essendo stata catturata da un navigante è disperata perché, sottratta alle natie profondità marine mediterranee e privata della libertà, è costretta ad esporre le proprie nudità sui mercati dei paesi dell’Asia. «La notte… le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi splendevano come perle rischiarando il buio profondo della stanza e quasi fossero fosforescenti lucciole…». Aprendo il suo segreto al signore che l’aveva acquistata e se ne era innamorato, la sirena confessa: «Non posso fare altro che soffrire e mi torturo nell’affanno impazzita dalla passione dei sensi e dalla lussuria. Nobile signore, ti scongiuro, di rimandarmi nella mia dimora nell’oceano e di sottrarmi ad una vita di dolore e di vergogna. Se potessi andare a rifugiarmi in fondo al mare, sotto le fredde onde azzurre, forse potrei dimenticare la tristezza e l’amarezza di questa mia sorte». 

Ri1ke in Danze Macabre così fa esprimere un uomo che nel perdere la propria integrità fisica sente avvicinarsi la morte: «Sono così solo e così stanco. Il mio dolore è strano. Sono spossato, le mie membra sono a pezzi; ma ci sono momenti in cui scatta di nuovo questa scintilla che chiamiamo vita. E diventa fiamma. Improvvisamente divampa con ardore e sento forza, salute, fiducia … stupidaggini. Il medico… ma non voglio parlare di medici. Ma a volte è molto brutto. Le difficoltà di respiro sai, le… A volte sono in grado di sentire come l’aria preme. È terribilmente pesante ti confesso. E questa tosse. Esce fuori cosi lentamente dal petto e poi improvvisamente accelera e mi prende alla gola». 

Ma cos’è il dolore? Cosa rappresenta nell’ambito della poliedrica gamma di sentimenti che pervadono l’essere umano? Come sostiene Karl Jaspers, «il dolore è una limitazione dell’esserci, è parziale annientamento; dietro ogni dolore c’è la morte». 

C’è la morte perché il dolore è uno stato di estremo malessere, perché qualcosa è andato perduto, perché ci sentiamo privi di qualcosa che era sentito come un bene, perché esperiamo in tutta la sua profondità la “mancanza” e con essa lo svanire della fiducia, del coraggio, della forza, della speranza. 

Potremmo chiederci come mai non organizziamo quasi mai convegni su tematiche quali la felicità, la gioia, la serenità. Solamente perché in quanto psicopatologi, e dunque per deformazione professionale, cerchiamo di investigare solo ciò che è alterato, ciò che è morboso? Fors’anche! 

Ma il motivo principale è che la felicità la conosciamo veramente solo quando l’abbiamo perduta. 

La felicità, così fragile, delicata e impalpabile come ali di farfalla, la riconosciamo solo dopo; quando viene meno; nel momento del dolore. 

Porgiamo ancora attenzione a quanto afferma Jaspers: «Se ci fosse solo la felicità dell’esserci, l’esistenza possibile resterebbe assopita. Stupisce che la felicità pura e semplice sembri vuota e senza e1Iicacia. Come il dolore annulla esserci di fatto, cosi la felicità sembra minacciare l’essere autentico. Nello stato di felicità c’è una specie di autonegazione determinata da un sapere che non permette alla felicità di sussistere. La felicità deve essere messa in questione per ricostituirsi come autentica felicità; la sua verità si fonda sul naufragio… 

Non si tratta di essere degli apologeti del dolore ma è a partire dal dolore che prendiamo contatto con le parti più profonde, più vere di noi, che ci rendiamo conto della vitale importanza di quel che abbiamo perso, che riconosciamo il vero valore delle cose, ossia prendiamo coscienza di ciò che per noi ha veramente valore. 

Come sembra implicito in tutto il pensiero di Georges Lapassade non è l’analisi a determinare la crisi, ma è la crisi a promuovere l’analisi. 

Ma v’è di più; il dolore attuale non solo si cortocircuita all’interno con i dolori che precedentemente abbiamo vissuto nella nostra vita, ma anche con un dolore che possiamo definire filogenetico, quello che appartiene al passato storico della specie umana. 

In ciascuno di noi è dunque inscritta la sequenza interminabile di oggetti che sono scomparsi a noi. che si sono autodistrutti o che non sono sopravissuti, ma pure quelli che la bestia interna, il felino carnivoro, l’egocentrico cannibale ha divorato, distrutto, sacrificato. 

Nel romanzo Il mare verticale Giorgio Saviane propone un affascinante viaggio nel tempo da parte di un protagonista interprete che in una sorta di sogno o di visione esce dalla propria individualità, per mescolarsi lungo un corridoio storico con altri esseri umani ora di sesso maschile ora di sesso femminile, acquistandone di volta in volta l’identità. 

L’iter mentale del protagonista comincia in questo modo: «Mi trovai in un corridoio largo; anche laggiù in fondo dove sembrava stretto e allineati vi erano tutti. Mi sembravano pochi per esser tutti, erano moltissimi invece, perché gli specchi di cui era fatto il corridoio senza fine li rifrangeva diversi seppure reali. Se mi spostavo mutava l’angolo visuale e tutti d’aspetto; a loro volta gli specchi moltiplicavano gli angoli, per cui ad un mio spostamento di un millimetro corrispondevano miliardi di variazioni, e i millimetri di quel corridoio erano infiniti. Scegliere importava una responsabilità, un’azione: non allungare il braccio muovere la testa pronunciare parole rovesciare un governo uccidere amare: l’azione interiore, il fatto per cui siamo scaturivano da quel corridoio molato. Né la scelta era in nostro potere. Eppure vi era un punto più qua del corridoio, un punto che si identificava con l’identificazione, dove !’investitura trovava origine. Un blocco determinante le cui tangenti si perdevano nello spazio, voraci. L’aggettivo è però gratuito, uno sbaglio: quelle tangenti si alzavano per linee assolute» 

Un gruppo giovanile di Marsala di recente è stato profondamente scosso dal suicidio di un giovane appartenente alla loro associazione. Il ragazzo si era molto attaccato ad una coetanea di cui era innamorato, ma il suo sentimento era tenacemente ostacolato dai genitori. Il giovane, disperato, si è procurato una pistola, ha chiamato per telefono l’amico più intimo avvertendolo del gesto che stava per compiere. L’amico lo ha pregato di dargli il tempo di raggiungerlo, ma inutilmente; ha sentito lo sparo mentre ancora si trovava a telefono. Alcuni mesi prima, il ragazzo suicida, allorché aveva fatto il suo ingresso nel gruppo giovanile, si era presentato scrivendo la seguente frase: «Che tutto non finisca qui!» 

Aldo Carotenuto in Eros e Pathos avverte che «dobbiamo imparare a sopportare la privazione», dato che la mancanza è «un altro tratto strutturale della nostra esistenza. Tutta la nostra vita è una lotta per affermare quel qualcosa che ci sfugge, e per poter lottare dobbiamo imparare a sentire sulle nostre spalle il peso dell’assenza dell’altro». Ancora Carotenuto ci dice che «nel momento in cui siamo testimoni e succubi di una devastazione psicologica, la vita ci offre una chance che non dobbiamo lasciarci sfuggire: noi dobbiamo andare in fondo a questo vissuto, perché è uno di quei momenti che ci fanno capire, ci fanno conoscere chi siamo. È da qui che parte il nostro lavoro di ricostruzione». 

Ma la ricostruzione va intesa non solo quale capacità di uscire dalla solitudine e dalI’isolamento per consentire il rialTacciarsi della presenza dell’altro. Ma anche quale processo trasformativo di parti del Sé. quale cambiamento connesso al processo di individuazione che spesso dalla esperienza dolorosa prende avvio e che a dolore si accompagna. Sia perché acquistare qualcosa di nuovo. mutare. comporta il dover perdere qualcosa di vecchio; sia perché il percorso di individuazione comporta anche una rottura rispetto ai modelli ed ai condizionamenti stereotipi sociali. 

Il percorrere la strada personale della individuazione ci mette contro gli altri non nel senso di una nostra ribellione contro la società, ma al contrario nei termini in cui è la società ad avversare le trasformazioni. i cambiamenti collegati con la ricerca interiore di ciò che per noi è essenziale, di ciò che ci fa sentire persona unica ed irrepetibile. con le realizzazioni conseguenti, compreso ciò che amiamo e ciò che non possiamo più amare, ciò che sentiamo bene e ciò che non possiamo sentire tale, ciò che possiamo perdere e ciò che non ci sentiamo di abbandonare definitivamente. 

Ma il percorso di individuazione si presenta come lungo, difficile, incerto, e spesso non può essere mai portato a tern1ine. Mentre la coazione a ripetere può farci riprecipitare nella colpa, nel tentativo vano del recupero, nella obbligazione alla riparazione. E invece di andare avanti torniamo indietro. Così che le parti in ombra indirizzano oscuramente il nostro cammino e ci muovono inconsciamente verso quel tipo di oggetti che ci hanno soddisfatto e che possono continuare a soddisfare parti nostre inconsce che amiamo meno. Individuarci significa avere la forza di abbandonare. di sciogliere legami che prima erano sentiti essenziali e dai quali dipendevamo; permettere a noi stessi di perdere quello che dell’altro avevamo dentro e ci faceva male. 

Esemplificativo può apparire il seguente sogno. Una persona torna in officina per ritirare la propria autovettura che aveva lasciato per il consueto tagliando. Ma il capomeccanico gli dice che la macchina è rotta e non si può riparare. Il proprietario chiede delle spiegazioni ma il capofficina rifiuta categoricamente di fornirgliene, allora il proprietario della vettura si rivo1ge agli altri meccanici per saper qualcosa di più, ma costoro declinano. rispondono che solo il capofficina può dare spiegazioni. Il malcapitato proprietario dell’auto rimane perplesso; vede che il capofficina si sta allontanando da una porticina laterale. allora viene invitato dagli altri meccanici a seguirlo se vuole delle spiegazioni. Così avviene, la persona segue il capofficina là dove era scomparso, apre la porta e lo vede che si sta togliendo la tuta e sta per indossare degli abiti eleganti da sera, è atteso presso un portone che dà all’esterno da un altro uomo e da due donne tutti elegantemente vestiti, devono recarsi insieme ad una serata. Il proprietario dell’auto ha un moto rabbioso e pigliando per il bavero il capofficina lo sbatte contro il muro gridandogli che deve dirgli perché la macchina non può essere riparata, perché senza queste spiegazioni non può neanche portarla presso un’altra officina. 

Il sogno è interessante perché si presta ad una discussione circa alcuni caposaldi connessi alla pratica della psicoterapia analitica: la possibilità di trovare delle spiegazioni circa gli accadimenti psichici; la possibilità di cambiare qualcosa di se stessi; l’inutilità di intraprendere una psicoterapia quando non si è realmente motivati a questo tipo di processi. 

Ma il sogno è pure interessante per qualcosa che esula il campo analitico ed è connesso alla frequente illusione di potere cambiare le persone con le quali si è più coinvolti nella relazione. Fantasie di questo tipo ricorrono non infrequentemente in persone che intraprendono una psicoterapia, come se la nuova situazione dovesse dotarle della capacità di trasformare l’altro; in questi casi, almeno inizialmente; il materiale portato in seduta verte soprattutto sulle persone più intime piuttosto che su se stessi. 

È solo quando ci rendiamo conto che gli altri in parte sono anche affittuari di immagini nostre, e che possono rappresentare figure impersonanti nostre essenze sotterranee, che possiamo dare una svolta alla nostra vita interiore ed oggettuale, che possiamo scoprire nuovi sentieri significativi. 

La citazione di alcune delle battute finali del lavoro teatrale di Philippe Blasband Una cosa Intima può stimolare ulteriori riflessioni. 

Lui sta per andarsene, forse per sempre, lei gli chiede: «E se volessi fare la cosa un’altra volta, con te sarebbe possibile? Lui risponde: «Perché vorresti farlo?, Lei: «Non so perché sei diverso dagli altri come non ne ho mai incontrati… Ero in un deserto, e tu mi hai mostrato la strada per uscirne… E credo che in un certo modo, strano, bizzarro, credo di amarti…» 

Lui: «Va bene. Ma ciò non basta. Per fare la cosa, bisogna amare farla…» Lui esce di scena, lei rimane da sola e in soliloquio mormora: «Stavo con un ragazzo – o forse era un uomo, non so… Mi piaceva. Volevo fare l’amore con lui, e lui non voleva, non subito, diceva che aveva una cosa in lui, un segreto, e per me era meraviglioso, bello, intrigante. Avevo l’impressione che con lui toccavo qualcosa, più lontano… Toccavo l’assoluto… Non so…». Si fa buio sulla scena. 

Il buio nel lavoro teatrale di Blasband, come a volte il silenzio nel lavoro psicoterapeutico, non ha il significato di fine, di vuoto mortale, ma ha la funzione di sospensione riflessiva, di metabolizzazione psicologica di quanto si sta esperendo. È a partire da questa sospensione temporanea, tale da consentire l’autoimmersione filobatica, che è possibile riproporci alla vita arricchiti di una nuova esperienza. 

La presenza del terapeuta nei casi di depressione patologica può risultare di fondamentale importanza quando teniamo conto che se l’interumano (nelle relazioni oggettuali e nelle relazioni soggettuali) ha determinato il dolorare solo l’interumano può risanarlo. Così allo psicoterapeuta è demandato il difficile compito di riuscire ad aiutare il paziente ad elaborare il significato della perdita e della mancanza in relazione al romanzo personale, e, inoltre, di fargli comprendere la valenza del dolore nei processi di sviluppo psicologico, di cambiamento personale, di individuazione. 

