Shakespeare e i romantici
Wilhelm Meister, protagonista dell’omonimo romanzo di formazione di Goethe, legge Shakespeare e ne rimane folgorato. Nella prima parte de Gli anni d’apprendistato di Wilhelm Meister1, il distacco da una famiglia borghese di solidi mercanti e l’incontro con una compagnia di attori sarà determinante per il giovane Wilhelm (forse già profetica versione tedesca di William) e per la sua evoluzione spirituale, segnata profondamente dalla scoperta della possente e umana verità che muove il mondo di Shakespeare, e soprattutto dalla lettura, illuminante, dell’Amleto.
I romantici furono gli ammirati costruttori di un’interpretazione psicologica e problematica del personaggio di Amleto: un intellettuale imprigionato nei labirinti del pensiero, dentro oscuri interrogativi mai soddisfatti sull’uomo e sul suo destino. «It is we who are Hamlet»2. Con questa frase Hazlitt sottolineò la presenza di un teatro della mente, una corrispondenza rivelatoria, universale, tra lettore (o spettatore) e personaggio.
Amleto, scriverà Coleridge, è un punto di partenza nella strada della speculazione filosofica; è l’opera di Shakespeare che più di ogni altra riflette il genio del suo creatore3.
Nel dibattito tra classici e romantici, a sostegno delle idee ‘moderne’ sulla poesia e sull’arte, Shakespeare diventa un simbolo del nuovo spirito, e accanto a lui compaiono i nomi di Omero, Dante, Milton.
Il nazionalismo storico ottocentesco contribuì certamente a consolidare la coscienza di una pluralità di letterature differenziate, e in questo modo venne dato impulso ad una maggiore circolazione di opere straniere, di traduzioni, di scambi. Uno dei risultati più significativi fu il diffondersi delle idee intrise di un rinnovato senso di spiritualismo provenienti dalla Germania, che da più parti sottolineavano l’universalità della facoltà poetica e il primato dell’immaginazione.
Così, l’opera di Shakespeare, nel corso del Settecento avversata da illustri detrattori come Voltaire, che, ribaltando una posizione inizialmente favorevole, la giudicò rozza e priva di gusto4 rappresentò, nell’Ottocento romantico, un esempio di quella ricerca del sublime che in Inghilterra aveva preso le mosse dal trattato di Burke5. Il sublime veniva codificato come una nuova categoria estetica che trascendeva i canoni classici del bello formale, per affermare una visione grandiosa, irregolare, spesso oscura o terrifica, ma capace di suscitare una profonda risonanza emotiva. L’atmosfera di cupa attesa e di sospensione all’inizio del primo atto dell’Amleto, seguita dall’apparizione dello spettro, è letta da Coleridge in questi terrnini: «It does indeed convey to the mind more than the eye can see»6. Un approccio all’arte che diventa psicologico e che in poesia come in pittura apre la via ad una visione non mediata della natura, e a quello che sarà il soggettivismo romantico7.
L’irregolare poeta del teatro elisabettiano offriva un modello drammatico che non poteva essere uniformato agli ideali classici e neo-classici di poesia epica, lirica e tragica, riconducibili maggiormente a Virgilio, Petrarca e Racine. Ma fu proprio nella mescolanza di stili e di generi (tragico, comico, patetico) e nel rifiuto pressocché totale delle unità aristoteliche, che Shakespeare ebbe un ruolo importante nella trasformazione del sistema letterario europeo in senso moderno.
È celebre la battuta di Polonio nel secondo atto dell’Amleto, dove in un arguto gioco linguistico vengono proiettate le innumerevoli combinazioni dell’invenzione drammatica:
The best actors in the world, either for tragedy,
comedy, history, pastoral, pastoral-comical,
historical-pastoral, tragical-historical, tragical-
comical-historical-pastoral, scene individable or
poem unlimited. Seneca cannot be too heavy nor
Plautus too light. For the law ofwrit and the liberty,
these are the only men8.
Un effetto qui chiaramente parodico, ma che esprime una tensione intrisa di scetticismo verso una realtà inafferrabile e in continua trasformazione, che tanto assomiglia all’anelito perenne del poeta romantico, non di rado declinato nelle forme dell’ ironia.
Il «modello shakespeariano» passò anche grazie alle monumentali traduzioni che già sul finire del Settecento circolavano in Europa; basti citare Le Tourneur in Francia, o Schlegel e Tieck in Germania, e l’immaginario romantico si nutrì del mondo multiforme e dei personaggi creati da Shakespeare.
