Morte di un Gladiatore
Non troviamo né la disposizione mentale né, tantomeno, le parole per dire il dolore dovuto alla perdita così inaspettata quanto desolante del socio del Centro Internazionale “Lilybaeum”, del collaboratore redazionale di “Spiragli”, dell’amico vulcanico, buono, Davide Nardoni.
La notizia della morte ci ha colti di sorpresa, essendosene «andato in punta di piedi». Impotenti dinanzi al triste evento, mentre ci stringiamo, partecipi al loro lutto, attorno alla cara Signora Ermelinda, ai figli e ai nipotini, ringraziamo Donato Accodo che prontamente ha colto il nostro invito a ricordare il compianto prof. Nardoni, essendogli stato per più di un decennio molto vicino come amico ed editore, avendo avuto modo di conoscere, meglio di altri, l’uomo e il grande cultore di latinità che fu o, meglio, è per le opere già pubblicate e quelle ancora inedite che, speriamo, possano vedere quanto prima la luce.
Se n’è andato in punta di piedi, senza nemmeno darci alla lontana il benché minimo indizio dalla sua imminente dipartita; si può dire ch’è morto in piedi, forte e tetragono qual era, alla maniera dei gladiatori romani, di quegl’indomiti lottatori che amava di un amore smodato e dei quali scrisse in una delle sue tante opere dal titolo appunto I Gladiatori romani, esaustiva e originale in una superba interpretazione storico-filologico-sperimentale, unica e irripetibile, un autentico gioiello del suo multiforme ingegno, oggetto di consultazione e di studio nelle varie università e accademie di numerose nazioni.
Chi scrive ben sa che la scomparsa di Davide Nardoni è stata una grave perdita per tutta l’umanità. Chi in lunghi anni di sodalizio gli è stato vicino e lo ha seguito in tutte le sue affascinanti scoperte, non può fare a meno di sentire il vuoto incolmabile della mancanza di un uomo che, stravolgendo il metodo di ricerca tradizionale, rivisitando tutte le fonti del passato, infliggeva un duro colpo alla nefasta filologia classica, spiazzandola dal soglio della sua pretesa infallibilità del “principio di autorità”, sempre da lui avversato con fermezza e inoppugnabili argomentazioni alle quali, di certo, non è mancata l’ispirazione degli uomini eccezionali.
Col metodo anabatico e cotabatico della filologia sperimentale (sorregge il diacronico crivello nardoniano), rifacendosi al significato delle parole che gli uomini prima inventavano e poi impietosamente abbandonavano all’incuria del tempo nel secolare cimitero dei fossili linguistici, egli le ripescava e risuscitava dando loro il giusto posto di connotazione e descrivendone i vari mutamenti e il perché di tali trasformazioni nel ciclo millenario dell’eterno divenire. Con questo suo sistema Davide Nardoni ha ricostruito la storia di Roma e della romanità, volendo dimostrare quanto sia stato infausto alla verità il temerario ardire di coloro che si sono lasciati traviare da pregiudizi con i quali per secoli hanno invano tentato di oscurare la fama dell’Urbe.
Ora che non c’è più il Maestro di vita e di battaglie combattute insieme nel fervore di dimostrare la fondatezza dei nostri sforzi, saranno in molti a voler ricredersi e a seguirlo nel fascinoso mondo delle sue ricerche, rinunciando a quel perverso “principio di autorità” e alle sue mostruose contraddizioni. Gli daranno ragione e col tempo la grideranno ai quattro venti anche perché e soprattutto perché da morto – credono i sofoni sofastri, com’egli era solito definirli – più non darà loro fastidio, avendo deposto per sempre, nel segreto della tomba, la magica chiave che ha dischiuso le porte a incontrovertibili verità da altri mai nemmeno una sola volta sospettate. Ma la loro è solo illusione, ipocrita illusione di chi avvezzo a denigrare i vivi e a offendere la memoria dei morti! Nessuno potrà mai riuscire a confutare e a stravolgere le sue certezze tenacemente radicate nel più profondo sostrato linguistico della storia dell’umanità, se è vero, come incontestabilmente vero, che nulla è più potente della parola, scintilla di facoltà divina, che tutto eterna col trascorrere dei secoli.
Nel corso della sua laboriosa esistenza, sorretto da una ferrea volontà e da una competenza di vero e proprio scienziato, Davide Nardoni è riuscito a dimostrare che la storia dei popoli è la storia di quel che la parola ha detto e fatto scrivere senza mai alterare il significato delle proprie origini, se non per deviante volontà degli uomini e quindi per loro crassa ignoranza. Altrimenti, alterando o eludendo questo significato, anche le nostre, prima o poi, diverrebbero origini ignote, insufficienti a farci conoscere chi realmente siamo perché prive di elementi che ci riportano al principio di quando con la parola e per la parola avemmo un nome e, via via, una connotazione in tutta la gamma della sua significatività espressiva.
La nostra collaborazione e le nostre fatiche non sono cessate con la morte né mai cesseranno, se è vero che questa non spegne la fiamma della verità che ha sempre spinto i generosi a conoscere nuovi orizzonti. Di concerto con Lui di là e noi di qua continueremo insieme a parlarci e a sorreggere finché non avremo compiuti i compiti che ci prefiggemmo di raggiungere sin dal nostro primo incontro, sempre caparbiamente uniti nell’unico desiderio ch’è stato sempre il nostro più grande amore: liberare la storia dalle incrostazioni della menzogna, ritrovare verità sepolte e dimenticate per incuria degli uomini e dei secoli, tramandare ai posteri una visione più chiara e più credibile delle trascorse società per consentire loro di capire quella dei nostri giorni sempre più alla deriva per aver voluto “rompere” ad ogni costo con quel che di meglio c’era della tradizione dei nostri padri.
Credenza e fede popolari vogliono che per ogni anima che sale in cielo una luce si accende e brilla con le altre: se ciò è vero, è allora altrettanto vero – ci sia consentito almeno per pio desiderio e ancor più per arcano presentimento -, è vero che, nel momento in cui il gladiatore del pensiero e della penna pervenne ai superni lidi del mondo ultraterreno in cui non c’è posto per le passioni e per le meschinità degli uomini, le elette schiere dei trapassati Latini esultarono di viva allegrezza, facendo ala ad un confratello di sì grande ingegno.
A noi, scrivendo da queste pagine dalle quali Egli ci ha spesso deliziato e illuminato con le sue dotte argomentazioni ora seriose, ora inconfutabilmente vere e comunque tutte di un’acutezza che sa dell’incredibile, a noi piace chiudere l’elogio di Lui con un tacitiano giudizio di uno dei suoi tanti estimatori, il quale, interrompendo un nostro collaboratore che aveva cominciato a intessere i pregi dell’insigne vallecorsano, si espresse dicendo: «Lei non mi parli di Nardoni. Nardoni è un genio». Una breve pausa, e poi annuendo: «Il genio della Filologia sperimentale, il più spaventoso mostro della storia di Roma e della romanità».
Donato Accodo
Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 3-5.