È a partire dall’esperienza di superamento del dolore che è possibile acquistare fiducia nella propria forLa interiore e riaffrontare la vita, e con essa probabilmente nuovo dolore. ma con minore paura di prima. 

Alfredo Anania

* Relazione tenuta nel Convegno Internazionale “Approccio Integrato alle Depressioni ed alle Schizofrenie”. VI Giornate Psichiatriche di Lampedusa. 11-16 Giugno 1995. 

BIBLIOGRAFIA 

P. Blasband, Una cosa Intima, Palermo, 1994. 
A Camus, Il mito di Sisifo, Milano, 1980. 
A Carotenuto, Eros e Pathos. Milano. 1991. 
F. Fomari, Nuovi Orientamenti della psicoanalisi, Milano, 1966. 
S. Freud, Lutto e melanconia, in “Opere”. vol. VIII, Torino, 1976. 
W. Goethe, I dolori del giovane Werther, Milano, 1976. 
H. Hesse, Farfalle, Viterbo, 1991. 
K. Jaspers, Filosofia, Torino, 1978. 
G. Lapassade, L’analisi istituzionale, Milano, 1974. 
F. Nietzsche, Genealogia della morale, Milano, 1984. 
Omero, Odissea, Libro IV, VV. 119-217, Milano,1991. 
R. M. Rilke, Danze macabre, Roma, 1994. 
G. Saviane, Il mare verticale. Roma, 1994. 
J. Tanizachi, Pianto di sirena, Milano, 1989.

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 31-39.

 




Il suicidio autosacrifico 

Nell’ambito dei rapporti interumani la sopravvivenza del singolo e del gruppo viene sentita come frutto della capacità di sviluppare reciproci processi di «amore». O meglio, i processi reciproci di amore consentono lo sviluppo di sentimenti particolarmente rassicuranti che nel loro insieme vengono vissuti come «bene». Queste reciprocità bonifiche si strutturano sulla fantasia inconscia che la vita del soggetto e la vita dell’oggetto sono indispensabili l’uno alla sopravvivenza dell’altro (vita mea vita tua). Tale fantasia rappresenta il derivato dell’esperienza originaria d’amore che accomuna madre e bambino. Allorché l’interumano determina lo sviluppo di ostilità particolarmente intense, insorgono profonde angosce persecutorie in base alle quali la sopravvivenza del soggetto non viene ritenuta possibile senza la distruzione dell’oggetto (mors tua vita mea). 

Nelle personalità fortemente ambivalenti la possibilità di atti suicidari sono elevate. I meccanismi psicodinamici attivi sono di due tipi differenti. Nel primo, il suicidio rappresenta l’epilogo infausto della radicalizzazione di una vicenda relazionale che si è totalmente internalizzata, per via dell’identificazione narcisistica con l’oggetto. e che si conclude con l’autoeliminazione allo scopo di distruggere l’oggetto stesso (mors mea mors tua). Nel secondo tipo, il suicidio avviene in seguito ad una profonda regressione alla fase simbiotica e rappresenta un atto autosacrifico estremo, necessario alla salvazione dell’oggetto che è vissuto come depositario di tutto il bene (mors mea vita tua). In questo caso non si tratta di una distruzione con il sé dell’oggetto persecutorio, né di una condanna a morte del sé in quanto responsabile della distruzione dell’oggetto. Si realizza, invece, un processo «eroico» in base al quale l’annullamento del sé viene sentito come assolutamente necessario alla salvazione dell’oggetto di amore (nel momento in cui viene avvertito in pericolo) e/o necessario al mantenimento del legame simbiotico con esso. Qui all’opposto che nel pasto totemico il soggetto sacrifica la propria vita fantasticando di essere così incorporato dall’oggetto «adorato», e di poter vivere in esso, con esso. 

Sembra interessante, relativamente a quanto sopra affermato, il materiale psicologico offerto da un paziente lievemente borderline dell’età di 45 anni, affetto da uno stato depressivo ingravescente, il quale aveva chiesto un trattamento psicoterapico. Il paziente, parlando di un periodo della sua preadolescenza trascorso spensieratamente in un luogo di villeggiatura, ricordò che a quell’epoca gli si presentò una fantasia che presto gli divenne abituale. 

C’era la guerra, tutti i parenti più stretti e tutte le ragazze verso le quali sino allora aveva nutrito sentimenti amorosi si trovano in uno stesso luogo ed erano in imminente pericolo di vita, ma erano impossibilitati a poter fuggire; nessuno aveva il coraggio di fare qualcosa; ma ecco che egli riusciva, con un atto eroico, a salvare quelle persone, mettendosi così in luce presso tutti i conoscenti. 

Il paziente sottolineava l’importanza di questa attività fantastica la quale gli consentiva di superare temporaneamente i suoi accentuati complessi di inferiorità e di potere così immaginare di essere superiore agli altri. 

Queste produzioni fantastiche nel paziente si interruppero durante gli anni del liceo; fu un periodo particolarmente felice, l’unico nella sua vita. Le fantasie ripresero allorché, conseguita la maturità classica, il paziente dovette allontanarsi dalla famiglia e dai vecchi compagni per trasferirsi in una sede universitaria al fine di continuare gli studi; fu allora che cominciò a sperimentare quello che lui stesso definisce «il sentirsi naufragare in seno alla società». Si ripresentarono le fantasie a contenuto eroico che ricalcavano ancora gli stessi schemi del periodo preadolescenziale, però questa volta comportavano una nuova necessità e, cioè, il sacrificio della propria vita nel salvare la vita degli altri. Mentre da ragazzo le fantasie si limitavano all’eroismo senza un tragico epilogo, ora invece l’atto eroico veniva associato sistematicamente all’autodistruzione. Pur se la scenografia fantastica riproponeva le stesse immagini del passato, ora l’eroe sconosciuto si poteva fare luce solo dando la propria vita in cambio di quella altrui. 

Se ci addentriamo nella psicologia del sacrificio dobbiamo accettare, così come classicamente concepito, che il sacrificio costituisce un’offerta di qualcosa per entrare in comunione con la divinità. Come scrive C. Grottanelli, «il sacrificio sarebbe un atto di comunione, o di separazione, o un dono» ma, come sottolineano Hubert e Mauss, citati da Grottanelli, «probabilmente non c’è sacrificio senza qualche idea di riscatto e qualcosa dell’ordine del contratto»1. Dunque chi sacrifica la propria vita si renderebbe autore di un’offerta estrema, cioè di un’offerta di sé stesso per l’altro, cioè in favore di oggetti fortemente idealizzati e vissuti come onnipotenti. Ma da tale offerta non possiamo disgiungere idee più o meno coscienti di comunione con l’oggetto, di identità, di acquisto, di scambio. 

Roberto Calasso in Le nozze di Cadmo e Armonia2 afferma che le differenze tra dèi e uomini sono soprattutto due. La prima è in rapporto ad Ananke (la necessità); gli dèi la subiscono e la usano, gli uomini la subiscono soltanto. L’altra è in rapporto alla ierogamia: gli dèi possono mescolarsi con gli uomini, assimilare e disassimilare, senza sacrificio, gli uomini, che vivono nell’irreversibile, possono assimilare e disassimilare solo uccidendo. L’espulsione (purificazione) e l’assimilazione (comunione, sia nel senso di assimilare che di essere assimilati) può avvenire solo attraverso l’uccisione. 

Parafrasando Calasso, potremmo sostenere che ciò che era stato l’avvolgimento erotico del corpo e l’attrazione simbiotica della mente corrisponde ora al gesto che realizza l’autosacrificio. Ierogamia ed autosacrificio hanno in comune il perdere sé stessi facendosi invadere o facendosi divorare, nel momento in cui si sovrappongono «e », cioè il sé e l’altro sentito come sé stesso. 

Ma il suicidio autosacrifico, di cui abbiamo cercato il senso attraverso l’interpretazione filogenetica, rimarrebbe abbastanza enigmatico senza un’interpretazione di ordine ontogenetico. Infatti, ciò che sembra un’offerta, quindi una perdita, può configurarsi quale rifiuto della perdita, se consideriamo che il tipo di sacrificio di cui stiamo trattando può rappresentare un inconscio estremo tentativo di conservare o di recuperare quell’unione con la madre che è caratteristica di quel periodo in cui il bambino nel corso del suo primario sviluppo vive con essa una dimensione simbiotica. 

Possiamo considerare simbiotica la primissima modalità di rapporto interumano, fase nella quale il bambino si sente una cosa sola con la madre e non è consapevole che la sua personalità e quella della madre sono distinte e separate. La mancata separazione tra lo Primitivo e non-Io, dunque la comprensione in sé stesso da parte dell’Io Primitivo del mondo esterno o di parte di esso, determina sentimenti di onnipotenza ai quali il bambino nel corso del suo primo sviluppo rinuncia solo in modo parziale e temporaneo in quanto tende a recuperare la propria Onnipotenza partecipando a quella degli adulti, tramite l’identificazione introiettiva. 

Come sostiene O. Fenichel, «incorporando gli oggetti ci si unisce ad essi. L’introiezione orale determina contemporaneamente l’identificazione primaria. Le idee di mangiare un oggetto o di essere mangiati, sono il modo in cui ogni riunione con l’oggetto viene inconsciamente pensata, la comunione magica di diventare la stessa sostanza, sia mangiando il medesimo cibo o mischiando il rispettivo sangue, e la credenza magica che una persona divenga simile all’oggetto mangiato, si basano sull’introiezione orale… l’idea di essere mangiati non è soltanto fonte di paura, in certe circostanze può anche essere fonte di piacere orale. Al desiderio di incorporare gli oggetti, corrisponde quello di essere incorporati da un oggetto più grande. Spesso, gli scopi apparentemente contraddittori di mangiare e di essere mangiati. appaiono condensati l’uno all’altro»3. 

È in base a queste considerazioni psicoanalitiche che alla fine del nostro studio possiamo meglio comprendere come in taluni individui, alcune volte, soprattutto in condizioni di profonda regressione. il suicidio rappresenti un estremo tentativo di mantenere o rinsaldare o riacquistare con l’altro un legame che è avvertito in pericolo; ciò quando l’altro, persona o gruppo, è sentito così terribilmente importante e talmente indispensabile da rendere intollerabile ogni idea di separazione. È in questi casi che nella psiche del suicida lo sciogliere, la separazione definitiva, attuata attraverso il recidere il filo della propria esistenza, corrisponde ad un definitivo riannodare, alla totale fusione con l’oggetto onnipotente di adorazione. 

1. C. Grottanelli, N. F. Parise, Sacrificio e società nel mondo antico, Laterza ed., Bari, 1988, pagg. 9-11. 

2. Adelphi ed., Milano, 1988. 

3. O. Fenichel, Trattato di Psicoanalisi, Astrolabio ed., Roma, 1951, pagg. 77-78. 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 55-58.




Il mondo della colpa: alcuni rilievi psicodinamici

La morte, il dolore, la lotta, la determinazione storica dell’esistenza, nella concezione filosofica di karl Jaspers1 sono considerate «situazioni limite». Situazioni, cioè, inevitabili poiché legate al nostro essere al mondo. L’uomo, di fronte ad esse, rimane impotente, contro di esse urta e naufraga perché non può mutarle né comprenderle profondamente. Tra le situazioni limite Jaspers include anche la «colpa». In ambito psicoanalitico si definisce «sentimento di colpa» quella sofferenza psichica derivante dalla sensazione, più o meno conscia, di aver causato o di poter causare un danno o del male ad oggetti amati. Tali sentimenti stanno alla base delle angosce depressive. 

Gli stati depressivi non costituiscono una prerogativa della specie umana; infatti, osservazioni naturalistiche e ricerche sperimentali hanno permesso di verificare la presenza di comportamenti depressivi o «di disperazione» anche nei giovani mammiferi – nei primati in particolare in rapporto a vicende di separazione, di isolamento o di rottura dei vincoli di attaccamento affettivo. Tali comportamenti, nel mondo animale, avrebbero una funzione biologica adattiva; costituirebbero «segnali» diretti ad avvertire il gruppo, in particolare i genitori o la madre, che uno dei membri più piccoli si trova in pericolo. Dunque gli atteggiamenti depressivi avrebbero la funzione specifica di stimolare nei membri adulti la cura e la protezione degli individui più indifesi. 

Non dissimili appaiono in campo umano le finalità della depressione almeno al suo primo apparire nella vita psichica individuale – quando si tenga conto delle teorie psicoanalitiche attualmente più condivise. Secondo M. Klein è possibile collocare attorno al sesto-ottavo mese di vita l’attivarsi nel lattante di una «posizione depressiva» che è capace di mobilitare nella madre delle risonanze affettive, dei sentimenti di colpa e conseguentemente – secondo la formulazione di F. Fornari – delle necessità di «amore-redenzione» che si traducono in una intensificazione da parte della madre di quelle risposte amorevoli e di quell’empatia che sono indispensabili al bambino per superare la fase depressiva. 