La passione per il bardo ebbe tuttavia un suo contraltare ideologico che svela un orientamento anti-francese: le lezioni di A. W. Schlegel così come alcune conferenze shakespeariane di Coleridge vengono concepite all’ombra dell’espansionismo napoleonico. A. W. Schlegel tiene le sue lezioni nel 1808 in una Vienna occupata dai francesi, e la stessa Madame de Stael, sostenitrice del nuovo vento letterario proveniente dalla Germania, e ammiratrice di Shakespeare, sarà esiliata da Napoleone per ben due volte, nel 1803 e nel 1806.
Contro le tendenze egemoniche e paneuropee della Francia e della cultura neo-classica, i cui precetti si erano diffusi in Europa soprattutto attraverso l’opera di Boileau9, Shakespeare rappresentava una individualità poetica che, secondo Herder10, nasceva piuttosto da una tradizione nazionale e nordica, da una lingua e da un teatro nazionali. E al tempo stesso i filosofi romantici sottolinearono il valore universale del genio shakespeariano: A. W. Schlegel definì Shakespeare su «Athenaum» come «il vero e proprio centro, il nocciolo della fantasia romantica»11.
Coleridge è stato un importante mediatore tra Germania e Inghilterra, e la sua teoria del genio appare improntata sul pensiero di Kant come di Schelling e Schlegel. Il genio per prima cosa doveva essere oggettivo ed esprimere l’universalità e la verità della natura umana nella lingua stessa della natura, conferendo così alla poesia unità di sentimento.
E contemporaneamente, in Shakespeare, il genio coincide con la capacità poetica di creare e trasformare: l’atto creativo è esso stesso fusione in una unità12. Coleridge interpreta la scrittura drammatica di Shakespeare all’interno di una visione organicistica che contiene una sintesi di matrice idealista tra due principi opposti: il dramma è «una syngenesia (una specie di fiore), ciascuno ha invero una propria vita ed è un individuum, ma è nello stesso tempo un organo dell’insieme»l3.
La questione della verità come aderenza alla natura rimbalza alla critica romantica inglese dalla autorevole voce di Johnson, che nella prefazione alla sua edizione di Shakespeare del 1765 lodava il drammaturgo quale sommo poeta della natura, assolvendolo così dalla mancata osservanza dei precetti classici. Una ammirazione oscurata tuttavia da alcune ombre.
Come annoterà Hazlitt14 più di un cinquantennio dopo, Johnson giudicava la natura nella sua regolarità, secondo un’idea di ordine proveniente dal senso comune, così che il poeta doveva essere pittore della natura; ma è una natura che, secondo Hazlitt, appare in ultimo come morta. Le tinte fosche o i bagliori improvvisi non potevano interessare l’intellettuale-simbolo dell’età augustea, attento al disegno generale piuttosto che all’originalità del particolare.
Nei personaggi shakespeariani, soprattutto nei grandi eroi tragici, Amleto, Otello, Macbeth, Lear, convivono passioni contrastanti, e l’universalità della natura umana si riflette, e persino si compie all’interno di un destino individuale.
Da Stendha115 a Manzoni emerge l’idea della verosimiglianza nella rappresentazione della storia e dei personaggi. In Shakespeare passioni e azioni si combinano secondo frequenze dai toni più diversi, e l’effetto è un senso di realtà.
Nella Lettre manzoniana16 a Chauvet, l’Otello viene preso ad esempio del nuovo sistema tragico, in opposizione alla Zaira di Voltaire.
Il tema d’ella gelosia, corrispondente nelle due tragedie, trova nella creazione dei personaggi di Shakespeare una forza genuina, che per Manzoni viene dalla verosimiglianza nella resa dei sentimenti, in relazione ad un percorso unitario in cui anche gli oggetti (il ruolo centrale del fazzoletto) posseggono un proprio, naturale valore drammatico. Il fazzoletto è un potente strumento che risuona cupo nella mostruosa trama di Iago:
Her honour is an essence that’s not seen;
They have it very oft that have it noto
But for the handkerchief. .. 17 (IV, l)
E Iago apparirà alla critica romantica come «il male senza ragione», nella famosa espressione di Coleridge18, il male che travolge gli uomini e i loro destini, «il male per il male»19, scriverà Croce nel primo Novecento.