La posizione depressiva è interpretata dalla Klein come il risultato della insorgenza di sentimenti di colpa e di una reversione all’interno dell’aggressività nel lattante, allorché egli, acquisita la capacità di conoscere la madre come un oggetto totale, si rende conto che sta dirigendo contro di essa, nel momento della frustrazione, i propri impulsi ostili e distruttivi. Dunque nel pensiero kleiniano la nascita del super-Io non avverrebbe nella fase edipica ma nel corso del primo anno di vita. 

Lasciando sospeso ogni giudizio circa l’effettiva liceità di attribuire al lattante sentimenti che possono apparire plausibili solo compiendo uno sforzo di estremizzazione analogica con i sentimenti dell’adulto, possiamo tentare di affiancare alle teorie kleiniane altri rilievi psicodinamici i quali possono portare un contributo alla chiarificazione circa lo svilupparsi delle radici del senso di colpa negli umani. Innanzitutto dobbiamo ammettere che la madre possa avere normalmente delle discontinuità nella sua capacità di rispondere sollecitamente o nei modi adeguati a tutti i bisogni dell’infante; pertanto possiamo considerare le frustrazioni come accadimenti normali nella vita di ogni bambino; anzi noi oggi sappiamo che le frustrazioni sono necessarie perché possa svilupparsi no, perché possa avvenire la nascita psicologica. Sotto quest’ottica le posizioni depressive del lattante appaiono risposte fisiolgiche a vicende di allentamento di vincoli di attaccamento affettivo, a carenze di cure, ad assenze della madre-seno nel momento del bisogno. 

Considerato che pulsioni di vita e pulsioni di morte in ogni essere si trovano in equilibrio dinamico tra di loro, siamo costretti ad ammettere che l’assenza della madre-seno, cioè la carenza di apporti libidici dall’esterno, provochi uno spostarsi dell’equilibrio in favore delle tensioni aggressive che appunto – in quanto emergenti in assenza di oggetti gratificanti – non possono che scaricarsi verso l’interno dell’individuo con conseguenti valenze autodistruttive. Dunque, la mancanza di apporti libidici dall’esterno, cioè l’assenza di oggetti dispensatori d’amore corrisponde a qualcosa di cattivo, ad un male, ad un .noxa» che può mobilitare l’emergere di ciò che F. Fornari2 definisce .terrificante interno», quale percezione orlginaria dell’istinto di morte. 

Quanto sinora considerato ci porta a dover ammettere che a livello “proto” esiste una accentuata correlazione tra allentamento dei vincoli di attaccamento affettivo e mobilitarsi di cariche autodistruttive. Ma possiamo, inoltre, ipotizzare che esiste in ciascuna specie un rapporto direttamente proporzionale tra potenziale aggressività, necessità di apporti libidici e prolungamento del periodo di completa dipendenza ai fini della sopravvivenza. Sotto quest’aspetto l’uomo occupa il primo posto in assoluto nella scala evolutiva relativamente a tutte e tre le variabili considerate. 

Ritornando all’oggetto precipuo di questa relazione, è necessario riflettere sulla singolarità della situazione in base alla quale la sopravvivenza del bambino trova il suo principale fondamento nella possibilità di risvegliare, tramite la posizione depressiva, dei sentimenti di colpa nella madre, la quale sarà così sollecitata a mobilitare tutte le sue risorse lenitivo-riparative. 

* * * 

Abbastanza esemplificato appare il caso di una giovane donna, già madre di un bambino di 5 anni, la quale dopo la nascita del secondo figlio, anch’esso maschio, sviluppò un accentuato stato depressivo in seguito alla profonda delusione per non aver avuto la figlia femmina, ardentemente desiderata. Insieme allo stato depressivo la paziente presentava delle alterazioni ideative, in forma ossessiva, rappresentate dal pensiero che il figlio non fosse suo: altre volte, invece, pensava che il figlio non appartenesse al marito, pur non avendo mai avuto rapporti sessuali extraconiugali. Quando la donna iniziò le sedute di psicoterapia il bambino aveva ormai otto mesi e da tempo aveva preso l’abitudine di piangere quando non veniva tenuto in braccio: poi, di notte, riprendeva il pianto ogni qual volta gli sfuggiva il ciucciotto, ma siccome ciò accadeva con una frequenza impressionante, quasi ogni mezz’ora, la madre era costretta a svegliarsi di continuo per riportargli il ciucciotto in bocca. Il fatto più interessante è che la donna inconsciamente aveva in qualche modo contribuito in forma decisiva allo svilupparsi di suddetti atteggiamenti nel bambino, poiché, contrariamente ad ogni aspettativa, aveva preso sin dall’inizio l’abitudine di tenerlo continuamente stretto a sé, come a proteggerlo dalla benché minima sofferenza, come se non potesse tollerare che il bambino piangesse; non rendendosi conto che il proprio modo di comportarsi era collegato ai sentimenti di colpa. 

* * * 

Con il trascorrere dei mesi il bambino, per via della progressiva maturazione neurobiologica e della progressiva psichicizzazione, va acquistando una sempre maggiore coscienza della sua capacità di suscitare delle risposte psico-emotive e comportamentali nella madre; e insieme a questa maggiore consapevolezza anche i primi sentimenti di debito, di riconoscenza, di gratitudine nei confronti di lei.che viene sentita onnipotente in quanto dotata di quelle capacità lenitivo-riparative che per il bambino hanno una importanza vitale. Onnipotenza salvifica che il bambino tende a introitare tramite l’identificazione. 

Una volta acquistata la coscienza di essere co-protagonista di scambi affettivi, nell’ambito della vicenda esperienzale diadica, il bambino svilupperà angoscia, malessere, ogni qual volta non potrà identificarsi con la madre riparativa ed oblativa, dispensatrice di amore e di bene. Questo malessere è ora la conseguenza del percepire se stesso, a causa delle pulsioni ostili o ambivalenti, quale responsabile dell’alienazione da sé di oggetti dispensatori di bene, cioè responsabile del proprio affamamento affettivo, della perdita di quegli oggetti gratificanti la cui presenza appare indispensabile ad evitare l’emergenza, reversiva all’interno, delle pulsioni distruttive. Pertanto, l’impossibilità ad identificarsi con l’oggetto d’amore riparativo, costituirebbe la radice di ogni sentimento di colpa, di ogni «cattiva coscienza». Dunque la coscienza, che appare trarre origine dall’emergenza del «terrificante interno», si svilupperebbe, e si potenzierebbe successivamente, soprattutto quale apparato deputato a mantenere separate, tramite una forzatura interna, l’ostilità dall’amore, la libido dalla mortido. Ogni falla in tale capacità di separazione determinerebbe la «cattiva coscienza», cioè la sensazione che si stia facendo del male all’oggetto d’amore con il quale, in questi frangenti, non è più possibile alcuna identificazione. 

Evidentemente lo svilupparsi di sentimenti di colpa viene rinforzato via via dalla serie di precetti ed atteggiamenti educativi della madre, la quale connota come -bene» quello che da essa è accettato e valorizzato e come «male», come qualcosa di cattivo, tutto ciò che essa rifiuta, non approva. La prima legge, le prime regole di vita, i primi comandamenti sono dettati dalla madre. La madre e, successivamente, i genitori, quale «oggetto combinato», si pongono come universo dettante sia le colpe che le pene. Il mantenersi buono è necessario al bambino per sentirsi sufficientemente amato. La trasgressione così come gli impulsi ostili comportano un malessere, un sentimento di colpa, una «cattiva coscienza», collegabili alla preoccupazione che l’oggetto d’amore non voglia più dare il suo affetto o che lo stesso sia stato danneggiato, svuotato, deprivato dalla capacità di continuare a darne. Così il super-Io, al dì fuori della patologia, piuttosto che in funzione di una distruttività internalizzata, appare al servizio di una funzione salvifica internalizzata, in quanto mobilitando processi propiziatori-riparativi consente la revitalizzazione delle reciprocità bonifiche. 

Il padre, che progressivamente con il trascorrere del tempo occupa un maggiore spazio nel mondo esperienzale del bambino, per certi versi, è sentito come un competitore, un ladro, un sottrattore dell’oggetto d’amore primario, che è la madre; ogni volta, ad esempio, che la porta via con sé oppure ogni volta che emargina il bambino nella sua stanzetta. Pertanto, la figura patema per molti versi sembra prestarsi ad una sorta di «elaborazione paranoica del lutto», cioè ad attribuire ad altri, ad oggetti nemici la causa delle proprie perdite, parziali o totali. Il bambino potrebbe così trovare nel padre, e non più nella propria cattiveria, il responsabile delle proprie frustrazioni primarie, cioè dell’allontanamento affettivo della madre. Ma questo meccanismo difensivo non può avere successo poiché il padre costituendo anch’esso un oggetto d’amore e di identificazione – in quanto anch’esso dispensatore di affetto, di cure e protezione nei confronti del bambino come anche nei confronti della moglie – non può essere investito di ostilità e di inimicizia senza mobilitare ulteriori sentimenti di colpa. Cosicché la «cattiva coscienza», che aveva avuto il suo esordio nella vicenda relazionale diadica con la madre e che avrebbe potuto trovare sollievo attraverso l’esportazione all’esterno della colpa, trova nella vicenda relazionale con il padre nuove occasioni per ripresentarsi. 

Il vissuto di colpa riaffiorerà regolarmente nel corso della vita ogni volta che sentimenti connessi all’odio – quali l’invidia, la gelosia, il desiderio di vendetta, le pulsioni di morte – si rivolgeranno contro oggetti che a causa della convivenza, della necessità, del desiderio o dell’identificazione, si presenteranno come oggetti d’amore. Sotto quest’ottica il sentimento di colpa appare in tutta la sua dimensione di «situazione-limite», indissolubile compagno nel procedere dell’esistenza, fonte di ogni profonda sofferenza morale, ma nello stesso tempo condizione necessaria per l’assunzione di quella responsabilità senza la quale non potrebbe avvenire alcun reinvestimento libidico. Ciò che distingue la normalità dalla patologia, il sentimento di responsabilità dal disturbo affettivo, dalla depressione, è dato dall’assunzione di una colpa che non sia talmente accentuata da paralizzare ogni possibilità riparativa, dunque non tale da tradursi in una forza al servizio delle pulsioni distruttive. 

* * * 

Quanto sinora considerato, pur se può contribuire a focalizzare alcuni aspetti che appaiono di notevole importanza per la comprensione del mondo della colpa, non ci impedisce di rivisitare il problema sotto altre angolature che possono suscitare il nostro interesse. 

Nietzsche in Genealogia della Morale3 afferma che «soltanto quello che non cessa di dolorare resta nella memoria»; il dolore costituisce «il coadiuvante più potente della memoria». Con il senso di colpa è stata introdotta «la più grande e la più sinistra delle malattie», «la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé: conseguenza di una violenta separazione dal suo passato animale (…) di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui quali sino allora riposava la sua forza, il suo piacere, la sua terribilità». Questa metamorfosi non è il frutto di un atto di volontà né di uno «sviluppo organico all’interno di nuove condizioni bensì come una frattura, un salto, una costrizione, una inevitabile fatalità»; una enorme perdita di libertà iniziata con la violenza e con la violenza condotta a termine da una piccola minoranza di uomini molto forti «una razza di conquistatori e di padroni che, guerrescamente organizzata e con la forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli su una popolazione forse enormemente superiore di numero, ma ancora informe, ancora errabonda». «Questo istinto delle libertà reso latente a viva forza (…), questo istinto della libertà represso, rintuzzato, incarcerato nell’intimo, che non trova infine altro oggetto su cui scaricarsi e disfrenarsi se non su sé stesso: questo, soltanto questo è nel suo cominciamento la ‘cattiva coscienza’-, di questa specie -è il piacere che prova il disinteressato, il negatore di se stesso, l’immolatore di sé: questo piacere rientra nella crudeltà (…), soltanto la cattiva coscienza, soltanto la volontà di svillaneggiare se stessi fornisce il presupposto per il valore del non egoistico-. 

Jaspers con altre parole sottolinea ugualmente la drammaticità della condizione umana quando afferma: «Abbracciando la vita si toglie qualcosa agli altri-, l’esserci con il fatto di dover realizzare delle condizioni che sono indispensabili alla vita stessa esige «lotta e sofferenza altrui»; ciascuno paga con la sofferenza il prezzo del suo agire ma anche di alcuni dei suoi sentimenti più intimi. «Si può tentare di evitare la colpa non entrando nel mondo, non facendo nulla ma anche non agire è una forma di agire, un agire nella forma di omissione che conduce ad una fine più rapida dovuta a quell’inerzia sistematica e assoluta che assomiglia al suicidio (…l, sia razione che la non-azione implicano delle conseguenze, per cui in ogni caso siamo inevitabilmente colpevoli». 

Nietzsche in Nascita della Tragedia4 si chiede: «Il pessimismo è necessariamente un segno di declino, di decadenza, di fallimento di istinti stanchi e indeboliti?», «c’è un pessimismo della forza? Un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza d un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza? C’è forse un soffrire della stessa sovrabbondanza?». E che significato ha poi la «follia dionisiaca?», «quel fenomeno in cui i dolori suscitano piacere, in cui il giubilo strappa al petto voci angosciate. Dal sommo della gioia risuona il grido del terrore o lo struggente lamento di una perdita irreparabile». Perdita irreparabile è quella che vive il melanconico. Ma ci dobbiamo porre il quesito se in fondo ogni riparazione nei confronti dell’oggetto amato non abbia anche una valenza narcisistica nel suo aspetto di riparazione dello stesso sentimento di colpa. Non possiamo rispondere che affermativamente. 

Ma vi è la possibilità di un sentimento di colpa che non può essere riparato neanche con la stessa riparazione? Lo potremmo chiamare un sentimento di colpa maturo, in quanto non sfiorato né inquinato da elementi affettivi (negazioni maniacali o mortificazioni depressive); esso è legato ad una profonda conoscenza dell’umano e della sua imperfezione. Questo sentimento di colpa per così dire maturo, privo di disillusioni, contiene in sé un rischio: di trapassare senza soluzioni di continuo nell’anestesia morale. In questo caso appare difficile stabilire dove finisce una responsabilità integra – non integrale ma integra, cioè libera di elementi affettivi, depressivi o maniacali – e dove comincia un’ anestesia egocentrica. 

Ancora Nietzsche in Nascita della Tragedia si chiede se «il socratismo della morale, la dialettica, la moderazione e la serenità dell’uomo terretico», ciò per cui la tragedia greca morì non fosse «un segno di declino, di stanchezza, di malattia, di istinti che si dissolvono anarchicamente», se la stessa scientificità «è solo una paura e una scappatoia di fronte al pessimismo», «una sottile legittima difesa contro la verità»; infine se ogni dottrina che voglia essere solo morale non esprima anche .un’ostilità alla vita, la rabbiosa vendicativa avversione alla vita stessa: giacché ogni vita riposa sull’illusione, sull’arte, sull’inganno, sulla prospettiva, sulla necessità della prospettiva e dell’errore». 

* * * 

Un uomo sposato, padre di tre figli, aveva allacciato una relazione con una giovane donna con la quale avrebbe voluto convivere, ma tale desiderio era contrastato dall’affetto e dal senso di protezione nei confronti dei figli che non voleva abbandonare. 

Durante le sedute di psicoterapia, quest’uomo esprimeva una profonda sofferenza per il fatto di sentirsi in colpa e volersi votare al sacrificio per il bene dei figli, nello stesso tempo avvertiva qualcosa all’interno che lo faceva ribellare all’idea del sacrificio; altrettanto drammatico per lui era sentirsi, a causa della ribellione, come un essere debole. Era importante dal punto di vista terapeutico che egli potesse prendere coscienza dei suoi sentimenti di responsabilità; ciò gli consentiva di potersi identificare anche con un genitore buono capace di amare e di donarsi ai figli. 

La psicoanalisi ci ha insegnato che molti problemi umani, individuali o collettivi, soprattutto alcuni nostri profondi conflitti, difficilmente possono trovare una vera risoluzione – ciò fa parte della nostra imperfezione -; quel che è importante è prendere piena coscienza delle realtà, a volte contraddittorie, che animano il mondo interiore. Per questo non possiamo non concordare con il più volte citato Jaspers quando sostiene: «Non si tratta (…) di essere innocente, ma di evitare realmente la colpa evitabile, per giungere a quella colpa autentica, profonda ed inevitabile, in cui non è dato trovare pace. La responsabilità diventa allora pathos esistenziale che porta ad assumerci la colpa inevitabile, che altrimenti ci terrorizzerebbe, e che consiste nell’essere noi inconsapevolmente e passivamente irretiti nella miseria della colpa». 

Alfredo Anania

1. K. Jaspers. Filosofia, Torino, UTET. 1978.
2. F. Fornarl. Nuovi orientamenti nella Psicoanalisi, Milano, Feltrinelli, 1966; Ib., Psicanalisi della guerra, Milano, Feltrinelli. 1970.
3. F. Nietzsche. Genealogia della Morale. MIlano. Adelphi, 1984. 
4. F. Nietzsche, La Nascita della Tragedia, Milano, Adelphi, 1977.

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 45-53.




Esperienze con i gruppi e tossicodipendenze 

La tossicodipendenza offre sempre continui stimoli per una ricerca sui fattori individuali e collettivi che intervengono nel produrre e mantenere il fenomeno. 

Il piccolo gruppo consente spesso l’osservazione di dinamiche e processi – allo stato nascente o terminali, a seconda del tipo di gruppo – collegabili all’intergioco degli assunti di base (attacco-fuga, accoppiamento, dipendenza) così come concepiti da Bion. 

Ogni sottogruppo sociale tende a cristallizzarsi progressivamente su uno specifico assunto di base con sempre minori capacità di trasformare la propria “cultura”, cui ciascun individuo tende ad aderire acriticamente per fortificare i propri sentimenti di appartenenza al gruppo. 

Tendenze alla contrapposizione culturale generazionale insieme a bisogni ludico-trasgressivi (così come ho potuto osservarli conducendo un Gruppo di Formazione Psicologica centrato sul Rapporto Interumano con Tossicodipendenti) possono progressivamente assumere l’aspetto di tragico gioco alla “roulette russa”, con l’eroina al posto della rivoltella, come è emerso attraverso una attività di gruppo con tossicodipendenti. 

Il primo gruppo cui farò riferimento l’ho condotto circa sette anni fa. Si trattava di un gruppo di Formazione centrato sul rapporto interumano con tossicodipendenti da parte di volontari di diversa età; infatti il gruppo era composto da insegnanti e studenti di alcune scuole medie superiori. 

I partecipanti, attraverso il gruppo di formazione, intendevano acquisire degli strumenti psicologici utili all’approccio con allievi o compagni tossicodipendenti ai fini di un eventuale recupero. A livello preconscio era presente nei partecipanti il desiderio di ottenere, attraverso il lavoro di formazione, una sorta di licenza riguardo l’attività di volontariato con tossicodipendenti, altrimenti sentita come eccessivamente trasgressiva, in mancanza di adeguate conoscenze e di strumenti circa l’agire. 

Ritengo che ad un livello ancora più profondo, pertanto del tutto inconsciamente, i partecipanti, sia gli adulti che i giovani, avevano aderito al gruppo per rinforzare le proprie difese psicologiche contro pulsioni tossicomaniche risvegliate, come spesso accade, dalla vicinanza con la droga e con soggetti drogati. Una seduta del gruppo risultò particolarmente illuminante riguardo quest’ultimo aspetto. 

Quella sera nel gruppo si poteva avvertire un certo disagio collettivo, una certa tensione velata. Alcuni giovani, dopo il mio arrivo, erano rimasti a lungo affacciati al balcone, senza mostrare eccessiva voglia di rientrare e prendere posto. 

Iniziata la seduta, la discussione avveniva in modo svogliato e divagante; si parlava di scuola, di esami, della maggiore o minore importanza degli appunti dettati dall’insegnante rispetto ai libri di testo, e così via. Nel complesso regnava un’atmosfera stagnante e confusa, il gruppo era incapace di portare avanti dei discorsi ordinati e di funzionare come gruppo di lavoro. Ciascuno parlava senza convinzione e senza alcuna vera partecipazione affettiva come se in realtà ognuno si rendesse conto che quello che stava dicendo o quello di cui si stava parlando aveva poco o niente a che fare con i propositi coscienti del gruppo. 

Di questo andamento probabilmente il gruppo me ne faceva una colpa, in quanto conduttore, provando un certo risentimento nei miei confronti. 

Inoltre, il gruppo mostrava scarsa capacità di sviluppare immagini rappresentative e fantasie e ciò facilitava l’agire. Mi sentii in dovere di ricordare al gruppo che lo scopo delle riunioni era analizzare il rapporto interpersonale nell’approccio con tossicodipendenti. 

Fu a questo punto che una studentessa di nome Adriana, che potremmo definire la leader dei membri più giovani, “trasse il dado”, cioè si comportò nel modo e nella forma più congeniale quella sera al gruppo. Mi chiese se fumare quaranta spinelli al giorno potesse risultare nocivo alla salute, aggiungendo che si era incontrata con un ragazzo tossicodipendente di sua conoscenza il quale le aveva confidato che dovendo sostenere gli esami di fine anno non vedeva l’ora di poter fumare quaranta spinelli in un solo giorno, un volta liberatosi dagli impegni scolastici. lo cercai di saperne di più sulla relazione interpersonale che si era stabilita tra la studentessa e il ragazzo tossicodipendente, ma nel gruppo si produsse una serie di interventi, ad opera sia dei giovani che degli insegnanti, che sembravano avere lo scopo di sviare l’argomento. Adriana tentava di evadere dall’analisi del suo rapporto col tossicodipendente, sostenuta dal gruppo che tendeva a considerare il “caso” come privo di risvolti interessanti dal punto di vista psicodinamico. 

Potevo cogliere una certa ansietà generale, come se tra i partecipanti vi fosse il timore che emergesse qualcosa di indiscreto. Adriana da me sollecitata ripetutamente si decise a rivelare che era stata spinta dalla curiosità ad avvicinare quel giovane perché era noto come il “più grande fumatore di spinelli della città”. Si era incontrata più volte con lui, e avendogli parlato del nostro gruppo, avevano deciso insieme che lei portasse uno spinello per mostrarlo a tutti i partecipanti. Detto questo, depose su un tavolo un pacchetto che teneva in tasca e apertolo mostrò a tutti uno spinello. Chiesi ad Adriana come mai avesse pensato di fare questo, ma la ragazza invece di rispondere alla mia domanda mi chiese, a sua volta, cosa c’era di male e, mentre il gruppo era ancora intento a stabilire se quaranta spinelli in un giorno potessero essere dannosi, aggiunse che forse io avevo paura dello spinello. 

Potevo cogliere in Adriana un atteggiamento di sfida che a stento era tenuto coperto, e ciò naturalmente le provocava una paura che aveva proiettato su di me. Naturalmente lo spinello in se e per sé non c’entrava per niente, ma Adriana aveva colto in me un certo turbamento che lei aveva interpretato come paura dello spinello, mentre in realtà la mia angoscia era molto più profonda, paragonabile a quella che può provare un medico che debba assistere alla nascita e allo svilupparsi in vivo di un tumore in un proprio paziente. 

Adriana potenzialmente era già una tossicodipendente e in lei quella sera aveva parlato la tossicodipendente. Il gruppo, che coscientemente era stato chiamato ad una insidiosa complicità, a livello inconscio era stato invece investito proiettivamente delle valenze dell’altra parte di lei, la parte che lottava le pulsioni tossicomaniche. Esso poteva aiutarla e sostenerla nel non cedere alla tentazione, al dèmone. La reazione del gruppo al suo “acting-in” doveva offrirle l’indice attraverso cui orientarsi. Una paradossale forma per non giocarsi l’esistenza. 

Il secondo gruppo cui farò riferimento risale a due anni fa. I soggetti che vi facevano parte erano tutti tossicodipendenti cronici. Pur conscio delle difficoltà cui sarei andato incontro, personalmente ero fortemente interessato a verificare la possibilità di svolgere una terapia di gruppo con tossicodipendenti ed, inoltre, quali meccanismi gruppali fossero attivi, quali fantasie, quali assunti di base, quale mentalità di gruppo. I più scettici riguardo alla possibilità che gli altri si presentassero alla prima seduta erano gli stessi tossicodipendenti, ma contrariamente alle loro aspettative tutti gli aderenti vennero regolarmente in occasione della prima riunione. 

All’inizio, attraverso le comunicazioni dei partecipanti, emerse la notevole dose di scetticismo e di diffidenza presente in loro per tutto ciò che aveva a che fare con la droga, con i drogati, con le istituzioni destinate al recupero. Concordavano unanimamente nell’opinione che le comunità terapeutiche avessero il fine di sfruttare i fondi regionali; che gli ex drogati che gestivano le comunità alla prima occasione tornassero a drogarsi. Rimarcavano il fatto che dei tossicodipendenti non c’è mai da fidarsi, che le coppie dei tossicodipendenti devono sempre temere il tradimento da parte del partner e scappatelle-droga all’insaputa dell’altro. Evidentemente ciascuno proiettava all’esterno l’essere diventato falso e bugiardo e la scarsa autostima. Ritengo che nello stesso tempo il gruppo dei tossicodipendenti tendesse metaforicamente a lanciarmi dei segnali come se volesse sottolineare che non mi dovevo fidare di loro. Per altri versi, malgrado le critiche nei confronti delle comunità terapeutiche e delle loro regole di vita, i tossicodipendenti manifestavano il desiderio di rimanere costantemente in contatto con una persona di loro fiducia, uno psicologo che stesse loro a fianco ventiquattr’ore su ventiquattro per guidarli, per proteggerli. Questo mi fece sorgere il pensiero che il gruppo stesse fantasticando che io potessi diventare una sorta di loro angelo custode. 

I partecipanti erano tutti concordi nel ritenere che il metadone non avesse alcuna utilità ed inoltre tutti sostenevano che all’inizio della tossicomania v’è sempre curiosità. Criticavano uno psicologo che si era occupato di loro per le domande che aveva rivolto: “come mai hai cominciato?”, “perché ti sei bucato la prima volta?”, ecc. Ad un certo punto uno dei partecipanti, tra l’approvazione generale, cominciò a decantare in modo seduttivo gli effetti dell’eroina e della cocaina; ciò mi fece pensare che il gruppo stesse fantasticando che io potessi diventare uno di loro; ma una ragazza del gruppo disse qualcosa che mi fece pensare che io venissi considerato come un bambino da preservare. Ma non si trattava di un pensiero affettuoso; bensì di un pensiero sminuente il mio valore personale rispetto alla loro capacità di vivere l’avventura “eroina”. Infatti attraverso le comunicazioni di un altro partecipante potei comprendere che il gruppo mi poteva considerare un bambino da preservare sino a che non c’era la possibilità di spillarmi dei quattrini; in questo caso non ci sarebbe stata alcuna esitazione a farmi entrare nel “giro” dei drogati. Quando interpretai questo al gruppo, dicendo che venivo considerato come un bambino e che la mia promozione ad adulto sarebbe avvenuta solo in conseguenza del guadagnarmi lo “status” soddisfacendo la loro necessità di avere denaro, si verificò un cambiamento nel gruppo e venne fuori la parte più dolorosa della loro esperienza personale e le motivazioni più vere che avevano portato alla tossicomania come ad esempio le crisi personali. 