La fascinazione per il male, per gli abissi oscuri della mente, incubi o sogni, sarà un tratto riconoscibile di tutta la cultura romantica e oltre, che attinge all’immaginario shakespeariano producendo incroci e passaggi tra le arti: musica, pittura, letteratura. Dalle composizioni di un giovane Berlioz che dedica una sinfonia drammatica all’amore di Romeo e Giulietta, al melodramma ottocentesco, ritroviamo titoli e opere ispirate direttamente al teatro di Shakespeare; e se l’Otello più celebre rimane oggi quello di Verdi, Rossini lo aveva musicato nel 1816 e fu al tempo un’opera molto amata.
Dall’incubo al sogno, la pittura di Fussli ha saputo modulare i temi di un’arte che tende al sublime; e compaiono visioni magiche e oniriche popolate di elfi e fate tratte dal Sogno di una notte di mezz’estate, oppure lo squarcio infernale che illumina i volti scarni, contorti in una smorfia deforme, delle streghe di Macbeth. O ancora, sarà l’ennesima lettura della storia di re Lear ad offrire a Keats una meditazione poetica su quello che definisce «the bitter sweet of this Shakespearian Fruit»20.
E infine anche il romanticismo francese tributerà il suo omaggio senza riserve al genio shakespeariano. Nella prefazione al Cromwell, datata 1827 e considerata manifesto del movimento, Victor Rugo scriverà: «Shakespeare è il teatro». Un teatro in cui grottesco e sublime, tragedia e commedia risuonano nel medesimo afflato. Un teatro che eternamente muove l’umanità, e nel quale ancora si rispecchia il nostro presente.
Maria Paola Altese
NOTE
1 W. Goethe, Wilhelm Meisters Lehrjahre, 1796. La redazione del Meister attraverserà un lungo arco di tempo e l’ultima edizione sarà pubblicata nel 1829.
2 «Amleto siamo noi.» W. Hazlitt, Characters oj Shakespeare’s Plays, «Hamlet», London, 1817.
3 S. T. Coleridge, Lectures on Shakespeare, 1813. Sulle interpretazioni romantiche di Shakespeare si veda J. Bate (a cura di), The Romantics on Shakespeare, 1992.
4 Voltaire, Leures écrites de Londres sur les Anglois, Paris, 1734.
5 E. Burke, A Philosophical Enquiry imo the Origin oj our ldeas oj the Sublime and the Beautiful, 1757.
6 «Essa trasferisce alla mente più di ciò che gli occhi sono in grado di percepire.» S. T. Coleridge, Lectures on Shakespeare in J. Bate cil. p. 311 .
7 Si veda in proposito S. Perosa, Transitabilità, Palermo, 2005.
8 «I migliori del mondo per tragedia, commedia, storia, pastorale, pastorale comica, pastorale storica, tragedia storica, pastorale tragicomicostorica, scene a
composizione e poema a filastrocca. Seneca non può essere troppo grave né Plauto leggero per questa gente. Per lavori scritti o capricci inventati sono i soli.» (Il, ii). Amleto, trad. il. di E. Montale, in Teatro completo di William Shakespeare a cura di G. Me1chiori, Milano, 1994.
9 N. Boileau, L’Art Poétique, 1674.
10 J. G. Herder, «Shakespeare» in Von deutscher Art und Kunst, 1773.
11 Si veda in proposito A. O. Lovejoy, Essays in the History oj Ideas (1948), trad. il. L’albero della conoscenza, Bologna, 1982, p. 129.
12 Sui debiti verso i filosofi tedeschi nel pensiero critico di Coleridge si veda R. Wellek, Storia della critica moderna, «L’età romantica», cap.V1, Bologna, 1990.
13 R. Wellek, cit. p. 186-187.
14 W. Hazlitt, cit.
15 H. B. Stendhal, Racine et Shakespeare, 1823.
16 A. Manzoni, Lettre à M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, 1819, pubbl. 1823.
17 «Il suo onore è un’essenza che non si vede / Spesso ce l’hanno quelli che non l’hanno / Ma in quanto al fazzoletto…» (IV, I) W. Shakespeare, Otello, trad. it. a cura di A.
Lombardo, Milano, 1996.
18 S. T. Coleridge, Coleridge’s Shakespeare Criticism, edited by T. M. Raysor, 1930.
19 B. Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari, 1920.
20 «La dolcezza amara di questo frutto shakespeariano.» J. Keats, On Sitting down to read King Lear once again, in Poems, 1817.
Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 21-24.