Un tossicodipendente sposato e padre di un bambino raccontò di una soluzione fisiologica che si era praticato per flebo e in cui aveva aggiunto dell’eroina convinto di poter chiudere la cannula quando avesse voluto, ma che in questo modo aveva rischiato di finire in coma. 

Io dissi che questo mi faceva ricordare la roulette russa, ma l’interpretazione non fece piacere ai miei “tossici” perché riguardava le loro angosce di morte e le loro pulsioni autodistruttive. 

Nel complesso il clima relazionale del gruppo era abbastanza piacevole, non c’era l’atmosfera da laboratorio clinico; uno dei tossicodipendenti aveva cominciato a rivolgersi a me in modo confidenziale dandomi del tu; se non fosse venuto un collaboratore a ricordarci l’ora tarda, la seduta avrebbe potuto proseguire senza fine. Questo può far nascere la considerazione che i tossicodipendenti anche per le sedute di gruppo possono diventare voraci, ingordi, senza limiti; almeno per una volta, dato che in occasione della riunione successiva nessuno dei partecipanti ritornò. 

Alfredo Anania 

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 35-43




Amore e capacità di stare soli 

La nostra mente, tra le sue funzioni, assolve al compito di fare vivere all’individuo un “continuum” esistenziale privo di cesure, di spazi vuoti, di assenze, di mancanza di oggetti e di relazioni con gli oggetti. 

Rappresentazioni, fantasie, processi onirici possono essere considerati anche quali produzioni psichiche che, con il concorso dell’incoscio, contribuiscono a conferire una sensazione di “plenum” all’esistenza individuale. La paura della morte nasce dal timore di dover perdere in modo totale e definitivo la nostra continuità esistenziale. Il senso di solitudine scaturisce dal sentimento di perdita più o meno irreparabile della nostra possibilità di continuare a mantenere una relazione con gli oggetti. 

Diversi autori sono concordi nel sostenere che il primo e più acuto sentimento di perdita e di distruzione, il primo grande vuoto, la prima grande rottura, che possiamo considerare “inscritta nella nostra sensorialità corporea”1 avviene con la nascita, con il nostro primo affacciarci alla vita fuori dal grembo materno. Prima, come afferma M. Sapir, “c’è una specie di armoniosa mescolanza, interpenetrante, diciamo un mix up, un felice impasto per così dire tra l’individuo e il suo mondo ambiente (…) Dopo la nascita si produce una separazione tra l’individuo ed un ambiente fin lì stabile e addirittura non percepito. 

Si verifica una rottura dell’armonia poiché gli oggetti cominciano ad emergere da questo magma, gli uni amici, gli altri ostili. In quel momento tutto è in via di emergenza e ancora non esistono oggetti nel vero e proprio senso del termine, ma solo dei pre-oggetti”2. 

M. Balint ha distinto fondamentalmente due diversi modi di reagire da parte del bambino a questa emergenza di oggetti, o meglio alla protoemergenza 

di pre-oggetti. Un tipo di reazione è quella “ocnofila”, cioè la tendenza all’aggrappamento agli oggetti in quanto sentiti rassicuranti, protettivi, vitali; mentre minacciosa o terrificante sarà sentita l’assenza, lo spazio intermedio. 

Nell’altro tipo di reazione, denominata da Balint “filobatica”, sono sentiti gradevoli soprattutto gli spazi vuoti, perché proprio gli oggetti sono avvertiti come ostili e minacciosi. 

Probabilmente la vita offre un continuo susseguirsi di movimenti ocnofili e di ripiegamenti filobatici, di protensioni verso gli altri e di ritorni entro se stessi – reimmersioni nell’interiorità che, nelle forme più regressive, comportano la scomparsa degli oggetti o la totale confusione con essi, così come per il feto nel grembo materno. 

In altri casi il ritirarsi regressivo dagli oggetti può essere seguito dal tentativo di creare qualcosa di diverso e di migliore; tale stato trasformativo può accompagnarsi a profondo malessere. Ciò ha portato H. F. Ellenberger a coniare il termine di “malattia creativa”. “Questa rara condizione”, afferma Ellenberger, “presenta il quadro di una nevrosi grave, talvolta di una psicosi. Possono esservi oscillazioni nell’intensità dei sintomi, ma il paziente è costantemente ossessionato da un’idea prevalente o all’inseguimento di qualche difficile scopo. Egli vive in assoluto isolamento spirituale e prova il sentimento che nessuno possa aiutarlo, da qui i suoi tentativi di guarirsi da sé. Ma generalmente sentirà che tali tentativi 

intensificano le sue sofferenze. La malattia può durare tre o più anni. La guarigione avviene spontaneamente e rapidamente; è caratterizzata da sentimenti di euforia ed è seguita da una trasformazione della personalità. Esempi di questa malattia si possono ritrovare tra gli sciami· della Siberia o dell’Alaska, tra i mistici di tutte le religioni e tra certi scrittori e filosofi creativi”3. 

Balint ha evidenziato che l’Amore Primario, quello esistente tra il bambino piccolo e la madre, è una vicenda duale che ha la caratteristica di corrispondere ad un sentimento di armonia in presenza dell’altro in cui tutto va da sé, mentre quello che proviene dal mondo esterno, tutto quello che è estraneo alla relazione a due, non viene tollerato. Allo stadio dell’Amore Primario, sottolinea Sapir, “quel che domina è il bisogno di essere amato passivamente, senza compiere alcuno sforzo. Tutto ciò che circonda il soggetto per lui è in sé privo di interesse. 

Tutto ciò che conta è il mantenimento dell’armonia, è la soddisfazione non dei suoi desideri, ma essenzialmente dei suoi bisogni”. E, facendo riferimento all’interessante lavoro di Winnicot sulla capacità del bambino di stare solo, Sapir rileva che .la capacità di un individuo a stare solo è un fenomeno molto elaborato e che dipende da numerosi fattori, però esso ha il proprio fondamento in uno stadio che può essere estremamente arcaico: “Si tratta dell’esperienza di stare solo in quanto lattante o bambino piccolo in presenza della madre. Il fondamento della capacità di stare soli è dunque paradossale trattandosi dell’esperienza di essere soli ma in presenza di un’altra persona” … Questo è un tipo di relazione particolare, la relazione del neonato o del lattante con la madre anche se questa può momentaneamente essere assente e rappresentata solo da un oggetto quale la culla o l’atmosfera generale e l’ambiente. In questo caso avremo una relazione dell’Io che contrasta con una relazione con l’Es, e la prima si descriverà come armoniosa, la seconda come pulsionale e qui ritroviamo, diversamente espressa, l’atmosfera dell’amore primario descritta da Balint.4 

E’ in base a queste considerazioni che possiamo meglio comprendere quello “scarto più o meno vistoso” che F. Fornari segnala tra identità e identificazione; attribuendo la prima all’Io, la seconda (cioè l’identificazione) al Sé. Fornari in “I segni del Sé e il Sé Originario”5 critica W. R Bion quando questi sostiene che “il bambino vivrebbe primitivamente le qualità psichiche del bisogno insoddisfatto”, qualità psichiche che trasformandosi in presenze minacciose interne devono essere evacuate attraverso l’identificazione proiettiva. 

“Questa concezione bioniana dell’origine del pensiero” afferma Fornari, “rende però difficile immaginare la possibilità del crearsi di rappresentazioni buone del seno e anche di rappresentazioni positive del Sé. Se infatti si postula che il pensiero nasce solo passando attraverso l’assente, cioè la frustrazione e quindi attraverso una presenza cattiva, non è mai possibile arrivare al pensiero, perché la presenza cattiva, come trasformazione del seno buono che non c’é più, determina evacuazione. Se invece c’è soddisfazione, l’oggetto gratificante non può essere pensato perché la rappresentazione nasce nei riguardi di qualcosa che deve essere presentificata perché è assente”, “bisogna quindi postulare che, perché nasca il pensiero nell’apparato per pensare, è necessario che ci siano elementi digeribili, ma questo a sua volta può essere garantito solo dal presupposto che il pensiero non nasca primariamente sotto forma di elementi beta, bensì da una disposizione filogenetica primaria a produrre oniricamente rappresentazioni di presenze buone al momento della gratificazione. A loro volta però le presenze buone, per essere rappresentate, comportano il loro non essere più presenti. Ne concludiamo quindi che la nascita delle rappresentazioni del Sé comportano il primato di una esperienza realmente buona e nello stesso tempo un suo non esserci più”. Ma perché il bambino realizzi il “recupero nel bene attuale di ciò che é stato un bene nel passato” è necessario che intervenga quello che Bion chiama “reverie materna”, quale “fonte psicologica che provvede al bisogno di amore e di comprensione del bambino”. 

In conclusione la “nascita del pensare”, come sostiene Fornari, “dipende essenzialmente da un evento affettivo positivo in quanto presuppone che un altro assuma la funzione enzimatica che permette di trasformare le esperienze cattive in presenze buone, trasformando la frustrazione in soddisfazione”, pertanto, “la capacità di tollerare la frustrazione comporta un pensiero onirico della madre, che a sua volta potrà essere incorporato dall’apparato mentale del bambino, proprio perché si inserisce in una fede primaria del bambino che il bene esiste in base ad una esperienza presente e passata”. 

“Se durante l’allattamento”, scrive Bion6 “la madre non può permettersi la reverie – o se può permettersela senza però associarla all’amore per il bambino o per suo padre – questa incapacità, quantunque per lui incomprensibile, verrà comunicata al bambino e una certa qualità psichica sarà convogliata nei canali della comunicazione, cioè nei legami tra madre e figlio”. Legami primari che probabilmente possono condizionare tutte le successive relazioni d’oggetto. “Se il bambino è munito di una notevole capacità di tollerare la frustrazione – continua Bion – la tragica evenienza di una madre incapace di reverie, incapace cioé di soddisfare i suoi bisogni psichici, può essere fronteggiata ugualmente. All’altro estremo troviamo il caso del bambino gravemente incapace di sopportare la frustrazione: costui non è in grado di superare neppure l’esperienza di avere una identificazione proiettiva con la madre capace di reverie senza conseguirne un crollo; l’unica cosa che lo farebbe sopravvivere sarebbe un seno che nutre incessantemente, il che non è possibile, non foss’altro perché l’appetito viene a mancare”. 

La capacità di stare soli, così come la capacità di amare appaiono dunque come la conseguenza di una capacità da parte della madre di sviluppare pensieri onirici contenitivi il figlio, il quale a sua volta potrà identificarsi con la madre buona e quindi acquisire la capacità di trasformare quelli che Bion definisce elementi beta (indigeribili) in pensieri alfa (onirici) e, pertanto, possedere a sua volta la capacità di contenere oniricamente l’oggetto d’amore così come la capacità di autocontenersi. 

La dinamica della vita psichica, dal punto di vista affettivo, si propone come un susseguirsi di perdite e di ritrovamenti i cui estremi sono rappresentati dalla melanconia e dall’amore. Nell’innamoramento la sensazione è di riunificazione totale con l’oggetto amato, di ricostituzione dell’unità originaria, di ritorno all’ “Eden Ancestrale” in. cui tutte le parti coesistevano; e, pertanto, avviene una perdita di individualità che è alla base di ogni collegamento simbolico tra amore e morte. Ma in questo caso, così come nei miti degli eroi e nei riti religiosi iniziatici, la morte riguarda la vecchia personalità che fa posto alla nuova, rinvigorita dall’emergere di nuove energie vitali prima racchiuse’ nell’inconscio. 

La psicologia analitica propone l’innamoramento come un sentimento che non corrisponde solamente ad una riattivazione di esperienze primarie individuali ma anche ad una riattivazione dell’archetipo madre-anima che può condurre ad un risanatore arricchimento della personalità. La favola di Amore e Psiche nelle Metamorfosi di Apuleio può essere interpretata come la descrizione di un cammino iniziatico dell’anima, che attraverso l’Eros può progressivamente arricchirsi spiritualmente. 

M. L. Von Franz, nel suo studio sull’Asino d’Oro, fa osservare: .Nei misteri eleusini si assiste alla nascita di un bambino divino, che a volte veniva chiamato Eros. L’idea archetipica centrale indica che la madre terra divina genera un bambino divino che è nel contempo un salvatore e un dio della fertilità. Al “bambino divino” Ovidio dà il nome di Puer Aetemus, gli conferisce cioè il più alto valore interiore, quello del ‘nuovo Dio nascente’,. 

Troviamo, scrive la Von Franz “il dio Eros su monumenti funebri greci e romani, come spirito protettore del defunto o come suo spirito. Spesso in queste raffigurazioni funebri egli regge in mano una fiaccola capovolta simbolo della morte, a volte anche . . .. stringe per le ali una farfalla che sadicamente brucia con la sua fiaccola. Il simbolo significa che Eros, dio dell’Amore, è nello stesso tempo il tormentatore e il purificatore dell’anima umana. Infatti l’amore con le sue passioni e i suoi tormenti favorisce lo sviluppo psichico verso l’individuazione; non esiste infatti nessun reale processo di individuazione senza l’esperienza dell’amore. Detto in altri termini, Eros stringe dolorosamente al petto la farfalla come simbolo dell’anima, che mentre viene martoriata dal dio dell’Amore si purifica e migliora. Su una gemma meravigliosa la dea Psiche è legata dal dio con le mani dietro la schiena ad una colonna sormontata da una sfera. Questa immagine esprime in modo pregnante la situazione di partenza del processo di individuazione; Eros lega Psiche ad una colonna che è sormontata da una sfera, simbolo della totalità che può essere raggiunta solo con la sofferenza. A volte si vuole fuggire una persona alla quale si è legati, per liberarsi dalla dipendenza, ma Eros attraverso questo legame ci costringe a prendere coscienza. L’amore ci spinge a osare tutto e perciò ci guida verso noi stessi. Perciò uno dei molti attributi di Eros nell’antichità era “purificatore dell’anima”. “Eros nel caso positivo”, scrive ancora la Von Franz, “configurerebbe l’aspetto creativo e la forza vitale, oltre che la capacità di provare emozioni e di percepire il senso della vita, di abbandonarsi all’altro sesso e di instaurare relazioni corrette, di riuscire ad elevarsi al di sopra dell’ottusa meschinità della vita, di provare sentimenti religiosi, di trovare la propria concezione del mondo, di guidare altre persone e di aiutarle. Coloro che incontrano un essere in cui l’Eros è vivo percepiranno il misterioso nucleo interiore nascosto dietro il modesto lo umano, poiché costui possiede forza creativa e vitalità”7. 

Pur affascinandoci, la storia di Psiche, così come la storia di Lucio – il protagonista maschile dell’Asino d’Oro – desta delle legittime perplessità. Infatti, entrambi i personaggi, così come in ogni iniziazione religiosa o misterica, non appaiono subire alcuna vera e profonda trasformazione della personalità, perlomeno per quanto riguarda l’assunto di base che sembra in essi prevalere che è quello della dipendenza. 

Sia Psiche che Lucio sembrano inseguire un oggetto idealizzato cui legarsi indissolubilmente. Non appare risolto il problema di fondo rappresentato dall’attesa di soddisfazioni narcisistiche attraverso la riunione simbolica con l’oggetto ideale ed onnipotente. Questa riunione avviene attraverso Eros e sviluppa Eros, ma non produce alcuna capacità di amore, di investimento libidico, privo di più o meno coscienti contraccambi narcisistici. Inoltre, Psiche e Lucio si arricchiscono di Eros ma non procedono oltre nella capacità di stare soli. La loro spiritualizzazione, che nel pensiero psicoanalitico iunghiano rappresenta uno scioglimento dei legami con la madre-terrena, si risolve in vantaggio di nuovi legami con esseri celesti o se si preferisce con la madre-divina; non a caso dall’unione tra Eros e Psiche nasce Voluttà. 

Alla luce di queste considerazioni l’appellativo di Puer Aeternus, attribuito da Ovidio ad Amore, può avere un collegamento con il fatto che Eros riproduce eternamente, quale coazione a ripetere, un tipo di legame che possiamo definire “filiale”, nel senso che l’amore per l’amante come l’amore mistico per la divinità si caratterizzano per la sensazione di ritrovamento dell’amore primario – quello che lega il bambino piccolo alla madre – che si fonda sulla soddisfazione di bisogni regressivi di nutrizione e di contenimento senza limiti. Questo tipo di amore potremmo chiamarlo “dionisiaco” perché è legato all’impetuosa ebrezza di riunificazione con l’oggetto d’amore e con la natura – prima sentita “estraneata, ostile o soggiogata”8 – e si accompagna ad un sentimento di espoliazione della propria individualità. 

Effetti del tutto opposti sembrano ottenibili tramite tragitti iniziatici che possiamo considerare primitivi, quali le iniziazioni sciamaniche o stregoniche, diretti a sviluppare una autentica capacità di stare soli e forme di amore prive di contraccambi narcisistici. 

Gli individui che approdano a queste forme di iniziazione sviluppano una dimensione personologica, per così dire “apollinea”, considerato che Apollo nella mitologia non solo rappresenta l’espressione più sublime della individuazione, ma anche la ambiguità più greve; Apollo l’Obliquo, che “coglie la visione attraverso il 1Jiù diretto dei confidenti, l’occhiata che conosce ogni cosa”9 è anche colui che non dice, né nasconde, ma accenna solamente. 

 

Don Juan, lo stregone istruttore dell’iniziando uomo civile nell’Isola del Tonal di Carlos Castaneda10 definisce “guerriero” colui che ha terminato il suo iter formativo: “guerrie~o” è colui che, imponendosi una determinata autodisciplina, si rende “senza macchia”, cioè “impeccabile”. La fiducia in sé del guerriero, afferma Don Juan nell’opera citata: “non è la fiducia in sé dell’uomo comune. L’uomo comune cerca la certezza negli occhi di chi ha di fronte, e chiama questo fiducia in sé. Il guerriero cerca di essere senza macchia ai propri occhi e chiama questo umiltà (. ..) La fiducia in sé implica sempre qualcosa per certo: l’umiltà implica d’essere senza macchia nelle proprie azioni e nel proprio sentire”. L’acquisizione di questo tipo di “umiltà” è il risultato di un processo di apprendistato molto lungo che conduce l’iniziato ad una posizione particolarmente solitaria rispetto al resto degli uomini ed anche rispetto ai compagni, agli altri iniziati. 

Per comprendere che tipo di amore, cioè quali forme di relazioni “buone”, possa stabilire un uomo che, in virtù di un training esoterico, venga a trovarsi in una dimensione di individualismo esclusivo e di asocialità essenziale possiamo fare riferimento al tipo di rapporto che lo stregone stabilisce con il suo allievo. La prima caratteristica è l’accompagnamento. Lo stregone non è un maestro nel senso classico del termine e neanche un conduttore, ma è un assistente partecipante all’esperienza psicologica ed emotiva dell’allievo ora attuandola ma anche neutralizzandola, nel momento in cui l’allievo mostra di non tollerare la terribilità dei fenomeni con cui viene in contatto. La seconda caratteristica è la discontinuità. Lo stregone, come se dotato di reverie, si rende presente o si assenta, interviene o si astiene, in relazione ai reali bisogni dell’apprendista. La terza caratteristica è il profondo rispetto dell’altro. “L’umiltà del guerriero”, afferma Don Juan, “non è l’umiltà del mendicante. Il guerriero non abbassa la testa dinanzi a nessuno, ma nello stesso tempo non permette a nessuno di abbassare la testa dinanzi a lui. Il mendicante invece si butta in ginocchio e si umilia davanti a chiunque giudichi superiore, ma nello stesso tempo pretende che chiunque gli sia inferiore si umili davanti a lui”. 

La capacità di stare solo dell’iniziato non esclude i sentimenti penosi e gli affanni ma, a differenza dell’uomo comune, egli evita di indulgervi, pertanto è privo di tristezza. “Un guerriero”, insegna Don Juan, “è sempre pieno di gioia perché il suo amore è inalterabile . . . . .la tristezza è solo di quelli che odiano proprio ciò che dà riparo ai loro esseri”. 

Il metodo di addestramento psicoanalitico ha una parentela, pur se lontana, con le pratiche di iniziazione – soprattutto quelle in uso nelle scuole filosofiche dell’antichità greco-romana. 

Gli adepti di queste scuole dovevano informare il loro stile di vita alle regole ed agli insegnamenti del fondatore, dovevano imporsi delle restrizioni e dovevano seguire un determinato addestramento: inoltre dovevano trovare un mentore, in genere un anziano saggio che aiutasse a superare i difetti personali e a raggiungere un migliore dominio sulle passioni più accese. 

Con il training psicoanalitico viene introdotto un elemento inedito rispetto al passato: l’esplorazione profonda del mondo intrapsichico dell’allievo, il che conferisce alla relazione iniziatore-iniziando le caratteristiche di un legame molto intenso, legame che è esso stesso oggetto di analisi. 

La risoluzione della relazione analitica può avere le caratteristiche di un evento catastrofico, di una rottura che può evocare il primo grande vuoto, quello che si produce al momento della nascita. L’analisi produce spesso una sorta di malattia creativa: alcune volte, probabilmente, è la fine dell’analisi che comporta nell’analizzato un vissuto di solitudine che appare anch’esso necessario al definirsi di alcuni importanti mutamenti interiori delle personalità, attivati dal training. Ancora una volta possiamo osservare un collegamento tra Amore (o transfert libidico) e morte psicologica. 

Probabilmente uno degli aspetti più interessanti è che l’analisi comporta un abbandono del riserbo e una messa a nudo del Sé e nello stesso tempo una osservazione trasversale della stessa vicenda analitica che, integrando la dimensione “dionisiaca” e la dimensione “apollinea”, consentono lo sviluppo di una capacità di percezione “binoculare”, per cui l’Eros liberato e vissuto può essere contemporaneamente contenuto oniricamente e razionalmente interpretato. Ciò consente da parte dell’analista di sciogliere mentre annoda, cioè di preparare seduta per seduta la risoluzione della relazione con l’allievo nel momento stesso in cui viene istituita e sviluppata. 

Appare evidente che con la perdita dell’analista, alla fine del tragitto duale, muore la parte “filiale” dell’analizzato ma nasce una personalità che, tramite l’identificazione con l’analista, sarà dotata della capacità di stare sola (ma in presenza dell’analista introiettato). 

“Un guerriero si considera già morto”, afferma il più volte citato Don Juan, “per cui non ha nulla da perdere. Il peggio gli è già accaduto, quindi egli è lucido e calmo . . .”, e più avanti, “noi siamo soli . . .. ma morire soli non significa morire di solitudine”11.

Alfredo Anania

1. A Giannotti, G. De Astis, Trauma della nascita e Patologia del Sé, in “Atti del Congresso La nascita Psicologica e le sue Premesse Bilogiche”. IES Mercusy Ed., Roma, 1984 pag. 223. 
2. M. Sapir, La formazione psicologica del Medico, Etas Libri Ed., Milano, 1975, pag. 77. 
3. H. F. Ellenberg, La scoperta dell’Inconscio, Boringhieri Ed., Torino, 1972, pag. 1034. 
4. M. Sapir, op. cit., pagg. 79-80. 
5. F. Fornari, I segni del Sé e il Originario, in “Atti del Congresso La nascita psicologica e le sue premesse biologiche”; IES Mercury Ed., Roma, 1984, pagg. 246-248.
6. W.R Bion, Apprendere dall’esperienza, Armando Ed., Roma, 1972, pagg. 73-75. 
7. M-L. Von Franz, L’Asino d’Oro, Boringhieri Ed., Torino, 1985, pagg. 74-77. 
8. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi Ed., Milano, 1986, pag. 25. 
9. G. Colli, La nascita della Filosofìa, Ade1phi Ed., Milano, 1978, pagg. 9-16. 
10. C. Castenada, L’isola del Tonal, Rizzoli Ed., Milano, 1975, pagg. 25-47. 
11. Ivi, pagg. 285-289.
 
 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 57-66.




Tomasi di Lampedusa: lezioni inglesi 

«Fra il novembre 1953 e la primavera del 1955 Lampedusa percorse a piccolissime tappe tutto lo svolgimento storico della letteratura 

inglese, cominciando proprio dai poemi anglosassoni e giungendo a Eliot e a Fry. Non so come procedesse per assicurarsi delle date e di altre nozioni spicciole, né quanti libri riprendesse in mano per rinfrescare la propria memoria; certo si aiutava con qualche manuale, forse sfogliava o rileggeva qualche testo. Ma nelle pagine che scriveva c’era ben poco di manualistico: tutto era sostenuto da una miracolosa memoria di quasi mezzo secolo di letture, e ravvivato dall’intelligenza.1» 

Così racconta Francesco Orlando, allora giovane intellettuale palermitano alla ristretta corte letteraria del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 

Gli appunti delle lezioni di letteratura inglese e poi francese, rivolte quasi esclusivamente allo stesso Orlando e a Gioacchino Lanza, suo futuro figlio adottivo, costituiscono una parte fondamentale della biografia letteraria di Tomasi di Lampedusa: quelle sue personalissime conversazioni rivelano passioni, approcci, giudizi che certo fanno luce sulla complessità dell’uomo e dello scrittore. 

Ancora Orlando, nel suo vibrante Ricordo di Lampedusa scritto nel 1963, a cinque anni dalla morte di Tomasi, si sofferma sulla funzione consolatoria che la letteratura doveva avere per quel gentiluomo riservato e incline alla malinconia: «la letteratura era stata ed era la grande occupazione di questo nobile che non so quali traversie patrimoniali avevano avulso tanto da ogni mondanità quanto da ogni funzione pratica, e che era ridotto a vivere isolato senz’altro lusso che le ingenti spese per libri, soprattutto per le adorate e sempre maneggiate Pléades francesi.2» 

E i libri, esseri viventi nella grande casa di via Butera, dove ebbero luogo le lezioni di letteratura, si animarono di nuova vita, e il principe scrisse fitte pagine di appunti e parlò di centinaia di opere letterarie e di autori, impegnandosi in un faticoso e colossale esercizio di metodo e di memoria per l’incanto di quei giovani allievi privilegiati che ne avrebbero fatto tesoro per la vita. Per prime furono le lezioni inglesi. 

Lampedusa aveva una speciale predilezione per la letteratura e la cultura inglesi. Moltissimi i suoi soggiorni in Inghilterra già dalla metà degli anni ’20, in coincidenza con il periodo in cui suo zio Pietro Tomasi marchese di Torretta fu ambasciatore a Londra. E soprattutto a Londra, città amata, egli poteva passeggiare ritrovandovi le pagine di Johnson e di Dickens; in questa metropoli reale e letteraria, a testimonianza del cugino Lucio Piccolo, si sentiva veramente libero e a suo agio, il fisico ormai appesantito persino più agile mentre saliva al volo su un autobus londinese3. 

Il corso di Letteratura inglese fu diviso in cinque parti. Quasi tutta la prima parte fu occupata da Shakespeare e vennero commentati i sonetti e le opere teatrali, e via via, seguendo una coerente progressione cronologica si giunse agli scrittori del XX secolo, Joyce, Woolf, Greene; le lezioni su T. S. Eliot, che Lampedusa considerava “il più grande poeta contemporaneo”, furono le uniche a cui venisse ammesso, una sola volta, un pubblichetto che rasentava le dieci persone4. Erano 15-20 fogli manoscritti per lezione che l’autore dichiarava di provvedere a distruggere dopo ogni incontro, e ritrovati raccolti in vari blocchi alla morte dello scrittore, per essere pubblicati dopo traverse vicende soltanto nel 19915. 

Quello di Lampedusa era un modo di procedere che, come osserverà più tardi Orlando6, si accostava al metodo biografico di Sainte-Beuve, e dunque alla grande scoperta ottocentesca, dal romanticismo al positivismo, che la letteratura dovesse sganciarsi da canoni classici eterni, per essere indagata nelle relazioni tra opere, società e autore, inteso quest’ultimo nell’aspetto più privato di persona. Prospettiva che venne puntualmente rovesciata dalla rivendicazione novecentesca dell’autonomia della letteratura, la premessa cioè che un testo non sia mai riducibile ad una determinata realtà fattuale o autoriale, ma che venga percepito come opera d’arte a sé. 

Tomasi di Lampedusa apparteneva ad una categoria di intellettuali solitari e indipendenti, e perseverò contro corrente nel suo biografismo ottocentesco alla Sainte-Beuve che in Italia lo univa idealmente all’autorevole voce di un suo coetaneo, l’anglista Mario Praz. 

La letteratura diventava così per il futuro autore del Gattopardo una sorta di “diaristica cifrata7”, un mondo riconosciuto come proprio, poiché egli possedeva un «senso impareggiabilmente euforico e quasi tonico della letteratura8», fonte perenne di curiosità gioia e divertimento, e pure di lacrime che nascono dalla bellezza, come ebbe a dire a proposito della lettura di Lycidas di Milton. 

La straordinaria familiarità di Tomasi con gli scrittori inglesi rafforzava in lui la percezione di una corrispondenza spirituale che doveva poi affacciarsi alle pagine del Gattopardo, nell’aristocratico distacco di don Fabrizio Salina: una solida visione del mondo permeata di sottile ironia e pronta a sfociare in un tragico disincanto. Come l’inclinazione a rivolgere un amaro sorriso di scherno verso le vittime che spesso accompagna la figura perdente dell’underdog (uno dei temi fondamentali della letteratura inglese) che compare da Shakespeare a Swift a Dickens e in quasi tutti i grandi autori inglesi. 

Un’altra ragione rendeva Lampedusa vicino e in sintonia con il carattere britannico e polemico verso i difetti italiani e siciliani, una ragione che Orlando ha ritenuto nascere da una attitudine politica segretamente classista: 

«Va da sé che la sua ammirazione per il progresso sociale inglese dalla fine del Settecento in poi era quella, sincera, di ogni europeo colto; e si manifestava in modo aperto nelle lezioni (credo specialmente in quelle su Dickens). Ma Lampedusa non poteva non riflettere anche che quella forma di progresso era la sola attraverso la quale potesse conservare prosperità prestigio e soprattutto vitalità la classe sociale che era la sua; e perciò era da deprecare più amaramente la mortale sciatteria della medesima classe sulle terre ed ai tempi dei Borboni, con le conseguenze storiche che ricadevano sulla sua persona.9» 

Nelle lezioni inglesi si apre un vero e proprio dialogo intimo tra le pagine degli autori e la personalità eccentrica di Lampedusa, così che la digressione, una sorta di filosofica confessione, o l’aneddoto biografico diventavano parte dello stile soggettivo del principe. «La prima volta che si legge l’Amleto in inglese è una data10», o la riflessione che se una bomba distruggesse Palermo, la città morirebbe per sempre, senza che la sua esistenza sia testimoniata da un solo decente scrittore; ma Londra sopravviverebbe, immortalata da Dickens, poiché«in qualsiasi brutto alloggio, in qualsiasi recondita viuzza i suoi bizzarri personaggi dovessero recarsi, Dickens vi si era recato. Fortunata città che, insieme a Parigi, ha acquistato il premio supremo: quello di essere scrutata da un genio in ogni suo angoletto.11» 

È qui impossibile persino cercare di riassumere tratti più significativi del lungo percorso di Tomasi all’interno della storia letteraria inglese senza banalizzarne scelte e passaggi. Ma si può almeno riflettere su una categoria artistica che il principe-maestro giudicava di ordine superiore: gli scrittori creatori di mondi, i cosmourghi; tra loro alcuni giganti del canone occidentale: 

«Omero, Shakespeare, Cervantes, la Austen, Fielding, Ariosto, Balzac, Manzoni, Tolstoj, Proust […] I creatori di mondi debbono aver compiuto un’opera vasta, popolosa, omogenea nella varietà avente la facoltà di continuare a vivere indipendentemente dal creatore, rischiarata da una luce tutta sua, arricchita di paesaggi peculiari.12» 

E tra gli inglesi non è difficile immaginare (“ripensateci, chiudete gli occhi”) i paesaggi dei mondi della Austen o di Fielding. Shakespeare sfugge un’appartenenza che sarebbe troppo riduttiva, poiché non un paesaggio caratterizza la sua opera ma molti mondi. E un posto d’onore viene riservato da Tomasi anche a Dickens. 

«Dickens è uno dei più insigni creatori di mondi. E il suo mondo è uno dei più singolari: di esso conosciamo ogni campo, ogni strada, ogni volto. Eppure dobbiamo ogni volta dire a noi stessi che non abbiamo mai alcunché di simile: forse li rivedremo se saremo buoni e andremo in Paradiso. Il regno di Dickens è il realismo magico.13» 

Di Dickens (come del teatro di Shakespeare) Lampedusa ammirava l’arte sublime di fondere humour (insieme alla rifrazione deformante della caricatura) e eeriness, ovvero il senso fantastico del favolistico o del soprannaturale. Così i Pickwick Papers sono un vero capolavoro dickensiano, certamente il più amato dal poliedrico affabulatore delle lezioni inglesi, un’opera che viene considerata unica, un “blocco a parte” nella produzione dello scrittore vittoriano, un modello assoluto («Non esiste in nessuna altra letteratura un libro come Pickwick14»). 

Nei Pickwick Papers Lampedusa vede portata alla perfezione la curiosa e difficile arte del “realismo dis-realizzato”. I Pickwick Papers sono «un racconto di fate senza soprannaturale, un racconto che ha come Genio un vecchio piccolo ometto occhialuto e bonario15». 

È il mondo umano, universale, sorridente e arguto che passa attraverso i viaggi in carrozza per l’Inghilterra di Mr. Pickwick e dei suoi amici Winckle, Tupmann, Snodgrass e Sam Weller, che in particolare Lampedusa ama perché riunisce in sé l’umanità e lo spirito dei più grandi personaggi shakespeariani. E di Shakespeare questo personaggio di Dickens sembra ricordare il Falstaff dell’Enrico IV che memorabilmente viene definito nelle pagine della Letteratura inglese «gemma di Dio sa quanti carati, uno dei tre o quattro massimi personaggi shakespeariani. Adorabile mascalzone, uomo dallo spirito sempre invitto e sempre leggiadro, creazione impareggiabile del più alto humour, ognuno di noi darebbe dieci anni di vita per il privilegio di incontrarti un’ora.16» 

Come sottolinea Gioacchino Lanza Tomasi, un’analisi profonda della personalità letteraria di Lampedusa dovrà riconoscere alcuni modelli più di altri, e certamente «è Dickens più di Stendhal il vero biglietto d’accesso per chi voglia comprendere la singolarità del fenomeno Lampedusa.17» 

Nell’opera letteraria di Giuseppe Tomasi di Lampedusa affioreranno i tratti della prima maniera dickensiana, quel procedere leggero per accostamenti e bozzetti, il disegno d’insieme che lascia spazio alla caratterizzazione dei personaggi secondari; ma si potrebbe pensare alla scelta del punto di vista di osservatore insieme esterno ed interno della sua Sicilia, isola che aveva sempre cercato nostalgicamente e ironicamente respinto nel corso delle lunghe frequentazioni letterarie di vari decenni. 

Inevitabilmente la lettura delle pagine della Letteratura inglese (come anche della Letteratura francese) conduce il lettore di Giuseppe Tomasi di Lampedusa a sotterranei paralleli con la scrittura non solo del Gattopardo ma anche dei Racconti, e per chiudere questi brevi appunti vorrei ricordare il bellissimo racconto “La Sirena” (Lighea) nel quale l’affascinante e mitica creatura marina sembra essersi appropriata della magia soprannaturale della canzone di Ariel nella Tempesta di Shakespeare: 

«Sono immortale perché tutte le morti confluiscono in me da quella del merluzzo di dianzi a quella di Zeus, e in me radunate ridiventano vita non più individuale e determinata ma pànica e quindi libera. (… Mi narrava della sua esistenza sotto il mare, dei Tritoni barbuti, delle glauche spelonche, ma mi diceva che anche queste erano fatue apparenze e che la verità era ben più in fondo, nel cieco muto palazzo di acque informi, eterne, senza bagliori, senza sussurri. Una volta mi disse che sarebbe stata assente a lungo, sino alla sera del giorno seguente. “Debbo andare lontano, là dove so che troverò un dono per te.” Ritornò infatti con uno stupendo ramo di corallo purpureo incrostato di conchiglie e muffe marine.18» 

Maria Paola Altese

Note 

1 F. Orlando, Ricordo di Lampedusa, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, pp. 23-24. 
2 F. Orlando, cit., p.15. 
3 D. Gilmour, L’ltimo Gattopardo (1988), Feltrinelli, Milano, 2003, p. 64. 
4 Cfr. F. Orlando, cit. p. 24. 
5 Cfr. G. Lanza Tomasi, premessa a Letteratura inglese, in G. Tomasi di Lampedusa, Opere, Milano, 2004. 
6 Cfr. F. Orlando, Da distanze diverse, Torino, 1996, p. 84-85. 
7 Ivi, cit., p. 85. 
8 F. Orlando, Ricordo di Lampedusa, cit., p. 17 
9 Ivi, cit. p. 35. 
10 Ivi, cit., pag. 25. 
11 G. Tomasi di Lampedusa, in Opere, Letteratura inglese, Mondadori, 2004, p. 1118. 
12 Ivi, cit., pag. 1112. 
13 Ivi, cit., pag. 1113. 
14 Ivi, cit., pag. 1116. 
15 Ivi, cit., pag. 1116. 
16 Ivi, cit., pag. 724. 
17 Ivi, G. Lanza Tomasi, cit. p. 654 
18 G. Tomasi di Lampedusa, “La Sirena” in Opere, cit., pp. 517-518. 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 37-40.




This rough magie I here abjure

L’arte di Prospero 

Il celebre monologo del V atto di The Tempest contiene la rinuncia di Prospero alla sua arte magica. Prospero ha appena perdonato i suoi nemici, smarriti nell’incanto dell’ isola che sembra averne assorbito il passato e filtrato la coscienza colpevole; scioglie l’incantesimo, e affida ad Ariel il compito di liberarli. 

Rimasto solo sulla scena, Prospero pronuncia il monologo che si apre con un’invocazione agli evanescenti spiriti della natura che lo hanno servito, e, verso dopo verso, risuonano suggestivi echi dal discorso di Medea nel settimo libro delle Metamorfosi. 

Prospero: «Ye elves of hills, brooks, standing lakes, and g roves, ( … ) / you demi-puppets that / By moonshine do the green, sour ringlets make, / Where of the ewe not bites; and you whose pastime / ls to make midnight mushrumps, that rejoice / To hear the solemn curfew, by whose aid / ( Weak masters though ye be) l have bedimmed / The noontide sun, called forth the mutinous winds, / And twixt the green sea and the azured vault / Set roaring war; to the dread rattling thunder / Have l givenfire (. .. ) / graves at my command / Have waked their sleepers, oped, and let’ em forth / By my so potent art.» (V. 1. 34-50)1. 

In Ovidio, Medea ripete la sua invocazione magica nella notte misteriosa: 

«Nox, ait arcanis fidissima, quaeque di Maria Paola Altese diurnis / aurea cum luna succeditis ignibus astra (. .. ). / Telius, polientibus instruis herbis, / auraeque et venti montesque amnesque lacusque / dique omnes nemorum dique omnes noctis, adeste! Quorum ope, cum volui, ripis mirantibus amnes / in fontes rediere suos, concussaque sisto, / stantia concutio cantu freta, nubila pello / nubilaque induco, ventos abigoque vocoque, (. . .) / et silvas moveo, iubeoque tremescere montes / et mugire solum manesque exire supulchris.» (VII, 196-206)2. 

Ma se Medea si prepara a compiere un potente sortilegio di magia nera (ridarà la gioventù al vecchio Esone), Prospero conclude rinnegando la «barbara» magia e i suoi strumenti. 

Prospero: «this rough magic / l here abjure (. .. ) / /’ li break my staff, / Bury it certain fathoms in the earth, / and deeper than did ever plummet sound / l’li drown my book». (V. 1. 50-57)3. 

Prospero ha scelto di riconciliarsi con coloro che lo hanno tradito (Antonio, fratello «sleale», e Alonso, re di Napoli, dotato di un fratello altrettanto malvagio) e con il mondo degli uomini. Egli salperà dall’isola e tornerà ad essere il legittimo duca di Milano. 

La tempesta magica che ha causato il naufragio della nave dei suoi nemici e gli incantesimi creati con l’aiuto di Ariel sono ormai alle sue spalle. L’arte di Prospero ha svelato il gioco costruito sullo scambio di realtà e illusione, inganno e verità, e ora viene respinta per raccogliere il pentimento dei cattivi e sostituita dal desiderio di una armonia finale, suggellata dalle prossime nozze di Miranda e Ferdinando, non a caso figli rispettivamente di Prospero e Alonso. È il lieto fine prospettato dal romance, che però non risolve la complessità del personaggio di Prospero e soprattutto l’ambiguo senso tragico della sua dedizione alle arti magiche, compreso il forte richiamo letterario alla Medea delle Metamorfosi. E non solo. Come ha sottolineato Harold Bloom nella sua lettura di questa ultima favola della maturità di Shakespeare, nella tessitura narrativa di The Tempest e nel personaggio di Prospero sembra permanere un mistero. E pone la domanda: «Perché il testo allude con tanta sottigliezza alla storia di Faust per poi trasformare la leggenda fino a renderla irriconoscibile?4» 

La presenza di un confronto sotterraneo tra i due personaggi è certo molto suggestiva, a prescindere dalla conclusione dello stesso Bloom, che sembra propendere per una implicita riduzione del personaggio di Marlowe a modello ironicamente fallimentare nei confronti del ruolo quasi-divino ricoperto da Prospero. Il ruolo di Prospero oscilla infatti tra l’ambizione punita del Faust marlowiano, che emerge nel lungo racconto-prologo del primo atto, e uno sviluppo anti- tragico del personaggio. 

Come Faust, avido studioso di arti occulte, Prospero non è però un eroe tragico compiuto5. Egli partecipa della tragedia di Faust come di quella di Lear, e condivide con Lear la colpa di essersi allontanato dalle responsabilità dello Stato. 

Prospero: «The government I cast upon my brother, / And to my state grew stranger, being transported / And rapt in secret studies» (I. ii. 75-77)6. 

Ma la colpa di Prospero nasce come per Faust dall’amore per lo studio, dalla sua dedizione ad un’arte occulta che contiene il pericolo del diabolico7. «Arte», sottolinea Melchiori8, è una parola-chiave di The Tempest, forse la più importante, in rapporto dialettico con quella «natura» che domina il tessuto verbale del Lear . 

Per «arte» (solo la parola art/arts ricorre trenta volte in The Tempest) si intendeva l’arte magica, anche se il termine veniva esteso a tutte le attività intellettuali volte al superamento della condizione naturale dell’uomo. E Prospero descrive se stesso come uomo di impareggiabile valore nelle arti liberali: «1or the liberal arts / Without a parallel» (I. ii. 73-74). 

È difficile stabilire quali fossero nel Rinascimento i confini tra il ruolo del filosofo, dello scienziato o del mago. Una questione assai complessa che lo storico Garin esamina a partire dall’affermazione di un nuovo tipo di intellettuale inquieto, «non vincolato ad ortodossie di sorta, uno sperimentatore di ogni campo della realtà come Leon Battista Alberti o Leonardo da Vinci, anelante a verità arcane e rivelazioni misteriose come Ficino, mago come Cornelio Agrippa, banditore di pace universale come Erasmo, medico dei corpi nell’armonia con le forze della natura come Paracelso, testimone di verità come Giordano Bruno»9. 

Certamente, il clima culturale dell’Inghilterra di Elisabetta e poi del regno di Giacomo I combinava l’interesse continentale e umanistico per i classici con le istanze puritane della Riforma, che ponevano in primo piano la questione della salvezza e delle Scritture. Gli ideali umanistici della generazione di Shakespeare passano attraverso libri quali Schoolmaster (1570) di Roger Ascham o la traduzione delle Vite di Plutarco ad opera di Thomas North (1579), e si aprono al neoplatonismo che giunge in Inghilterra soprattutto attraverso i modelli italiani (Il Cortegiano di Castiglione venne tradotto in inglese nel 1561). 

Gli esiti del neoplatonismo, rilanciato in Europa sul finire del Quattrocento da Marsilio Ficino, sono molteplici e riguardano il filosofo come l’uomo di scienza, fino a toccare i territori della magia e dell’occulto, in un comune disegno di indagine universale sui rapporti tra le cose, ed in primo luogo tra uomo e natura. 

L’«Arte» di Prospero, suggerisce Kermode, ha in questo senso una doppia funzione: da un lato è capacità soprannaturale di governare gli elementi della natura, conquistata attraverso uno studio virtuoso e consapevole, dall’altro, è riflesso di un simbolico mondo platonico dominato dall’intelletto e opposto al mondo materiale dei sensi e degli istinti che sull ‘ isola è rappresentato da Caliban10. 

Prospero può trasformare le umane passioni e gli appetiti dei sensi convertendoli ad una più nobile ragione (la trasformazione è anche il concetto fondamentale di tutto il processo alchemico, e attraversa The Tempest, suggerita dal sea-change della canzone di Ariel). Ed emerge infine una tensione verso una visione ‘ordinata’ della storia, nella quale la legittimità della successione dinastica è garantita dalle nozze di Miranda e Ferdinando. 

La magia bianca di Prospero, opposta alla magia nera di Sycorax, e tuttavia così potente da vincere gli incantesimi della strega che prima di lui aveva dominato l’isola, è stata respinta. In qualità di mago Prospero ha forse superato gli ambigui confini tra un’arte benevola e la stregoneria, e il conflitto simbolico tra la memoria di Sycorax (adombrato anche nel richiamo letterario alla Medea ovidiana) e il proprio potere sembra in ultimo confluire in una privata e tutta umana battaglia tra bene e male11. Così, in una delle battute più enigmatiche del dramma, egli riconosce come appartenente a sé quella creatura mostruosa nata dalla strega, e rivolgendosi a Caliban dice: «this thing of darkness 1/ Acknowledge mine» (V. I. 275-276)12.  La «barbara» magia deve cedere il posto alla storia e ad una morale imperniata sul perdono, il cui valore cristiano appare però più funzionale ad un recupero laico dell’ordine civile; ed è possibile scorgere una implicita aderenza a quella condanna della magia contenuta nel trattato di Giacomo I, Basilicon Doron, e variamente presente nel dibattito religioso e nella cultura del tempo, come nella commedia satirica di Ben Jonson intitolata The Alchemist (1610) e rappresentata dalla stessa compagnia di Shakespeare un anno prima di The Tempest. 

Il racconto shakespeariano sfocia nella ricomposizione delle armonie precedentemente spezzate: il motivo filosofico della discordia concors annunciato dalla forma del romance. Se non fosse per quello spirito tragico che continua ad affiorare in Prospero, nel pensiero per il proprio futuro di solitudine e di morte, in quella Milano dove: «Every third thought shall be my grave» (V. I. 312)13. Fino all’Epilogo, che, come ha osservato Kott14, sembra un inquietante ritorno al punto di partenza, una grande fuga lirica dagli accenti strazianti. 

Prospero: «Now I want / Spirits to enforce, art to enchant; / And my ending is despair, / Unless I be relieved by prayer, / Which pierces so, that it assaults / Mercy itself, andfrees allfaults» (Epilogue, 13-18)15. 

Gonzalo, vecchio e onesto cortigiano, è stato testimone privilegiato dell’inafferrabile mistero della condizione umana, e ha rivelato la spaventosa nudità quasi alchemica di quel percorso di conoscenza dentro l’isola che coinvolge tutti, personaggi e spettatori. 

Gonzalo: «Al! torment, trouble, wonder, and amazement /Inhabits here. Some heavenly power guide us / out of this fearful country! (V.I. 104-106). «Al! of us (found) ourselves / When no man was his own». (V.I. 212-213)16. 

Nell’arco di un tempo compreso tra le tre e le sei, in un significativo rispetto delle unità aristoteliche, Prospero ha celebrato, per l’ultima volta prima di lasciare l’isola, la meravigliosa e terribile magia del mondo che diventa teatro, e che, scrive Agostino Lombardo17, rimane il senso più profondo di The Tempest. 

Maria Paola Altese

NOTE 

1 W. Shakespeare, La Tempesta, trad il. di S. Quasimodo, Mondadori, 1991, p. 149-150. «O voi, elfi dei colli, dei ruscelli, e dei laghi tranquilli e delle selve; ( … ) / o voi piccoli gnomi che a lume di lunafate cerchi d’erba aspra che la pecora / non bruca, che per gioco fate nascere / i funghi di mezzanotte e con gioia / udite il grave coprifuoco; voi, / mie deboli potenze: / col vostro aiuto ho oscurato il sole / a mezzogiorno, suscitato i venti / impetuosi ho sollevato il verde / mare in furia contro la volta azzurra, / dato fuoco al tremendo / e strepitoso tuono, (. .. ) / con la mia arte potente, / al mio comando, le tombe svegliarono / i morti, si aprirono a liberarli». 
2 Ovidio, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Einaudi, 1994, p. 257-259. «Notte, fedelissima custode dei misteri; astri d’oro, che con la luna succedete ai bagliori del giorno; ( … ) Terra, che fornisci ai maghi erbe potenti, e voi brezze e venti e monti e fiumi e laghi, déi tutti delle foreste, déi tutti della notte, assistetemi! Grazie a voi, quando voglio i fiumi tornano fra le rive stupite alle sorgenti, rendo immoto il mare agitato, immoto lo agito per incantesimo, nuvole scaccio e nuvole raduno, mando via i venti oppure li chiamo, (. .. ) sradico e smuovo le querce, le selve, ordino ai monti di tremare, al suolo di muggire, alle ombre di uscire dai sepolcri». 
3 «Rinnego, ora, la barbara magia (. .. ) / spezzerò la mia verga / e la metterò giù molte tese / sotto terra, e là, dentro il mare, dove / non giunge lo scandaglio, affonderò il mio libro», cit. 
4 Harold Bloom, Shakespeare, The Invention of the Human, (1998), Milano, 2003, p. 491. 
5 Molti critici hanno sottolineato la complessità interpretati va del disegno di The Tempest che si fonda sull’unione di tre diversi tipi di strutture drammaturgiche: tragica, pastorale, romanzesca. Cfr. Alessandro Serpieri (a cura di) , La Tempesta, introduzione, Marsilio, 2001. 
6 «Affidai il governo a mio fratello. In breve tempo, / rapito dagli studi di magia, / divenni indifferente al mio alto grado». trad. il. cil. 
7 Il «rapt in secret studies» di Prospero sembra evocare l’esclamazione di Faust «Tis magic, magic that hath ravished me» (Marlowe, 110), conferendogli una connotazione negativa che contiene il pericolo del diabolico. Cfr. Vaughan and Vaughan (editors) The Tempest, introduction, The Arden Shakespeare, 1999, p. 64. 
8 Giorgio Melchiori, introduzione a La Tempesta, in Teatro completo di William Shakespeare, Milano, 1981, pag. 786. 
9 Eugenio Garin, (a cura di), Luomo del Rinascimento, Bari, Laterza, 1995, p. 170. 
10 Frank Kermode (editor), The Tempest, introduction, The Arden Shakespeare, 1954, pag. XLVIII. 
11 Cfr. Stephen Orgel (editor), W. Shakespeare, The Tempest, introduction, Oxford, 1994. 
12 «Riconosco come mio / questo essere delle tenebre». trad. il. cit. 
13 «Ogni tre pensieri, uno sarà / per la mia tomba». trad. il. cit. 
14 Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo (1961), Milano, 2006, pag. 167-170. 
15 «Ora non ho più spiriti al comando, / non ho potere più per incantesimi, / e la mia fine sarà disperata / se non m’aiuta almeno una preghiera / che giunga in cuore
alla Misericordia,
/ liberando ogni mio peccato». trad. it. cit. 
16 «Tormento, angoscia, meraviglia e terrore / abitano qui: una potenza celeste / ci guidi fuori da questo luogo spaventoso». «Noi abbiamo / ritrovato noi stessi,
quando nessuno era più se stesso». trad. il. cit. 
17 Cfr. Agostino Lombardo, La Grande Conchiglia, Bulzoni, 2002. 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 25-28.